Metrica: interrogazione
843 settenari (recitativo) in Venceslao Napoli, Muzio, 1714 
Vincislao sempre invitto,
de l’alme più rubelle
grand’esempio e gran pena,
là su l’Istro confessa
Le tue vittorie, Ernando,
del poter nostro. Hai vinto
Vieni, onde al sen ti stringa,
o forte del mio regno (L’abbraccia)
                        Oh sempre (S’abbracciano)
non dee lasciarmi ingrato.
                Temo nel prezzo
Vil non fia ciò che puote
Dirò, poiché l’imponi,
Tutto il premio ch’io cerco
in sé racchiude un volto.
                    Ernando amante?
                 (Ah! Più nol soffro).
                            Ammutisci,
che non fia chi ’l sorpassi
E ch’ei tema, gli aggiungi,
che un mio servo, un Ernando
il possesso d’un bene?
Vedrem ciò che far possa
                    La principessa...
                          Appunto.
e qui giunta è poc’anzi.
                                  Io stesso
Eh! Che v’è peggio ancora.
                    Con la signora
v’è ancor la damigella,
cinge il brando guerriero
ch’io sono d’altra amante,
(Purtroppo, Gildo, è dessa).
(Questa è la principessa
vi affissate, o miei lumi?)
(Il mio Gildo v’è ancora).
l’alto onor d’inchinarti.
Gildo? (Da parte tra loro)
                Chi sei? Che chiedi?
Sono anch’io forastiero
ma t’ho altrove parlato
                              Lucindo.
                    Sì, l’erede
                                Io seco
s’incontraro co’ suoi,
scambievol fiamma; io seco
Ed ancor fai del sordo. (Come sopra)
fa’ ch’io ’l sappia, ond’io possa
Dimmi, che sperar deggio?
                     Vado via.
No, qui t’arresta e pria
                    Ho gran da fare.
e seco è ’l duce, il solo
A l’ombra de’ tuoi lauri
                  Or la dimora
Ma qual è il tuo consiglio?
Pria che risorga il giorno
               Riparo allora
                              Oh dio!
Temi il mal, non il bene.
l’amor, la fede, Ernando.
Verrò cinto da l’ombre
                             Perché?
non è offesa al tuo grado,
                     Mia cara.
                L’amor d’Ernando
grande offesa è al tuo grado.
Questo è ’l tuo sol comando,
                                       Amore.
Questo è ’l tuo sol desio,
non v’è alcun buco in corte
che il medico m’ha detto
                      Or io con te
non vo’ altercar su ciò.
ma poi, circa il suo aspetto,
Né ment’io per la gola.
Se tu m’hai qui fermato,
che me lo disse il medico:
Di’ ciò che vuoi ch’io dica
Ah infedele! E niegasti...
Gerilda, oh dio! non più.
più de l’Istro e del Tebro,
principe, i passi; a quanto
«Per quanto ha di più sacro, (Legge)
Signor, mentito è ’l grado,
                    Casimiro,
tuo egual che meco io trassi
per mia bocca or t’invita
                                Assento
Se in più beltà t’adoro,
                      Mia bella,
Non l’ami? E qual pietà,
molesto è a l’amor mio;
ma, cor mio, dov’è andato
ci vo’ pugnar ma in modo
                           Niente, niente,
E se... che il ciel non voglia,
sia detto in fondo al mare,
senti che punto è questo,
                                      A te
                                     No.
Stringiam destra con destra.
A noi. (Incominciano la lotta e nessun cade)
               Hai gran fortezza.
                 T’ho il piè spiantato.
                            T’ho inteso.
godrà l’amico; io ’l nodo
nel piacer de’ tuoi lumi
                    Già nel mio core
son reo. Lascia che almeno
Sia l’ubbidirti, o bella,
Parli il labro e ’l confessi,
per più offender l’amico?
Per più macchiar... Ma dove,
E m’ami, alfin vuoi dirmi,
Voglio esser reo né posso.
S’è ver che m’ami Ernando,
Fuor del mio sposo, ogn’altra
Egli è il prence e l’erede
de l’impuro tuo affetto?
insidia è ’l pentimento.
                              Appunto
ch’io ti volea, t’ho giunto.
                          Adagio un poco,
                                   Il foco
L’offerta d’un diadema,
                           Poc’anzi
                           Ah! Troppo,
                                   È tempo...
giunser mai con gl’incensi
O tu, che ancor non veggio
t’è di Lucinda e ’l nome?
Fede non le giurasti? (Casimiro non la guarda)
Dunque all’armi, spergiuro. (Dà di mano alla spada)
ho la raggion de l’armi,
Su, stringi il ferro e temi
Sei vinto ed è il tuo torto
                           Ascolta
di più troni e più regni;
poiché alle sette o all’otto
è assai lungo il discorso?
ma fallo un’altra volta,
che in corte io devo andare,
Tu m’affliggi e consumi,
ci è tempo un quarto d’ora;
Quanto, quanto t’inganni,
Va’ a far ciò che ti pare.
Più che avanza la notte, (Con i lumi in mano che li posa sopra il tavolino)
E pur cresce nel seno (Siede vicino a un tavolino)
Che acciaro è quel? Che sangue
ne stilla ancor? Qual colpo
                  Parla.
                               Poc’anzi...
andai... Venni... L’amore...
Lo sdegno... (Una ne l’altra
Gran timido è un gran reo.
                                       Oh dei!
                                   Ed io,
Io morto? Ho vita, ho spirto
                            Oh ferro, (Tra sé)
Signor, che il tuo potere (S’ingenocchia a’ piedi di Vincislao)
che il tuo dolor mi chiede.
per me avvampar; ma il foco
sparso era il ciel, quand’egli
                              (Oh cieco
Quell’orror, quel pallore, (Additando Casimiro che sta confuso)
Già cedo al nuovo affanno.
L’uccisor d’un fratello
                     Sì, la spada.
              Sono a’ tuoi cenni.
Oh dal figlio, oh dal padre,
(Ma s’ei muore, a Lucinda
            Dal duro uffizio
                                Andiamo;
Ma se ’l prence al mio amore
                               D’un padre?
parmi d’esser un’altra.
parmi d’esser più scaltra,
Ma Gildo?... Oh bene, oh bene!
Gildo ora qua sen viene. (Vedendolo venire)
                          Ah inumano! (Fingendo la voce)
Aimè! Che questa è l’anima
                                 Ah Gildo!
Elisa? Oimè! Chi è stato (Gli s’accosta)
To’, prendi il fazzoletto. (Gli dà il fazzoletto)
La piaga è assai profonda?
                               Oh dio!
Aimè! (Va per partire e batte in un muro)
               Che cosa è stato?
Eccomi qua col lume, (Con un candeliero in mano)
Il malan che ti dia. (Si scopre il volto e Gildo resta immobile con il lume in mano guardandola)
Vuoi saper s’è profonda?
Giove, non pensar già (A Gerilda)
                              Amore
                               Sette. (Posa il candeliero in terra)
             Denar non ho.
Tinto poi di quell’ostro,
anch’io voglio, anch’io giuro. (Si accosta all’urna e snuda la spada)
Lo sdegno e ’l fido brando
Ben ne ho dolor; ma indegno
ed or, bella, a’ tuoi piedi
tuo pianto io son contenta,
                            Oh sorte!
le stringe; e questa reggia
                              Venga;
Figlio, in onta a tue colpe
Tutto altro oggi attendevi,
                                Deh! Come
m’è il dono tuo; lo accetto
                             E vita
                                 Regina,
                    In Casimiro
                             Padre.
Anzi questo è ’l sol nome
che più m’è caro; io meco
Va’ pur; ti è cara, il veggio,
Sì, vivi, il dono è questo
             No, resta.
                                 (Io dubito
lo vo’ scoprir). Ah! Gildo!
Ah! Mia gran dea, perdono, (Gli s’inginocchia avanti)
come placarla). Ah! Amata, (S’inginocchia)
                            A questa
S’io t’inganno, o mia bella,
E s’io più penso a quella,
                               Sì tosto
Pera anche il re ma ’l colpo
che tu ’l comandi o ’l vibri?
                                Parmi
tutta incendio e tutt’armi
                            E senza
                       E prendi in questo
                    Ahi pena!
                                         Ahi sorte!
                    Sì, ma vanne
                            Opportuno
L’avrai, quando anco fosse
Presto, signore, a l’armi.
Erenice, Lucinda, (Da sé passeggiando)
ch’io chieder posso. Ah! Prima
                                Al soglio
piego umil le ginocchia. (Casimiro ascende il grado del trono e s’inginocchia innanzi al padre)
(Non anche, o cor, t’intendo).
                               Conviene
e assolver non ti posso. (Corona il figlio)

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