Metrica: interrogazione
738 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Roma, Bernabò, 1716 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi e ’l contumace Adrasto,
nell’aperte sue piaghe il suo delitto.
son degne del tuo nome e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto;
                                        (Fremo di sdegno).
Agl’amplessi del padre, un mio succeda,
al vincitor nieghi gl’amplessi?
                                                        Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           Anzi rival mi sei.
diedi al valor d’Ernando. I tuoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
                                             Il tuo rispetto
gl’affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo. (Piano ad Alessandro)
                                                              Oh amico. (Piano ad Ernando)
ma non senza rossor, non senza pena;
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzarò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che il suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor ma sappi intanto
che un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
                                          Che v’è? Che apporti?
Gran cosa, cosa grande, anzi grandissima.
                         Erenice?
                                            Oibò quell’altra...
                                               Oibò, è più viva
mentito il sesso e co’ suoi fidi accanto.
                                          Che far poss’io?
E ancor Gerilda avrà li miei rifiuti,
che con Elisa vivo più felice;
che io la voglia adorar, affé la sbaglia;
Gildo non vuol amare un’anticaglia.
Sì che purtroppo sono, oh confusione.
                      (Purtroppo, Gildo, è dessa).
e quell’altra è la serva in verità).
                                   (A te sen viene).
                                                                   (Oh numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo all’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giamai non viddi, ove fui noto e quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin d’amarti).
                                         Resto obligato.
                           Di segretario in grado
Non la conosco in verità. (Come sopra)
                                               (Che indegno).
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ahi giorno fatal) che in voi s’accese
allor che le giurasti eterno amore
io sol fui testimon del suo dolore.
ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon delle sue pene,
                                        Non mi sovviene.
                                   Non mi ricordo.
Non ti sovviene? Ingrato...
                                                  A chi favelli?
A te, a te. Così m’impose il dirti
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
estinguer nel mio sangue il mio dolore».
                            E del suo rio tormento (Come sopra)
                                           Non mi rammento.
(O dal crudele io son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditore ingrato?
Mi ha tradita il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucindo, e non cercar di più.
mi devi dir se mi ravvisi tu.
Parti tu ancora e non cercar di più.
Ed io ti seguirò, t’ho da parlare. (Partono)
Ch’io non cerchi di più! Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
Taci Erenice, il caro ben qui giunge;
testimonio fedel del nostro amore;
brama sì di goder ma taci, o  core.
                            Invitto Ernando!
                                                             (Oh vista).
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno;
mi esentò dalla reggia; io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose, minacciò, compiacqui
al suo furor; tolsi congedo e tacqui.
stringavi sposi un maritale amplesso.
non avrà il fatto; al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
L’essere così presto sì felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Nell’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco t’abbraccio.
                                                           Parti,
pria che il german qui ti sorprenda.
a trovar pace a te, mia vita, appresso.
(Io fui del mio morir fabro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
ma tu così pensoso? E che ti affligge?
                            Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer d’una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugl’occhi d’Erenice un mio comando.
                              Da lei che adori or prendi
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace;
nell’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti; a troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di por mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio, signor, per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è all’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba? Oh dio!
si serve amor per castigarmi; ei gode
che mia pena ora sia il suo rigore.
Di qual fallo son reo? Rispondi, o core.
e pur Gerilda ognor m’ha seguitato.
tu sei troppo arrabiata e non t’adulo,
non so che far per tormela d’appresso.
che dir dovrei; perché hai tu attestato
il nome di Gerilda esserti ignoto?
In quanto al nome sol, io mi ci accordo,
poiché se mal, se mal non mi ricordo,
Se in Lituania amor le promettesti,
e ten partisti poi tutto piangente,
                                       Menti.
                                                      Chi mente? (Cava la spada)
(Vo’ maledir quando ne fu parola).
                  Non c’è mi par, di’, la conosci?
m’è necessario far molto essercizio
e consultato il medico m’ha detto:
camina pure e mai non ti fermare».
Qui medico non v’è né medicina;
che il dirò, che in me manca la favella.
                                      Sì che sei quella.
                                         (Mi fa pur ridere).
sarai dell’amor mio, sarai del regno.
dell’aver vinto è tuo retaggio; vinse
coll’armi tue, col tuo gran nome Ernando.
tu reggesti la mano, ei strinse il brando.
Venga il nunzio stranier. (Alle guardie e sede nel trono)
                                                (Chi sarà mai?
Forse è Lucinda? Ah cor, che far dovrai!)
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella che, estinto il genitor Gustavo,
le belle spiaggie, il fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Vincislao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è freggio al debil sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(Oh dei! Fia meglio allontanarmi). (In atto di partire)
                                                                 Arresta,
dir mi riman, ti vuo’ presente.
                                                         (Oh inciampo!)
Costui, signor, mente l’uffizio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà se io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra di credenza, il re l’apre e leggendola guarda il figlio)
(L’empio si turba e impallidisce).
                                                               (Oh note!)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi!) Ah figlio, figlio, opre son queste
degne di te, degne del sangue ond’esci?
Tu cavalier? Tu prence? (Scende dal trono)
                                              A che?
                                                             Rimira, (Gli dà la lettera)
son di tua man? Li riconosci? Leggi.
Leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio alla pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segua il cor ciò che dettò la mano».
                         Leggesti? A qual difesa
                                                Or ora il dissi,
                                           (Oh dei).
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in mille parti la carta e la calpesta)
mentitor mi dicesti? In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon dell’armi io non ricuso.
                                           T’aspetto
                              Io la disfida accetto.
vorrebbe e pur non sa crederti il core;
parto non siano un dì le tue ruine,
che de’ superbi è sempre infausto il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume.
che, se cangio l’altar, non cangio nume.
                                         Un po’ bel bello.
ed esserti d’Elisa innamorato?
se non importa, molto importa a me.
e chi di voi vittoriosa resta
sarà mia sposa e allor farem la festa.
Bonissimo è il pensiero ed io l’approvo;
con la tua Elisa pugnerò ma voglio
che tu il giudice sii del gran duello.
della disfida porterà il cartello?
A questo io pensarò, l’offesa io sono
il giudice tu sei; vanne sul trono.
Or vado, il cielo te la mandi buona
che, se ben porti un grosso pettabbotto,
Elisa ti farà restar di sotto.
quel che io so far con questa mia bacchetta
che donata mi fu da un certo mago.
Col farlo spiritare di paura,
dell’offeso amor mio vuo’ far vendetta.
                                            Aspetta aspetta. (Qui escono dalla bocca del drago cinque mostri)
sono i suoi cicisbei. Guarda. Che dici? (Si mutano i mostri in cinque altre figure che poi formano un ballo)
Elisa è un’infedele e tu una strega. (Parte)
Gildo, Gildo ove vai, tu fuggi? Ascolta.
Te la farò scontare un’altra volta.
Non molto andrà che d’Erenice in seno
strinsi; affrettai; cor ebbi a farlo e ’l lodo.
il mio cor nel tuo seno; io vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
ch’ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lascia nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
Ancor ten prego; aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto;
non disser gl’occhi miei che il cor ti adora.
a favor d’Alessandro ancor mi parli?
Chi può mirar quegl’occhi e non amarli?
deggio, più che al suo labro, al suo gran core;
fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
senza desio, senza speranza t’amo...
ma col cor d’Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio t’adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa. Io solo
se ’l nieghi alle mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
mia beltade, io compiango i tuoi trionfi.
tua vittoria detesto, ogn’altro onore;
né ti chiedo trofei doppo il suo core.
quell’importuno e troppo ardito amante;
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea nell’alma.
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
che addosso non mi trovo un pelo asciutto.
                                   Il fuoco ch’hai nell’ossa
che le fece il mio amor, sprezza l’ingrata.
e sarà d’altro sposa in questo dì.
Come? Sposa Erenice? Oh dei! Ma dove?
                                    Nella ventura notte
si stringe il nodo ma con chi non so.
Così vicina è ancor la mia sciagura?
È tempo sì di vendicarmi, iniqua!
                    Vedi, signor...
                                                Non più.
Parto col mio furor; tu taci il tutto.
Non parlerò. (Stragi prevedo e lutto).
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette io fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è il sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che fine avrà la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura. (Vincislao va a sedere sul trono)
qual ti debba chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Dimmi, di’, Casimiro, ignoto il volto
Amor non promettesti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin; ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
                                      Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti?
la fede vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai; più del tuo sangue
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io, perfido, all’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?)
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
Pugnisi al nuovo giorno. (Ernando intanto
andrò a punir di quell’ingrata accanto).
No no, pugna volesti e pugna or voglio,
o tu cadrai o qui cader degg’io.
Tolgasi quest’inciampo all’amor mio. (Segue il duello)
di donna vincitor, dammi la morte.
                        E fingi ancora? Or via, mi svena;
sia gloria tua l’aver Lucinda uccisa
doppo il tradito amor, torle la vita.
Padre, già ’l dissi, un mentitore è desso.
Mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
sepellir la mia pena e il mio rossore.
Ma il mio labro ammutisca e parli solo
per impetrar giustizia o almen pietade
di Lucinda infelice il pianto e ’l duolo.
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
nell’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men dalla tua virtude, alto regnante,
attender non potea Lucinda amante.
Da te consiglio, o amor, l’alma non chiede;
son padre, è ver, ma son regnante ancora;
alla vergin real serbi il mio figlio
e allor di padre avrà da me gl’affetti;
il giuramento sprezza, ei provi allora
il rigor d’un giustissimo regnante.
Lodato il ciel, con queste vesti addosso
con quella burla avrà messo giudizio
bellezza che debb’esser disprezzata
che in corte con ognun fa la civetta.
Che Gildo per Elisa m’abbandoni,
e se ci casca più, lo voglio morto.
questa scontrafattissima figura.
come ti serbi Elisa tua la fede?
cascamorti ed amanti ell’abbia intorno?
Tutte le donne sono a una maniera.
Elisa è una pettegola ma tu
stretta parente sei di Berzebù.
                                   Creder nol posso;
una legion di spiriti serrata
e per questo tu sei così abbottata.
Io vuo’ che tu sii mio, che sola m’ami,
s’ho il modo da potermi vendicare.
(Di finger mi convien per il timore,
fin che fuggir posso di qua).
                                                     Che dici?
Pensando sto che t’amerei ma...
                                                           Che?
Ho gran timor di quella tua bacchetta,
in cervo, in bove mi puoi trasformare.
Non paventar, no no, statti pur cheto,
hanno tutte le donne un tal segreto.
Sì, la bellezza tua sol bramo e venero,
per te son divenuto un grancio tenero.
di non restar per te brugiata tutta
dalla fiamma d’amor ch’ho in petto accolta.
No non temer; la stanza è fatta a volta.
Gildo, dove è il mio figlio?
                                                  Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
Gildo, chiamisi tosto il duce Ernando.
e l’affanno e ’l timor; qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
quale acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma; e in che vi offesi o dei? (Appoggiandosi al tavolino si copre gl’occhi con la mano. Entra Casimiro con stile insanguinato)
                                           Padre... (Oh stelle!)
                                 (Ah che dirò?)
                                                              Rispondi.
mancan le voci; attonito rispondo).
Nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti;
ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
                                                   E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro spietato
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando amico.
(Vive il rival? Voi m’ingannaste, o lumi,
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor della tua morte.
ma per serbarlo in tuo servizio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua, lagrime chiedo e sangue.
Ti vuo’ giudice e padre; ah rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia ben t’è noto.
                                             A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempie.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
a me recar consorte il primo amplesso
egli dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, sulle mie soglie e quasi
sugl’occhi miei trafitto... Ahimè... Perdona
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida!)
Sì, morto è l’infelice; e allora ch’io
ti seguirò agl’Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal della vendetta
                                        Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza;
giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente;
il silenzio del labro e più di tutto
della stragge fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Oh destra! O ferro!) (Si lascia cadere lo stile dalla mano)
                                         Miserabil padre!
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui; se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar ch’hai nelle vene.
di te, di me; ragion, natura, amore
se re, se padre a me negar la puoi,
numi del ciel, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è il cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto,
io stesso mi condanno; io stesso aborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci).
Tu colà attendi il tuo destin.
                                                    Offeso
già sento in me la tua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando, un colpo solo
Chi è vicino a morir può dirsi estinto.
Un padre re può ben salvare un figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno,
il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo. (Sopragiunge Lucinda)
                                  (Oh dio, purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re; di Casimiro il capo
con l’amor mio dalle tue leggi esento.
tal lo dichiaro e un re non dee
rispetta il grado e il tuo rigor correggi.
nel far la colpa e la sua colpa il trova
rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
o due volte ingannata alma infelice.
Misera, e in che poss’io ripor più spene!
Della real promessa or mi sovviene.
sposo l’avrai né mancherò di fede.
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio e fa’ che sciolto
                                          Io pronto...
                                                                 Ah sire,
che nunzio io sia di lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, onde a te s’apra
                                 Eh non temer, regina,
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi Ernando? Vendicarti?
Ma dove? In chi, nell’uccisor fratello?
cadria nel padre e non saria vendetta.
Ma Erenice il vuol morto e il suo furore
dei lusingar per ottenere amore?
ti voglio, Ernando. A preservar si attenda
l’erede alla corona, il figlio al padre.
diam lagrime, non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e all’amor suo non pensi.
e meglio scoprirò s’ei sia spergiuro. (Spegne li lumi che stanno sopra il tavolino e siede sopra la sedia)
morto ancor si rammenta il mio bel nome!
Non so; un certo giovin forastiero
ferendo disse: «Per la destra mia
questo colpo Gerilda a te l’invia».
Vado, ben mio, ma non morire, aspetta.
                         Oh Gerilda maledetta!
che ancora per Elisa ei sente amore.
Ma di sua infedeltà vuo’ vendicarmi. (Si copre il viso con il fazzoletto)
scuopriti il volto, Elisa, anima mia.
guarda, osserva crudel. (Pur ce l’ho colto).
(Qui ripiego ci vuol, mi fingo stolto).
che dai fulmini tuoi voglia splendore.
(Che favellar?) Dunque tu sei...
                                                           Sette. (Posa il candeliere in terra)
No no, non vuo’ giocar; dico che tutte...
            Non gioco no; sentimi due...
Quattro. Venga da ber ch’ho guadagnato.
Ho gran dubbio che pazzo egli si finga.
Ma sia come si vuole, io so che ancora
spasima per Elisa e ch’è un frabbutto;
vuo’ che si penta e con un’altra burla,
o scoprirò s’è ver che matto ei sia
o almen vendicherò l’ingiuria mia.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Ch’io mora? E tanto grave è il mio delitto?
Ah sì! Per me cadde il fratel; ma cadde
Volea morto il rival; n’ha colpa amore.
sei mia gran colpa. Oh d’Erenice, oh troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché v’amai, sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel m’adora.
Lucinda a me? Per qual destino? Oh dei!
Secondi amor propizio i voti miei.
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia de la mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labro tuo morte non è ma vita.
                             Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi...
                                                               Ingrato!
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo; del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
che non sia inganno il mio gioir?
                                                             Ti accerti
                                    Già tutto oblio
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon, temer non dei.
Né sciolga un sì bel laccio altri che morte.
No, sponsali più insoliti e più strani,
all’apparato serve e li festeggia.
di giudice e di re sento il rigore,
e a soffrir tanti assalti il cor non basta.
Tu ciò ch’imposi ad affrettar t’invia.
son padre ancora. Allor che morte attendi
agl’imenei t’invito e ti presento
fuor che un tal dono. Abbilo a grado; il chiede
tuo dover, mio comando e più tua fede.
la sorte mia? Dovea morir...
                                                    Eh lascia
pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede. (Dà un anello a Casimiro che poi lo pone alla destra di Lucinda)
                           Mio ben.
                                              Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
all’amor tuo si è sodisfatto?
                                                   A pieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai;
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai. (Parte)
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re. Così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi;
se mi sei più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti?
                                                          Oh dio!
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
serbi il nome di figlio a chi t’uccide,
nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agl’Elisi, ombra costante,
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua, vanne, l’incontra; all’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta;
dal ferro uccisa o dal dolor.
                                                  Tu piangi?
Tergi le luci, addio mio ben.
                                                     Tu parti?
la pietà di quel pianto; andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre,
miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma a che giova qui il pianto? All’armi, all’armi.
tutto ardisci, o Lucinda; apriti a forza
nella reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo ed abbracciarlo
fuori di ceppi... Ahi! Dove son? Che parlo?
Tutta è cinta dal popolo feroce
la sarmatica reggia; ognun la vita
teco fra lor passai né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le reggie stanze.
                                                        Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a penetrar; che importa
veder la reggia; ahi dove andranno, dove
l’ire a cader, su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re!
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, m’agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio alla vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
alla patria, al monarca, alla tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real; vanne ed implora
                          Vuo’ pensar meglio ancora.
Seguiam suoi passi. Un sol rifiuto, Ernando,
non stanchi il tuo soffrir né lo sgomenti;
virtude al cor ti parla; ella s’ascolti.
Aspro, è vero, il camin, che lei n’addita,
renderà più soave al fido core
il fervido desio di gloria e onore.
Per seguitar la finta mia pazzia
che Gerilda credesse esser io donna.
Gildo coraggio, su, portati bene.
La la la la va va, la la va va.
O Gildo miserabile, infelice!
Olà, chi sei che qua ne vieni?
                                                       Io dubito
                           Vattene via pur subito.
Uh caro Gildo mio, vieni pur qua,
ch’io del tuo mal già sento gran pietà.
che fuor di me mi porti il grave affanno
e su l’ingannator cadrà l’inganno.
Eh Gildo non son io, Gildo è uno stolto;
al gran seno, al bel volto ed alla gonna,
tu non conosci ancor ch’io sono donna.
                                            No, che non sono.
che m’abbagliò de’ tuoi be’ lumi il sole.
ha voltato da ver le carriole.
rendimi Gildo mio per carità.
ma Gildo a ritrovar vanne tu stessa.
perché al veder sei matta più di me.
Tu il matto solo sei, non io la matta.
to’ ch’io possa morir fra cento altri anni.
e per consorte ancor ti prenderei
ma poi penso che sei troppo...
                                                        Che?
Dico che tu sei bella e buona robba
ma è un peccato che sii un poco...
                                                              Come?
io ti vuo’ in sposo idolo mio, mio sole.
                        Ho pensato e ripensato
ma poi risolvo e non sto più perplesso,
io son contento e vuo’ sposarti adesso.
Oh cara gioia! Oh via facciamo i patti.
E con le condizioni che ti pare,
per mia sposa legitima t’accetto.
in conseguenza è tua la robba.
in campagna, ai giardini e a la verdura.
Va’ pur dove ti par che sei sicura.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi gioie sognava e nelli figli
oggi devo morir. Itene e i lieti
apparati d’amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Vincislao, più genitor non sono.
incerto fra il timore e la speranza,
                 Sorgi. (Anima mia, costanza).
Nelle tue mani è il mio destin.
                                                         Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire;
se discolpe cercassi, io sarei ingiusto;
sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove signor?
                                                           A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori
e insegnami costanza allor che mori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te della vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio;
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietà io non m’assolvo;
se l’esempio del re non le corregge.
tu giungi amico. In sì gran uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                     E che?
                                    Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita; solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia delle leggi io non ti deggio.
Prencipe, al tuo destin scampo non veggio.
                             Oh dei!
                                              Che avvenne?
                                                                          Il prence...
                                           Oh non è questo.
La corona perdesti, non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
Gl’hanno rotti li ceppi e nel tumulto
dover, pietà, legge, natura, a tutti
sodisfarò, sodisfarò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
sperai teco goder tutto il mio bene,
provo per la tua morte affanni e pene.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma, qual furor vi move?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Doppo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traetemi al supplizio o questo ferro
trafiggerammi; e tu datti alfin pace,
mio solo amor, mio sol dolor, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
tu mi amasti? Tu m’ami? Ahi fiera sorte,
e voi lasciar la sposa tua fedele
per incontrar con gloria tua la morte?
depongo ancor la spada e piego il capo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque (Va a sedere sul trono)
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro delle leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai; la legge
padre, non re mi troverà l’amore.
                                (Ancor non lo comprendo).
Qual re avesti, o Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni.
Figlio! (Vincislao si cava la corona e la vuol porre al figlio)
                Che fai, signor?
                                               Conviene
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei.
il popolo t’acclama. Io reo ti danno
assolver ti potrai con la tua mano.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue publicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gl’odi privati.
Ti abbraccio amico e tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   Oh sorte!
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che il vivo abbracci.
nell’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.

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