Con le labbra della bella
e più saggio allor mi rende.
Ed a’ lampi di quel ciglio,
sol di gloria il cor si accende. (Addolonimo si ferma incontrandosi con Fenicia)
Anche amor sta in quel bel volto
qual tiranno assiso in trono;
ma il mio core a lui non va.
Vezzi e grazie io non ascolto.
Non mi vendo e non mi dono
né alle offerte né a’ favori
Vinto son ma non oppresso.
Sono ancor re di me stesso,
sfortunato e sempre forte.
Sul mio cor non hai poter.
se per vincer non ho sorte.
Nostra vita ha i suoi disagi.
ma, se avvengon, tollerarli
Sempre un male è povertà;
e l’uom saggio unir ben sa
il giocondo con l’onesto,
Perché l’ami e suo lo brami,
basta ch’oro il sen gli fregi
e diadema il crin gli cinga.
di un oggetto a noi diletto,
ingegnoso è il nostro amor.
o lo scusa amante il cor.
Io ti perdo e del tuo amore
son più degno in rifiutarti.
per timor di più attristarti.
Saggia sei. Se me non ami,
nel mio affetto e nel mio dono,
il tuo ben dovresti amar.
Quel che orgoglio in me tu chiami
non è amor, ch’io porti al trono,
ma un desio del tuo regnar.
Io nol so; ma dir io sento
che la speme è l’alimento
Né il saprò, perché mi par
ch’abbia un’aria di dolor,
quando lungo è lo sperar.
Nilo, andiamo. Eh sì sì sì.
lieto pranzo e puro amor.
a digiun perché vuoi star?
Va’, Calandra. Oh no no no.
ma mi ferma il mio timor.
Già mi par ch’io vegga e senta
quell’infauste bastonate.
Senza te partir non posso,
perché a me sei troppo amabile.
Tu non m’ami, o Nilo ingrato.
Già mi par di aver adosso
quel baston sì formidabile.
Vago sei quanto un Narciso;
ma il diadema al tuo bel viso
non saprà se in te maggiore
sia il sapere o la beltà.
del saper, che tu professi,
meglio impara a profittar.
Quel vantar salvatichezza,
quel vestir con sordidezza
non dà grazia e non dà stima
Nel tuo volto... (l’ho ben colto)
di uno sposo io veggo il brio
e di un re... (rider mi fa)
e di un re... (non posso più)
il poter... (di tua pazzia),
e il piacer... (che frenesia!)
e il piacer di tua beltà.
Vuoi spezzar le tue catene?
Va’; dispera del mio amor;
che promette a te il goder,
col valor della costanza.
di ogni mal la tolleranza.
Sol per te potrebbe amore
Ma il nascente dolce affetto
io svenar mi deggio in petto,
perché so che un sì gran bene
non destina il cielo a me. (Crate l’accompagna con altri inchini)
Quando cada in qualche error,
mai non mostri agli altri il saggio.
Franco volto e salda fronte
la baldanza ed il coraggio.
Che facesti? Io tel dirò.
teco a pranzo e a cena teco
Per mio sposo, sì, ti accetto.
Non ti cerco, non ti vo’.
Odi; tu non hai cervello.
di una sposa di tal sorte.
Tu rifiuti un bel partito;
La bevanda è troppo amara.
Più che il legno del padrone
mi spaventa una consorte.
Da uno schiavo ad un marito
Sei più bello. Il veggo. Il so. (Ipparchia guarda attentamente ora Efestione, ora Crate)
Per amar, consiglio agli occhi
non dimanda sempre un cor.
Senz’aver da loro il passo,
se in un petto vuol ricetto,
altre strade si apre amor.
Due contenti e due tormenti
esser ponno moglie e corte.
Se son buone, oh dolce sorte!
Se malvage, oh amare doglie!
Ma coraggio. Un buon regnante
la sua corte a sé fa uguale;
e un marito, che sia tale,
può far buona ancor la moglie.
Fra la calma e la tempesta
sciocco è ben chi pena in questa,
quando in quella ei può goder.
chi mal sceglie e mal si appiglia
fra il dolore e fra il piacer.
Non rispondo, non confondo
Dir non vo’ s’ami o non ami;
chi vantar può sua innocenza.
ma in sé stesso egli è beato.
Chi vantar può sua innocenza
chi è vassallo del piacer
e il suo cor non sa frenar.
fa il gran vanto del saper
e il bel merto di regnar.