ma il mio core a lui non va.
«Non sei che un rio velen;
Sul mio cor non hai poter.
Sempre un male è povertà;
e l’uom saggio unir ben sa
ingegnoso è il nostro amor.
o lo scusa amante il cor.
il mio costante amor ti parlerà.
chiederti la mercede o la pietà.
E tu in quel dubbio cor (A Fenicia)
il tuo ben dovresti amar.
ma un desio del tuo regnar.
Né il saprò, perché mi par
ch’abbia un’aria di dolor,
quando lungo è lo sperar.
Nilo, andiamo. Eh sì sì sì.
lieto pranzo e puro amor.
a digiun perché vuoi star?
Va’, Calandra. Oh no no no.
ma mi ferma il mio timor.
sia il sapere o la beltà.
meglio impara a profittar.
e di un re... (rider mi fa)
e di un re... (non posso più)
e il piacer di tua beltà.
Va’; dispera del mio amor;
che promette a te il goder,
non destina il cielo a me. (Crate l’accompagna con altri inchini)
toccar del saggio il cor.
Tu il regno amasti in me, (Ad Aristippo)
tu solo il tuo piacer. (A Crate)
Quando cada in qualche error,
Che facesti? Io tel dirò.
che il tuo imeneo sprezzò
Non ti cerco, non ti vo’.
Sei più bello. Il veggo. Il so. (Ipparchia guarda attentamente ora Efestione, ora Crate)
non dimanda sempre un cor.
altre strade si apre amor.
quando in quella ei può goder.
fra il dolore e fra il piacer.
chi è vassallo del piacer
e il suo cor non sa frenar.
fa il gran vanto del saper
e il bel merto di regnar.