Metrica: interrogazione
766 endecasillabi (recitativo) in Eumene Venezia, Pasquali, 1744 
Siamo, illustri guerrieri, anime invitte,
delle nostre fatiche al fin pur giunti.
all’empia Laodicea sfavilla in fronte
l’usurpato diadema e indarno oppone
la superba città l’alte sue torri.
co’ vostri applausi; ed Artemisia alfine,
mercé del vostro braccio, andrà più lieta
sul patrio soglio a dar le leggi al mondo.
sin che l’ombra notturna il ciel ricopre,
l’alme rinfranchi, onde vi trovi il giorno
più pronti all’armi e più feroci all’opre (Si parte l’esercito)
il tuo valor ti chiama ed il mio core
a’ vicini sponsali. In un sol giorno
il piacer dell’amore e della gloria.
alle mie fiamme arride, ogni periglio
mi è facile conquista; e la mercede
il merto a’ miei trionfi e alla mia fede.
che dia fine a’ tuoi rischi, a’ miei timori,
e co’ preghi l’affretto a’ patrii numi.
ch’io parli a te con libertà...
                                                   Mi offendi,
se mi ascondi il tuo cor.
                                             Temo.
                                                           Che mai?
Temo Eumene in Eumene; e mi spaventa
la dubbia sorte a provocar dell’armi.
una vita sì cara. Assai facesti
se la città ostinata ancor non cede.
testimonio sarà della grand’opra.
pugni il braccio servil; ma in te, mio duce,
tutti conserva; e tuo maggior trionfo
l’assicurar sia di Artemisia il core
una città già al suo cader vicina.
Va’, non temer; trionferò, regina.
                               Che fia, Peuceste?
                                                                  Assorta
de’ tuoi sì forti e numerosi abeti
han la parte maggior l’onde spietate;
dell’ingordo ocean fuggian dispersi,
                      Barbare stelle!
                                                   Ancora
spargon le accese travi il fumo e il foco
e il mar ne freme e ne rimbomba il lido.
L’ombra accresce gli orrori; e ne confonde
gli alti silenzi il gemito infelice
di chi muor tra le fiamme o pur tra l’onde.
                                            Invan più speri
                                  Quai novi mali?
Arsi i tuoi legni ed occupato ha il porto
il Macedone altero. Egli poc’anzi,
dalla vittoria sua reso più ardito,
lena e coraggio al difensor smarrito.
che diam saggio di noi. Crescan nimici,
vittime cresceranno al nostro braccio.
                        E più tarda.
                                                E più feroce.
lo, se lo chiedi, anzi che sorga il giorno,
                              Come?
                                              In qual guisa?
Quanto a te svelo a me poc’anzi espose
nimico prigionier; né mai concessa
senza il sicuro testimon del guardo.
per sotterraneo calle, opra del caso,
s’apre oscuro sentier; per giri obbliqui
quindi si passa alla città, là dove,
timor non ha di assalitor nimico.
                   Già intesi. In te mi affido e teco
                                  Ah, mio signor...
                                                                  Peuceste,
l’adorata regina e il caro figlio
consegno alla tua fé. Tu gli assicura.
                       Non più. Vanne.
                                                       Ubbidisco.
(Mi presagisce il cor qualche sciagura).
i più fidi a raccor. Tu scegli i tuoi.
Duce, in breve mi attendi.
                                                  Io già confido
Nell’opra scorgerai meglio il mio core.
Antigene, ove corri? Allorch’Eumene
potrai tradirlo? E perderai vilmente
il tuo duce, il tuo amico ed il tuo onore?
Ferma e più saggio... Ah, nol consente amore.
hai corrotto il mio cor, la mia innocenza.
Soffrir poss’io che tu sia d’altri? Eumene
avrà con la vittoria i tuoi sponsali?
E l’ozio mio ne affretterà quel nodo?...
Ite, vani timori; e perché sciolto
sia l’ingiusto imeneo, tutto si perda.
le tue dolci speranze. I tuoi delitti
che i delitti di amor colpe non sono.
pugnano gli elementi; il foco e l’onda
serve alla tua vendetta; e ne fan fede
que’ naufragi al tuo sguardo e quegl’incendi,
che nel mio sen co’ tuoi begli occhi accendi.
la tua prima vittoria o il primo dono
che Laodicea dall’amor tuo riceve.
Da quel grande Alessandro, a cui tu fosti
e per natali e per virtù congiunto,
generoso altre volte a me impetrasti
che ora sul capo a stabilir mi vieni.
Ti è premio l’opra. Io, con offrirti il trono,
non pago il benefizio e rendo il dono.
regina, o pur t’infingi. Un dolce sguardo,
che tu volga al mio cor, basta alla brama;
fa l’ultimo piacer di un cor che ti ama.
(Finger mi giova). Ancor quest’alma sente
tutto il primo terror. L’armi nimiche
stringono la città; minaccia Eumene;
e la rival nipote ancor c’insulta.
                                   Vinti i perigli,
                                  Dunque mi lice?...
Con sì cara promessa io son felice.
                                       (Seco poc’anzi
meco ti arresta. Alla tua fede occulto
fra speranza e timor, l’anima mia).
tutto è disposto e manca solo all’opra
il fido stuol che, fra l’angustie e l’ombre,
sol l’indugio tradir. L’alba è vicina».
                             Eumene?
                                                 Ed al tuo braccio
                              Qual timor? Disponi
a tuo piacer. Brami che vada io stesso?
                                           Questo è il gran mal ch’io temo.
potria irritar più che finir. Lui vivo
e in mio poter, posso dar leggi al vinto
e la corona assicurarmi in fronte.
Trarrollo in ceppi a’ piedi tuoi.
                                                         Sì, prence,
che far mi puoi. Scegli i più fidi all’opra.
di nol ferir. Nella tenzon rifletti
che mi lasci il tuo amor quasi in ostaggio
e che, piagando lui, piaghi te stesso.
Avrò nell’alma il tuo comando impresso.
che mal sicuro era poc’anzi e quasi
minacciava rovine al dubbio passo.
Vedrai fra poco il tuo nimico in ceppi
ch’io più non l’ami? Ah, fin d’allor che il vidi
al fianco di Alessandro, oh quanto all’alma
costò caro il piacer degli occhi miei!
ch’ove ottenni il diadema il cor perdei.
da un vano affetto? È tuo nimico Eumene.
                                 E se l’amor palesi?
                                 E che dirà Leonato?
                                  È in mio poter l’amarlo?
Il dargli un cor che mi ha rapito Eumene?
                               Non più. Taci. Lusinga
gli affetti miei, non gli atterrir. Può solo,
chi l’adula piacer, non chi ’l corregge.
è facile a dar fede al suo diletto!
Quanto il pasce d’inganni un cieco affetto!
                                  Egli l’invia, regina,
forse de’ suoi trofei nunzio felice.
non l’abbia il troppo ardir, la troppa fede.
Perché troppo il desia, l’alma nol crede.
                                           Alte sventure.
                                          Ci ha tolto
rabbia di stelle il generoso Eumene.
non m’ingannò. Morto è il gran duce.
                                                                    È morto?
Dov’è? Perché non teco? A che non riede?
                                         Tratto poc’anzi
fu prigionier nella città.
                                             Respiro.
Ancor vive per noi l’invitto Eumene.
Più non cel renderan le sue catene.
perché il trascuri Laodicea.
                                                   Mio sposo,
                                     Da’ pace al duolo
che pur me opprime. Hai nel tuo campo ancora
chi sostener le tue ragioni e puote
                        Che giova il pianto? All’armi,
tutto si tenti. Andrò la prima io stessa,
tra il ferro e il fuoco, e sarò esempio agli altri.
Peuceste, e il fiero assalto. Oggi il nimico
poco forse godrà del mio dolore.
Cede ogni rischio, ove combatte amore.
Se può al braccio supplir la fede e il zelo,
mi sei fatal. Tu sol mi hai tolto Eumene;
tu lo affidasti, e al gran periglio forse,
                                     Ah, che dirai? Mi offendi...
                          Di qual sospetto...
                                                             Vanne.
Né più soffrir né più mirar poss’io
la funesta cagion del pianto mio.
de’ tuoi misfatti... Ah, quai rimorsi ascolti?
L’impeto del dolor chiedea lo sfogo.
Si placherà. Tolto il rival, daranno
calma all’altrui furor, pace al tuo affanno.
Abbiam vinto, o regina. Il fiero Eumene
è in tuo poter. Pien di terror, già parmi
il già superbo assalitor nimico.
tutto attendea. Col tuo valor mi affido
la vittoria compir. Ma fuor di rischio
                                 Pria che tramonti il giorno,
se vuoi, fia sciolto il duro assedio.
                                                              Intendo.
guidami tosto il prigionier.
                                                   Men volo.
il sicuro sentier. Parti e mi lascia
qui maturar della grand’opra il fine.
So che dir vuoi. Tempo miglior destina
                                 Rispondi almeno
                                        Forse è vicina.
di svelar le tue fiamme, anima amante).
l’inganno altrui tuo prigionier mi han reso.
stanca le tue vendette. Omai le attendo;
un giusto sfogo al tuo furor sospendo.
vi è chi ti pregia. (Ah, volea dir: «Ti adora»).
Se il mio scettro sia giusto o sia rapito,
qui garrir non convien. Vanti Artemisia
le sue ragioni; ho anch’io le mie. La sorte
oggi approva i miei dritti e i suoi condanna.
tanto di fasto. Il mio periglio ancora
farà più forti e più feroci i miei.
Non lusingarti. Oggi Artemisia il trono
mi cederà, s’è ver che t’ami.
                                                     Come?
Ti vuol libero e salvo? Oda a qual prezzo.
sua regina m’inchini; ed ella stessa
sottentri a’ ceppi tuoi.
                                          Qual legge!
                                                                 Al campo
andrà tosto messaggio il fido Arbante.
fia l’impero e la vita o pur l’amante.
(Impallidir lo fa il periglio).
                                                    (Ah temo,
Artemisia, il tuo amor. Misero Eumene,
se per salvarti ella si perde).
                                                     (Ei parla
             (Che mai farò? M’aita, amore).
(S’ei principia a temer, spera, o mio core).
cerchi a tanti litigi, a tante stragi,
                                     Qual fia?
                                                        M’ascolta.
qual fede avrà? Come dispor può mai
rozzo e vile orator l’alme irritate?
io stesso a’ miei. Ritornerò, se forse
Artemisia dissente, a’ primi ceppi.
Non ti fidare. (A Laodicea)
                            Del ritorno, o duce,
                                         Avrai, se il chiedi,
guerrieri miei. Ti darò Aminta istesso,
unica prole; e se il tuo cor più chiede,
caro e più della vita e più del figlio,
il mio onor qui t’impegno e la mia fede.
lasciarti in libertà. Ritorna al campo.
Mi è noto Eumene; e Laodicea tu ancora
o la nipote o me fra’ ceppi attendi.
Gli si rendano l’armi; e voi ’l guidate
fuor delle mura, o miei custodi, al campo.
or sì sono regina, or son felice.
                Gli arcani miei tu poco intendi.
sarà mio quest’impero e mio quel volto.
tu sei delusa; e s’ei vi riede, è stolto.
Eumene io rivedrò? Perché disciorlo
mi divien pena. A’ danni miei già sento
rivoltarsi il mio cor. Crudel, che feci!...
Ma ti assicura, Antigene. Innocente
forse Eumene ti crede; e te tradito
non avrà forse Laodicea. Fa’ core.
Potria reo palesarti il tuo timore.
Antigene, che pensi? Allor che tutto,
solo ti trovo e non ben lieto?
                                                     Amico,
offenderei col mio dolor. Sol temo
ingannarmi con tutti. Ancor dar fede
                                Potrai negarla al guardo?
(Or sì, al primo timor l’anima riede). (Si apre la porta della città e si vede calar un ponte, da cui scende Eumene con le guardie di Laodicea che, accompagnatolo poco discosto dalle mura, si ritirano, tornandosi ad alzare il ponte ed a chiuder la porta come prima. Eumene si avanza verso Peuceste ed Antigene; ed al suono di stromenti militari, seguita da’ suoi, esce ad incontrarlo la regina Artemisia)
mi costaro i tuoi ceppi! E quanto sangue
per la tua libertà sparger dovea!
mi ritardava il tuo ritorno, forse
al mio cedea troppo spietato affanno.
fumino i tempi e si coronin l’are.
oggi cangia di aspetto! Allor che i rischi
vinti credea, presa Sebastia, in trono
Artemisia riposta e me felice,
l’armi nimiche; i miei son vinti; insulta
Laodicea più feroce; e me, sia fato
o inganno sia, veggo tra’ ceppi; e appena
il venirti a recar l’ultimo addio.
               Sì. Tornar deggio; e al mio ritorno
ha così Laodicea. Barbare leggi
ma mi si salva a prezzo tal la vita
che l’averla a bramar saria viltade.
                                           Chiede una pace
l’abbia a fermar. Chiede il tuo regno; e chiede
per la mia libertà le tue ritorte,
esser possa il timor della tua morte.
                                         Io qui ne vengo
nella tua fronte il tuo pensier. Regina,
con l’amor tuo non consigliarti in questo
destin crudel. La gloria mia tel vieta.
Tu vivi e regna; io tornerò cattivo.
la mia sciagura a mia gran sorte ascrivo.
di morire per te? Di regno e vita
per più bella cagion spender poss’io?
vivi tu, onor dell’armi, idolo mio.
sforzo minor non attendea. Fu questa
sicurtà che da’ ceppi a te mi trasse.
render me vil, te sfortunata. Vivi
che dee farti regina. Io far ritorno...
pria che soffrir la tua sciagura. Alfine
sei nel tuo campo e Laodicea, se puote,
fuor del nostro poter venga a ritorti
Peuceste, alle catene. Ivi la fede
in ostaggio lasciai. Serbar la devo.
                                    Vanne e mi attendi
nel real padiglion fra brevi istanti.
ti facciano pietà, duce, i miei pianti.
non fia chi scopra il mio pensier. Tu solo,
                                    Io, duce?
                                                       Ho teco
di che parlar. (Si turba).
                                              (O me infelice!)
come fuggisti? Al par di me tu ancora
fosti nel rischio. Io mi difesi invano;
te chi salvò? Come ne uscisti? Parla.
Signore... (Ahi, che dirò?)
                                                 Segui.
                                                               Al tuo braccio
Pugnava anch’ io; ma conosciuto Eumene,
si rivoltar. Te sol chiedean. Te vinto,
cessò la pugna; ed io ne uscii.
                                                       Vilmente
dunque o fuggisti o me lasciasti? Io, s’era
secondato da’ tuoi, da te difeso,
non è facile a un reo. Ti accusa il volto;
il labbro ti tradisce; e ti condanna
dicesti e mi sei noto. Or tu pur vedi
quale io mi sia. Pria di parlarti ancora,
colpevol ti sapea. Solo ten chiesi,
con tuo periglio e disonor non fosse.
a’ tuoi propri rimorsi io ti abbandono.
Colpevole ti abbraccio e ti perdono.
O troppo Eumene generoso! O troppo
Antigene infedele! Invano, amore,
un geloso timor. Sol tutto innanzi,
mi si affaccia l’orror del tradimento.
ti abbraccia e ti perdona, allor che in rischio
e il conosce e l’obblia. Che far presumi?
e l’odio di Artemisia e quel de’ numi.
Nell’ardua impresa, a cui ti accingi, o core,
non ti faccia pietà. Fuggi, se il temi,
                                  Ah, signor, pietà ti prenda
                Muor, se tu parti; e l’infelice
sparsa la fronte ha di un color di morte.
per te, per lei, fa impallidir di tema.
con piè tremante ella ti cerca e move
languido il passo. Eccola appunto.
                                                              O dio!
resister non potrai forse, o cor mio.
Vado l’opra a compir. Giungesti a tempo. (Ad Artemisia)
Fermati, Eumene; e non temer ch’io venga,
a far pompa crudel del mio dolore.
di un’austera virtù. So che non ponno,
da queste labbra e da quest’occhi uscendo,
farti pietà le lagrime e i sospiri.
vengo al nobil disegno e ad affrettarlo.
ove ti chiama il tuo gran cor. Tu brami
morir per me. Vanne a morir. Tu il dei
far per tua gloria. I tuoi gran fini intendo.
Vanne; ma pria tu ancora intendi i miei.
Che pensi far? (Quanto è dolente, o dei!)
hai coraggio a morir; ma core ho anch’io
                                     Come?
                                                     Il mio sangue
verrà a spezzar le tue catene. Io stessa
offrirò a Laodicea per conservarti.
degno di me. Già m’intendesti. Or parti.
Di qual’armi ti servi ed in qual punto,
regina, a’ danni miei? Tu andar cattiva?
Va’ pur; tutto oserò, perché tu viva.
Generosa Artemisia, a’ tuoi spaventi
torno a’ miei ceppi, è ver; ma per me temi
Laodicea me non odia. Ella per anco
cinta da’ miei, quando pur sete avesse
del sangue mio, come oserà versarlo?
Mi serberà per conservarsi. Lascia,
mia regina, ch’io torni alle catene,
e che almen viva in te, morto in Eumene.
fedele a’ tuoi nimici, a me infedele;
serbi a lor più che a me? Perché, o crudele?
Cara, non lagrimar; sento che tutto,
vacilla il mio coraggio... In tal periglio,
Qual novo assalto? Ed in qual tempo?... Ah figlio!
Ove corri? Ove fuggi? Al caro figlio,
                         Ma tu gli neghi un guardo?
Prole infelice, in che peccasti? È questo,
che porge Eumene al suo sì caro Aminta?
E ancor resisti a’ preghi?
                                               O dei! Peuceste,
Pria morirà che quindi mova un passo.
Se a pietà non ti movi, hai cor di sasso.
Signor, de’ tuoi disegni istrutto il campo,
corre, non ha chi ’l freni e già d’intorno
ogni sentiero alla tua fuga ha chiuso.
contro al mio onor? Vuol che di fede io manchi?
E il suo importuno amor viene a tradirmi
nel destino miglior della mia gloria?
Di’. Chi fu il traditor? Chi fu l’iniquo?
diè spirti all’alma e ti tradì con merto.
col nome di delitto e quanto sai
me ne incolpa e punisci. Un tal delitto
di che farmi arrossir non avrà mai.
Dopo i miei benefizi, è questo il prezzo
che ne ricevo, ingrato? Io che poc’anzi...
Ma or or ti pentirai de’ tuoi disegni.
Olà. (Ad una delle guardie)
            Che mai risolve!
                                            O lui salvate
o me uccidete ancor, stelle spietate. (Si alzano in questo due ali del padiglione e si vede tutto l’esercito di Eumene in atto d’impedirgli la partenza)
non più miei, non più cari, ove vi guida
un mal nato desio? Mi state attorno,
perché infame rimanga? E tale a voi
spergiuro e vile il vostro duce aggrada?
che tenta il bel chiaror de’ giorni miei,
vi punirò. Se mi voleste esangue,
perdonar con più core io vi saprei. (Dà di mano alla spada)
del nobil ferro e, per tornar fra’ ceppi,
ti ricerca una via nel nostro seno.
il suo petto, ecco il mio. Piaga, trafigi.
Perché, o duce, ti sia chiuso ogni scampo,
i cadaveri nostri anche d’inciampo.
strinsi in guerra più volte, ora in altr’uso
non volgerò. Ma se ostinati ancora
mi ucciderò sotto a’ vostri occhi. Il braccio
all’infamia e alla vita; e voi sarete
di quel fato crudel che in me temete.
O virtù, a’ danni tuoi troppo ingegnosa!
Ma già tempo è ch’io torni ove mi chiama
e di gloria e di fé nobile impegno.
               Sposo.
                              Signor.
                                              Datevi pace,
sia degno del tuo amor, non del tuo pianto.
che, se amante mi perdi, eroe mi acquisti.
Antigene, Peuceste e voi miei fidi,
proseguite i trionfi. Alle vostr’armi
gl’interessi commetto. A voi si aspetta
rimetterla sui trono, a voi di Eumene
tentar la libertade o la vendetta.
Risospingi le lagrime e ti accheta.
Fa’ che il tuo cor m’imiti; e il mio periglio
nella costanza tua m’insegni il figlio.
la sua infanzia commetto. A man più cara
confidar non sapea più caro pegno.
in sì dolce piacer non mi rapia,
ti doveva esser madre e tal ti sia.
Più dir non mi rimane. Addio, miei cari.
               Sposo.
                              Non più.
                                                 Ferma; che fai?
Tu pensi di salvarmi e a morir vai?
                                         Se il permettete,
perdonatemi, o numi, ingiusti siete. (Si parte)
Andiam. Ti sento, o cor; soffrir non puoi
e pur sei la cagion de’ pianti suoi.
Tornate pure a ripiombar sul core,
È un cambio disugual versare il pianto,
corre a sparger il sangue, a spirar l’alma.
che più di te mi sia soave il regno?
mi sia la libertà, mi sia la vita?
nutrir devo il rigor de’ miei silenzi?
                                 Ah, Laodicea, ben vedo
che ti son mal gradito e che non m’ami.
Se ti parlo di amor, mi chiudi il labbro;
se ti chiedo mercé, mi dai lusinghe.
un sol tenero sguardo, un sol sospiro.
ciò che dar posso. Amo ed avvampo anch’io;
benché in petto di donna, è l’amor mio.
Debole cor pianga e sospiri amando.
e lagrime e sospiri. Amo, non peno;
perché agli occhi l’ascondo e il chiudo in seno.
                 E che mi arrechi?
                                                    A te ritorna
                                      Ritorna Eumene?
(Ecco il tempo, o cor mio, di palesarti).
T’intendo. Sola in libertà ti lascio
di favellar col prigionier.
                                               Tu ancora
qui ti udirò non osservato anch’io).
Eccomi, Laodicea. Serbo la fede
che ti giurai. Tuo prigionier ritorno.
tu mi rendi i miei ceppi e schiuder fammi
la più cieca prigion. Del mio destino
tu richiedi catene e tu le dai).
non l’attendea, mi è forza il dirlo, io stessa,
non perché la tua fede o il tuo coraggio
mi facesse temer. Credea che a core
a chi ti giura, a chi ti deve amore.
                                            Sediamo, o duce.
Tu, Nesso, ti allontana; e fa’ che alcuno
                                  Ubbidirò. Regina,
tempo è svelar ciò che racchiudi in seno.
ha gettate le briglie e rotto il freno).
Eumene, entro a’ miei lumi invan tu cerchi
o il fier desio della vendetta; e pure
che non tentasti a’ danni miei? Non giova
qui ripeterlo a te. Dicanlo i fiumi
gonfi di sangue e l’arse terre e tutti
i regni miei della tua man distrutti.
                        Lo so. Dimmi, qual mai
ragion le può restar sul patrio regno
ch’io dal grande Alessandro ottenni in dono?
dispose a mio favor, come può mai
un dono di Alessandro esser ingiusto?
                                     Che dir vorresti?
Che vorrei dirti? Anch’io potrei... (Che parlo?)
a palesar tu vai gli occulti incendi?)
tutto han detto i miei lumi e tu gl’intendi.
per te avvampa, per te. S’oggi il conosci,
non è ch’oggi sol ti ami. Allor ti amai
che al fianco di Alessandro io ti mirai.
Troppo forse diss’io; ma non importa.
Innanzi a que’ begli occhi, onde nell’alma
la mia ragion si perde e si confonde.
Laodicea, dal tuo amor gloria ricevo;
l’aggravio sentirò di un sì gran dono;
non è più nel mio sen. Sai chi ’l possiede.
e lusinghe e perigli alla mia fede.
serbi quest’uso. Alma real non serva
disami, se le nuoce. Al suo vantaggio
accommodi gli affetti, ond’essi a lei
portino dignitade e non servaggio.
a una falsa ragion. Correggi...
                                                       Eumene,
cerco rimedi e non consigli. Approvi
Io ne ho quella pietà che dar ti posso.
Un’inutil pietà quasi è crudele.
quando sei ne’ miei ceppi e quando posso...
                                             Dunque i tuoi torti
Non ti amerei, se ti volessi esangue.
                              Venga. In disparte
sazie non siete ancor delle mie pene).
Rimanga Eumene. Un prigionier non temo.
regina, a tuo favor. Dinanzi a lui
non ascondo l’inganno e non mi pento.
mi è gloria compiacer. Duce, ti arresta.
(Agitato pensier, che ti molesta?)
Regina, in tuo poter tu vedi Eumene
e l’autore io ne fui. Lo sappia anch’egli.
tanta guerra a compir, vengo ad offrirti
Artemisia cattiva. A me da’ il core
di trarla ne’ tuoi ceppi.
                                            Ah traditore.
sarà scarsa mercede a sì grand’opra.
Premio è l’opra a sé stessa. In eseguirla
e soddisfo a’ miei voti e il giusto adempio.
Volgiti a me, core infedele ed empio.
È possibile mai che il mio perdono
ti abbia reso peggior? Puoi rimirarmi
nella parte più cara, in cui più vivo?
                                           Va’ pure, ingrato;
cerca la gloria mia da’ tuoi delitti.
I miei mali, o crudel, ti perdonai;
non aspettar ch’io ti perdoni mai.
Il tuo inutil furor cessar dall’opra
non mi farà. Vado a compirla. Addio.
Artemisia in Sebastia. In me confida.
Giusti numi, e il soffrite?
                                                Or vedi, Eumene,
se il ciel m’invia con che atterrirti.
                                                                Ancora
                Pensa, crudel, che qui poc’anzi
mi è di affetto e di regno e che profitto
che d’allor che parlò si fe’ delitto.
l’arte di spaventarmi. A questo colpo
freme la mia costanza e mi abbandona.
Ma che paventi, Eumene? Il mal che temi
certo non è. La tua regina ancora
e affretteran la pena a un traditore.
Che udii! Che vidi! Io pur son solo e posso
sfogare il cor con libertà di sdegno.
Ah Laodicea! Così m’inganni? E dai
che devi alla mia fé? Ch’io meritai?
non son amante e non Leonato. Eumene
non mi è rival, non mi è nimico. In lui
cada la mia vendetta, in lui si tenti.
e nel pianto dell’empia i miei contenti.
oprar mi è forza. Andiam, miei fidi.
                                                                   E dove,
                                   Dove, o regina,
riconosca il mio zelo e la mia fede.
E nell’uopo miglior tu mi abbandoni?
                                    Per te sperava
Per me, barbaro autor di sue catene?
Antigene, il confesso. Ebbi poc’anzi
un ingiusto timor; ma ciò che oprasti,
a favor del mio duce entro del campo,
me colpevole fece e te innocente.
Mal mi ravvisi. Al primo error ritorna.
Riconoscimi pur; qual fui, tal sono.
                                            Invan gli sparge. Addio.
Va’ pure, infido. Or che mi lasci, io torno
a’ miei primi sospetti e a te do fede.
il dolor non avrò di rimirarti.
E perciò ti abbandono. Addio, regina.
(Se più miro quegli occhi, il cor vacilla).
Lo veggo, amico. A bersagliarmi han preso
                                             In preda al duolo
                           Che più mi resta? Il duce
veggo avvilito e Laodicea più forte;
mi tradiscono i miei; tutto mi è avverso,
fuor che il solo morir, che più mi resta?
Ti consola, o regina. Ancor ci giovi
sacrificar più vittime innocenti.
a salvar non lo basti, eccomi anch’io
pronta a versar per la sua vita il mio.
chi può sperar giorno sereno e lieto?
scintillarne le luci e a poco a poco
dileguarsi le nebbie e le procelle.
                                     Principessa.
                                                              Eh lascia,
lascia i nomi del fasto e a me rispondi
con quei di amor. Non ti abusar, crudele,
di una bontà che ti conserva; e tanto
non lasciarmi arrossir d’inutil pianto.
in testimon del cor. Vedo che mi ami
più di quello che dei, più che non merto.
mi sorprende, mi turba; e pur è forza
ch’io ne senta il dolor di esserti ingrato.
nulla più ti richiedo, odio i tuoi doni;
e di me stessa alfin rossor mi prende.
A que’ ceppi, o spietato, a quegli orrori
                    Olà.
                               Che chiedi?
                                                       A me qui reca
per pena di un ingrato aspre catene.
                       Quest’ira...
                                              Odimi. Io t’amo;
ma tu ti perdi inutilmente. Hai tempo
ancora di salvarti e consolarmi.
Dammi un placido sguardo e mi disarmi.
La mia vita è in tua mano. Il men che temo
è di morir, per chi morir sol devo.
No, ma più della vita amo la fede.
                             Ecco, regina, i ceppi.
orribili stromenti. E che mi giova
legare il piede a chi non posso il core?
(Fan costei delirar sdegno ed amore).
Scegli, Eumene. Ecco i ceppi, ecco lo scettro.
                                       Ancor mi tenti? Il piede...
Sì, s’incateni. Alla prigion si guidi.
della mia debolezza, alma superba.
                               Sì, vanne. Ah, Laodicea
altro carcere, ingrato, a te volea.
                                Leggi, regina.
                                                           Il foglio
che racchiuder può mai? Nulla di lieto
mi presagisce il tuo sembiante.
                                                          Leggi.
                                             (Come improvviso
sdegno, tema e rossor le sparge il viso!)
Che mi si chiede! Il popolo, il Senato
vuol la morte di Eumene? E la mia destra
dà leggi una regina o le riceve?
Sia il furor che gli accende iniquo o giusto,
                                                Ah, non fia vero.
Temi, se non vi assenti, il tuo periglio.
                                      Tanto la vita
                          Dimmi più tosto amore.
che si svelasse il nostro inganno.
                                                            E credi?...
Eumene, che ti offese, ebbe il tuo affetto;
Leonato, che ti adora, ha gli odi tuoi.
Intesi e vidi e tu negar nol puoi.
                                 Tu sei convinta, ingrata.
Ma se il genio ti astrinse ad adorarlo,
perché finger poi meco? A che ingannarmi?
(Qui d’uopo è simular, non irritarlo).
Abbia libero ingresso. (A tempo ei riede).
a chi fu traditor non dar più fede.
Mi avea fede Artemisia e già sperava
condurla a’ ceppi tuoi; ma, non so come,
dell’inganno si avvide; e a me fu forza
co’ miei guerrieri abbandonar quel campo
alla mia vita io non vedea più scampo.
Non sempre arride a’ nostri voti il cielo.
un nobil cor, più che all’evento, al zelo.
nol risparmiar. Tutto me stesso e i miei
per te son pronto a consacrar fra l’armi.
dalla città poco discosto ed ivi
attendono i miei cenni, io quivi i tuoi.
che più posso sperar? M’invia la sorte
a tempo le difese ed io le accetto).
                            Ah, rifletti...
                                                     I tuoi guerrieri
sieno di Laodicea scudo e sostegno.
e sia tua gloria il conservarmi un regno.
le tue difese a un traditor? Qual mai
esser può la sua meta, il suo disegno?
tu metti a repentaglio e vita e regno.
nell’arte del regnar mi han fatta esperta.
Vedo a tempo i perigli; e a tempo scelgo
                                 E che?...
                                                   Ne’ mali
mi consiglia il mio cor, non l’altrui zelo;
mi toglie amor, l’altra mi rende il cielo.
da te sperar? Geloso amante offeso
sol medita vendette. A te son noti
gli affetti miei. Più non ti ascondo il vero.
Ma che far ti poss’io? Che far tu vuoi?
ch’arda a’ lumi di Eumene e non a’ tuoi.
Perfida, e pur t’intesi! A me sinora
non parlò Laodicea; parlò la frode,
l’inganno, il tradimento. Ite a dar fede
a beltà che lusinghi, incauti amanti.
o tradisce o non cura i vostri pianti.
Ma ancor ti pentirai. Quella che volgo
conoscer ti farà qual io mi sia.
Opprimetemi pur, stelle tiranne,
l’odio vostro e il livor. Lagrime vili
non mi usciran dal ciglio e non mi udrete
divider in sospiri il core oppresso.
e so in varia fortuna esser lo stesso.
                           O dei! Che avvenne?
                                                                   Alfine
                                  Lei prigioniera? O fato!
carcere è chiusa, ove non lice. Avvinta (Si apre la porta secreta e n’esce Laodicea)
il decreto fatal della sua morte.
                                 Sì. Del fier ministro
l’ignudo ferro e sta per tormi un colpo
la superba rival. Tu impallidisci?
la tua costanza? Il tuo gran cor ti manca?
abbi di tua fiacchezza e ti rinfranca.
(È possibile mai? Questo un inganno
sarebbe? O pur lo credo?... Ah, ch’egli è vero.
Mel dice il cor, me lo conferma l’alma
con secreti spaventi). Ah, Laodicea,
de’ tuoi mal nati e vilipesi amori
la vendetta crudele in chi ti offese,
hai la vittima pronta. Ei cada esangue
Vo’ di Artemisia e non di Eumene il sangue.
                                  E che far deggio?
                                                                    In questo
dammi fede di sposo e amor mi giura.
                                         Vedi, altro mezzo
                        Se il neghi, ella sen mora.
Quella fé che giurai? Quella, per cui
sacra a me più che il ciel, più che gli dei?
se di Artemisia a ricomprar la vita
sia tuo; godilo in pace. Aggiungi a questo
e la vita di Eumene e i regni sui.
Ma la fede non posso; ella è di altrui.
altro frutto, o crudel, che la mia morte,
che un disonor, che un pentimento eterno.
(Ah, che a vincer quel core arte non scerno).
                                         Che fia?
                                                           Leonato
                   E come?
                                     A tua difesa invano
gli si oppongono i tuoi. Caddero i primi;
fuggono gli altri. Ei già si avanza e grida
                                              Empio.
                                                              Che temi?
                            Cresce il periglio.
                                                              O dei!
Nesso, va’ alle mie stanze e qui mi arreca
l’armi di Eumene. Ecco, ti sciolgo io stessa
da’ ferrei lacci. Anche spietato e rio,
è pur forza ch’io ti ami, idolo mio.
                                           Eccoti l’armi.
                              Prendile, o duce. Vanne
a difender te stesso; e ti sovvenga
far non potrei, se ancor mi amassi, o ingrato.
ma non a te. Di tua pietà vedrai
altra il frutto goder. Rompi una volta
gli antichi nodi e in libertà ritorna.
se fosse, o stolta, in tuo potere il farlo.
svenar Eumene, allor che stringe il brando.
Eccomi in tua difesa, eroe sovrano.
Al nimico destin resisto invano.
fuor di catena e di periglio.
                                                   Amico,
            La cara Artemisia.
                                                E quando mai?...
L’ha Antigene tradita e ben tu il sai.
                    Genitor.
                                      Sogno o son desto?
Sposa, figlio, cor mio, che giorno è questo?
tu dei la libertà, noi la vittoria.
fa la nostra fortuna e la sua gloria.
(Incauta Laodicea! Ben lo previdi).
(Alfin voi mi tradiste, o fati infidi).
coppia illustre di amor, nulla alla vostra
felicità più manca. Io ne son forse
non ultima cagion. Lecito sia
dirvi: «È vostro il trionfo e l’opra è mia».
                Sì, duce. Entro a Sebastia fui
fu la tua libertà, la tua salvezza.
                             Col suo furor, Leonato
mi agevolò l’impresa; e allor che vidi
dal geloso amator poste in tumulto
corsi alle porte e le occupai. Peuceste,
vi accorse a tempo e la città fu presa,
Laodicea prigioniera e voi felici.
Così fu in un sol giorno a me concesso
Eumene, Laodicea ma più me stesso.
Ferma. Il nome di amico e il sacro amplesso
                           Perché mel neghi?
                                                               È tempo
                Eumene un rival.
                                                  Che?
                                                              Sì, quel volto,
che piacque a te, me pur accese. Amore
mi fece reo, la tua bontà innocente.
per penar ti salvai. Nel tradimento
or l’emenda del fallo è mio tormento.
                      Addio. Per non mirarvi io parto.
turbar la mia ragion. Già il cor mel dice.
per non esser più reo, sempre infelice,
la fortuna mirar senza livore,
se molto ha di virtù, poco ha di amore.
Artemisia, vincesti; e di mia sorte
una vita miglior. Nel tuo possesso
ti assicuri il mio sangue. A te non chiedo
non mi avvilisco, ancor regina io sono.
non ti dovessi Eumene salvo, avrei
mi saprei figurar che in abbracciarti.
Donna real, lascia ch’Eumene anch’egli
un diadema dal crin, ten rende un altro.
Se il suo cor ti negò, ti dà un amante
degno di te. Sia tuo Leonato e seco
                              Il tuo voler mi è legge
né posso oppormi al mio destin. Leonato
merta il mio cor per la sua fede; e il merta
perch’è tua scelta. Accetto sposo e trono;
e caro mi sarà ciò ch’è tuo dono.
a Leonato il suo amor. Sappia che in esso
Da’ benefizi tuoi mi sento oppresso.
andiamo tutti a render grazie a’ numi.
                 O amor!
                                   Sposa.
                                                  Cor mio.
                                                                     Qual bene
                                          O padre amato!
Conservai la mia fede e son beato.

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