Metrica: interrogazione
527 settenari (recitativo) in Venceslao Parma, Rosati, 1724 
de l’alme più rubelle
grand’esempio e gran pena,
là su l’Istro confessa
Le tue vittorie, Ernando,
del poter nostro. Hai vinto;
vieni, onde al sen ti stringa,
o forte del mio regno (Lo abbraccia)
                                O sempre
generoso Alessandro. (S’abbracciano)
non dee lasciarmi ingrato.
                Temo nel prezzo
Vil non fia ciò che puote
Dirò, poiché lo imponi,
tutto il premio ch’io cerco
in sé racchiude un volto.
                    Ernando amante?
                 Ah! Più nol soffro.
                            Ammutisci,
che non fia chi ’l sorpassi
E ch’ei tema, gli aggiugni,
ma che un servo, un Ernando
Vedrem ciò che far possa
l’illustre principessa...
stranieri in quella corte...
                     È morta forse?
             Che far poss’io?
vi affissate, o miei lumi?
l’alto onor d’inchinarti.
                             Lucindo.
                    Sì, l’erede
s’incontraro co’ suoi,
scambievol fiamma. Io seco
(Fisso mi osserva). Ommai
si strinse il sacro nodo.
Così m’impose il dirti
fa’ ch’io ’l sappia, onde fine
(A lagrimar m’astrigne).
Dimmi, che sperar deggio?
A l’ombra de’ tuoi lauri
                           E grande!
                  Or la dimora
Ma qual è ’l tuo consiglio?
                              Oh dio!
Temi il mal, non il bene.
l’amor, la fede, Ernando.
Verrò cinto da l’ombre
                   (Fra sé che pensa?)
Da lei ch’adori or prendi
                             Perché?
non è offesa al tuo grado,
ti trasporta il tuo sdegno.
Erenice offendesti. (A Casimiro)
                L’amor di Ernando
grave offesa è al tuo grado.
Questo è ’l tuo sol comando
                                       Amore.
Quest’è ’l tuo sol desio
                    Spergiuri affetti,
Se ti offendon gli applausi,
Gran re, quel che poc’anzi
più de l’Istro e del Tebro,
                                   (O note!)
                  Prendi e rimira.
«Per quant’ha di più sacro, (Legge)
signor. Mentito è ’l grado,
                   Casimiro?
tuo egual, che meco io trassi
                                Assento;
godrà l’amico. Io ’l nodo
nel piacer de’ tuoi lumi
                    Già nel mio core
son reo. Lascia ch’almeno
Sia l’ubbidirti, o bella,
Parli il labbro e ’l confessi,
per più offender l’amico?
Per più macchiar... Ma dove,
Egli è il prence, è l’erede
quanto, oimè, mi spaventa
insidia è ’l pentimento.
                       Ch’arrechi?
L’offerta d’un diadema,
già sposa ad altri amplessi.
                                   È tempo...
sciolto cadesse e infranto
giunser mai con gl’incensi
raggi propizi; e in questa
anche i più brevi indugi,
O tu, che ancor non veggio (Casimiro sta confuso)
t’è di Lucinda e ’l nome?
Dunque all’armi, spergiuro. (Dà di mano alla spada)
Su, strigni il ferro; e temi
Sei vinto. (Siegue l’abbattimento, in cui Casimiro gitta con un colpo di mano a Lucinda la spada)
                     Io cedo, o forte
Che sento? Ella è Lucinda? (Il re si leva dal suo posto e si affretta a scendere nello steccato)
La notte avanza e ’l prence
                                  Gismondo,
E pur cresce nel seno (Si asside al tavolino)
Che acciaro è quel? Che sangue
ne stilla ancor? Qual colpo
Ch’orror, che turbamento
                  Parla.
                               Poc’anzi...
andai... Venni... L’amore...
Lo sdegno... Una ne l’altra
Gran timido è un gran reo.
                                       Oh dei! (Si leva)
                                   Ed io,
Io morto? Ho vita, ho spirto
                            O ferro!
Signor, che il tuo potere (A’ piedi di Venceslao)
che ’l tuo dolor mi chiede.
per me avvampar. Ma ’l foco
spars’era il ciel, quand’egli
                              O cieco
Quell’orror, quel pallore, (Additando Casimiro che sta confuso)
quegli occhi a terra fissi,
quel ferro ancor fumante (Casimiro si lascia cader lo stile di mano)
L’uccisor d’un fratello
                     Sì, la spada.
Eccola, o re. Già ’l core (Depone la spada sul tavolino)
Questa è, o re, la tua fede,
ripor più la mia speme? (Piagne tra sé)
            Dal duro uffizio
                                Or vanne
Ma se ’l prence al mio amore
Ben n’ho dolor; ma indegno
ed or, bella, a’ tuoi piedi
tuo pianto io son contenta.
l’ombra del mio Alessandro
anch’io voglio, anch’io giuro.
quel che nel cor s’asconde,
che un uomo e saggio e forte
le strigne e questa reggia
                           Venga.
De’ più illustri sponsali
Figlio, in onta a tue colpe
Tutt’altro oggi attendevi
                             Deh come
m’è ’l dono tuo. Lo accetto,
                            E vita
                                 Regina,
                    In Casimiro
                             Padre.
Ah tempra, o cara, i pianti.
empierò d’ire il regno,
Crudel, se’ sposo ancora.
Anzi questo è ’l sol nome
che più m’è caro; io meco
Va’ pur; t’è cara, il veggio,
Più soffrir non poss’io
di dar morte a’ custodi,
Pera anche il re ma ’l colpo
che tu ’l comandi o ’l vibri?
                                Parmi
tutta incendio e tutt’armi
Io dar perdono? Ernando...
                            E senza
                       E prendi in questo
l’ultimo abbracciamento.
                    Ahi pena!
                                         Ahi sorte!
                    Sì, ma vanne
Sì, se l’assolve il padre,
                            Opportuno
L’avrai quando anche fosse
rompi ogn’indugio ed arma
tu non cerchi al periglio,
Sono infranti i tuoi ceppi,
tu non v’accorri, invano
Erenice, Lucinda, (Da sé passeggiando)
No no, non dir d’amarmi,
Ora non fia ch’io chiuda
                               Al soglio,
piego umil le ginocchia. (Casimiro ascende due o tre gradini del trono e s’inginocchia dinanzi al padre)
Cor, non anche t’intendo.
                               Conviene
con la virtù d’Ernando,
(Gioie, non m’opprimete). (Venceslao, preso per mano Casimiro, discende con esso lui dal trono)

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