sfumar d’aure sabee nembi odorosi
e che tronco rimase al grasso armento
da la sacra bipenne il bianco collo,
scendan l’anime forti al gran cimento
e il regio banditor publichi intanto
del sudato trionfo il premio e ’l vanto. (Ascende sul trono)
vinti gli altri in possanza emoli atleti,
quand’ei non sia d’ignobil sangue e vile,
tutto d’Elide il regno in premio acquista.
Bella madre d’amor, tu che l’interno
penetri de’ miei sensi e ’l cuor mi vedi,
di fior ti coronai, s’arabi incensi
fra vittime innocenti unqua ti ardei,
favorevole arridi a’ voti miei.
Sono i primi caduti. Al braccio mio (Lotti con due o tre atleti e gli atterri)
Un fier odio che ancor non ben intendo
l’arene imprimerai con la percossa.
(Armidoro è costui). (A parte)
(Sifalce è questo). (Lottano)
Quanto han costor di lena. Eguale ad essi
col feroce Acheloo lottare Alcide.
l’affaticato piè. (Cade a terra)
Non cedo al tuo valor, cedo a la sorte. (Parte)
Mancan altre vittorie? (In positura di lottare)
Vieni a goder del premio, eroe sovrano.
Non diedi al ciel le mie preghiere invano.
Lascia che al regio piè, Clistene invitto,
baci d’ossequio impronti.
Eroe che vince (Lo abbracci)
degno è di questi amplessi. Ormai ricevi
matura a le vittorie; e sul tuo capo,
il peso trionfal di tanti onori,
verdeggino con fasto i regi allori. (Si leva la corona di alloro e lo coroni. Suonino intanto le trombe)
va d’un’alma sì grande? Io già nel volto
leggo la nobiltà de’ tuoi natali.
Patria m’è Atene e son Demetrio, figlio
Principe amico, al sen ti stringo e al nuovo
giorno conchiuderemo i tuoi sponsali.
Gioie non trovo al mio diletto eguali.
ti attenderà sposo e consorte al regno. (Si vada oscurando la scena)
di regnar non mi curo, altro non chiedo. (Scenda dal trono)
allunghino la vita accesi lumi. (S’illumina la scena. Segue il ballo di lottatori armati)
per riveder la figlia, alma, in tormento.
Stelle, che più volete? Eccovi Oronta,
del tessalo monarca unica figlia,
fuor del regno, raminga e dietro l’orme
d’Orgonte il mentitor che seco porta
il miglior di me stessa, alma ed onore.
Qui trovai l’infedel che, sazio e stanco
che mi giurò cotante volte e tante,
sotto altre spoglie è d’Agarista amante.
Sin che un giorno ei si penta, io qui mi fingo
degli astri osservatrice, arte già appresa
fin da’ primi anni miei. Perfide stelle,
che volete di più? Mi avete tolto
d’Oronta il nome e quasi il sesso e ’l volto.
Altro io non so che i crudi affanni miei.
De l’oroscopo tuo, de’ tuoi natali
e se pur non m’inganna il cielo e l’arte,
per te volger mirai tutti i pianeti
solo influssi in amor placidi e lieti.
da le stelle non vien ma da quegli occhi.
il tuo augurio al mio cuor.
esce vampa d’amore. A che l’ascondi?
Celo l’amor, perché l’oggetto è vile.
bacio d’affetto e d’allegrezza imprimo.
Fa la gran gioia impallidirle il volto.
Se tra le angustie del reale albergo
ti custodii finor geloso, ormai
più che lo sposo, il genitor mi piace.
padre, il lasciarti. Io prima...
Se mio non è Armidoro, altri non voglio.
Non ti attristar. Le donne usan così;
prima dicon di no, poi fan di sì.
fia Demetrio, di Atene eccelso prence,
di forte lena e singolar bellezza.
Sia qual egli si vuol, l’odio e ’l rifiuto.
che ’l passaggio è più dolce ed amoroso
dagli amplessi di padre a quei di sposo.
Pietà, Alceste, se mai piagarti il petto
lo stral che ti ferì? Scuopri l’oggetto.
Servo ma che commanda a l’alma mia.
Ama certo Sifalce, oh gelosia! (A parte)
Di che arrossisci? Ergi nel cielo i lumi;
(Il cuor respira). (A parte)
ch’ei sappia mai la mia viltate.
il vedersi adorar da chi s’adora.
Se l’ami tu, lascia ch’ei t’ami ancora.
Inutili consigli, or che mi sforza
agl’imenei vicini il genitore.
Taci e tu, Brenno, quanto udisti.
su la mia fede l’amor tuo sicuro.
Se mio non è Armidoro, altri non curo.
Se sperar tu non vuoi, che far degg’io?
(Oppresso è dal dolor; non mi risponde).
Han vicino il sollievo i tuoi tormenti;
ad altro oggetto abbia ’l pensier rivolto,
non è per te la sorte, il posto è tolto. (Parte)
A’ primi rai de la nascente aurora,
che lo attendessi e pur nol veggio; ah quali
raggiri ei volge? E quanto il tien lontano
dal genitor, dal regno amor possente?
tanto ha di forza una beltà gentile.
in libertà le voci e che ti spieghi
del genitor cadente e del tuo impero.
Inutile è il consiglio. Ascolta e taci.
mi dee por d’Agarista. A la tua fede
L’opra è di grave rischio.
gli aspettati guerrieri. Io di quel regno
finger con essi ambasciator mi voglio
Appoggio al senno tuo sì grave incarco. (Arbante parte)
grave pensier m’opprime i sensi.
nel tuo volto il tuo cuor.
(Ti bacierei se tu non fossi infida).
Di una linea ho stupor che qui si stende.
(Oh dio! Che ascolto?) (A parte)
(Al traditore impallidisce il volto). (A parte)
Beltà real tu già ingannasti.
A costui tutto è noto il mio pensiero.
intender il futuro a me non lice.
(Destra, fin che ti stringo, io son felice).
Ascolta. Arte già appresi
sforzo a dirmi il futuro; a me, se vuoi,
che svelino farò gli eventi tuoi.
O Sifalce, Sifalce, ah tal non sei;
Alceste io non sarei. Partì l’infido
ed io misera Oronta invan lo sgrido.
Sento i contenti tuoi. Ma, tu Demetrio?
Ma a che riprendi i vili arnesi e torni
Io, pria che a lei sia sposo,
Felice sei; ti corrisponde e t’ama.
va’ e dille ch’io per lei piango e sospiro;
sol le ascondi i miei casi e ’l grado mio.
felice amante; io non invidio i tuoi
l’ostinata impietà de’ miei tormenti.
più ti adorna con l’arte; ed ecco appunto
a chi vuoi ch’oggi infiori e che corregga
Queste pallide guance? A che far pompa
se goder di chi voglio a me non lice?
sposarne un solo e vagheggiarne cento. (Si parte)
Padre, morir pria che lasciarti io voglio.
Rasserena l’aspetto. Ecco Sifalce,
l’Anfion de la Grecia; il suo bel canto
ti acheti il duolo e ti rasciughi il pianto.
lo sposo acquisti e ’l genitor non perdi.
Sarò figlia al dolor, sposa a la morte.
Ben felice sarei, se tale avessi
virtù da sollevar l’aspre tue pene,
ma dar gioie non può chi non ne tiene.
Or via, snoda la lingua a’ dolci accenti.
Eccomi pronto. (Sifalce siede alla spinetta)
Io qui m’assido. (Si asside rimpetto a Sifalce)
Or senti. (Accompagni il canto col suono)
Taci, che ’l mio dolor nasce da spene.
travestito già in Sciro a me i lamenti...
a dir con l’altrui pianto i miei tormenti).
stava per Deidamia quel forte Achille,
ch’esser dovea de la troiana gente
ora tigri, or leoni a vincer uso,
la conocchia trattava e torcea ’l fuso.
Quando celar più non potendo un giorno
l’amoroso ardor suo, mesto s’affisse
nel vago volto e sospirando disse...»
che le scopra così gli affetti miei).
Che tal fosse Armidoro anch’io vorrei.
La lingua mia, già del suo fallo avvista,
dir volea Deidamia, non Agarista.
La canzon dice Achille e non Orgonte.
M’ha confuso il chiaror de la tua fronte.
la risposta gentil di Deidamia. (Agarista va alla spinetta)
(Parlar così teco, Armidoro, intendo). (A parte)
Tu vaneggi, Sifalce. Al vago Achille
rispondeva così già Deidamia.
Ingannaste sol voi gli affetti miei). (A parte)
Ma così ad Armidoro io non direi.
nuncio m’inchino. Il tuo Armidor poc’anzi:
«ardo per Agarista e sì l’adoro
che se tu non m’aiti, Alceste, io muoro».
che in deliquio d’amor mi svenne in braccio.
E ’l lasciasti così? Temo ed agghiaccio.
Così stette gran tempo; infine al volto
che avria mosse a pietà le belve istesse.
Ed immoto pendea dal labro mio.
lo sgridai che troppo alto alzasse il volo.
può veder senz’amor volto sì vago?»
«Viltà e timor dovean frenarti».
«Cara beltà, voglio adorarti».
Mi disse: «Se mi nieghi aita,
sei scortese e crudel. Forse non sono
così vil qual ti sembro»; e poi partissi.
Ciò ch’è oggetto al desio tema è del cuore.
Brama il chiaror d’una regal corona
chi non ne prova il peso; e pur quell’oro
è luce che tormenta e non illustra.
solo il re custodisce e più d’ogni altro
perché il comun travaglio in sé risente.
È mio l’uffizio; or vado.
udirò ciò ch’ei chieda. (O quanto orgoglio!)
monarca invitto e mio signor sovrano,
Clistene, a te cui Pisa, Elide e tutto
d’Elle il flutto vicin serve e soggiace,
d’affetto in segno invia salute e pace.
la tua figlia in isposa al prence Orgonte,
di re sì grande unico figlio erede.
Clistene, e poi che non farà di grande
a’ nostri acciari il tuo poter congiunto?
Ove mai giungerà de l’armi vostre
sconosciuto il terrore? Io già preveggo
pender tremante e poi vassallo il mondo.
con quella brutta sua fisonomia,
più che d’ambasciator ceffo ha di spia). (A parte)
che un re sì grande e formidabil chieda
la mia alleanza e l’amor mio, vedrallo,
a l’alta dignità del nome mio.
Ben del chiesto imeneo, che a me sarebbe
di vantaggio e di gloria, il non poterne
dispor m’è grave a suo favor. La figlia
ho promessa in isposa; e torre altrui
l’obbligata mia fé, come potrei
irritare ad un punto uomini e dei?
(Ciò m’era noto e simularlo è forza). (A parte)
ch’altri per lui sia ingiusto. Ei sarà sempre
de la tua gloria amico e del tuo impero.
Tal finor l’ho pregiato e tal lo spero.
riposerai fin che ti aggrada e quante
puote un genio sovran grazie impartirti,
Clistene te le accerta. Oggi disposta (A’ suoi cortigiani)
sia la caccia regal nel vicin parco.
Sarà solo il mio incarco.
a pro del mio signor che, quando sono
di vantaggio al suo prence, i tradimenti
perdono il nome; e son virtù, non colpe;
o se pur colpe son, sono innocenti.
ti disegno con l’ombre e già m’avveggo
un tuo sguardo val più del mio pennello. (Si mette a dipingere)
a colorire un volto; e se non erra
egli è ’l ritratto sol del volto mio.
ch’arda al vostro chiaror voi non vorrete,
scopri al ritratto e a l’esemplar le taci?
Ma d’avervi a guastar temono i baci.
(Miei rispetti non più). Tanto, Armidoro,
per un ritratto hai le pupille accese?
(Oimè! Certo il conobbe o pur m’intese). (Sorge e nasconde il ritratto)
Ti turbi? E tu ’l nascondi? Io mi contento
ch’ami quel volto; (ei capirà).
Né ti sdegni ch’io l’ami?
(Così l’intendo). (A parte)
che tu fossi, credea, l’idolo mio.
distinguer non saprei da quel che innanzi
(Così l’intendo). (A parte)
se goder puoi l’original.
quando avrò l’esemplar, darti l’imago.
(Bell’artifizio amor mi detta). (A parte)
Prendi. (Le dà uno specchio)
Ora in lui ravviserò quel volto
che il sen ti accese. È questi un vetro. Errasti.
miri il tuo volto, egli è ’l ritratto istesso.
Finger non posso più. T’amo Armidoro.
Taci; ecco il re. (Si ritira)
men torbida la fronte e più tranquille
sotto il ciglio seren l’egre pupille.
I molli vezzi ed il gentil sembiante
Mi riapri la piaga ancor grondante.
a’ vicini diletti invido affanno,
oggi a caccia regal meco verrai.
Mi proponi un piacer ch’io non curai.
più t’infiora le chiome e più pomposa
rendi la tua beltà. Che ben conviene
fregio maggiore a dignità di sposa.
E in isposo Demetrio il regio padre
Se Demetrio ti sposa, altro non curo.
E se m’ami ancor, fa’ ch’io ti veggia
labirinti di duol l’anima inciampa?
Forse così la mia costanza ei tenta.
vo’ veder di schernire arte con arte).
Demetrio sposerò, già che tu ’l brami.
del mio cuor, del mio affetto!
Mi scorderò fin d’Armidoro il nome
gastigami così ch’io mi contento.
Tu mi amasti? Tu mai? Vile ch’io fui
ad abbassar l’affetto mio regale
Ah una bella discolpa è quel sembiante.
per me nel vicin bosco oggi ordinata
ha Clistene; con lui verrà la figlia.
cadranno agl’improvvisi urti primieri.
Ma come uscir col prezioso acquisto
ove su forte legno, a tal effetto
le bianche vele inver la Tracia a’ venti.
Ben oprasti. Secondi il ciel gl’inganni.
il temuto fulgor de la tua spada.
Chetatevi, o pensieri; a che agitarvi
Per pochi indugi a tolerar vi esorto.
Ma Sifalce, che dissi? Orgonte sei.
Principe no, ma traditor, ma solo
Che vedesti? Che udisti? A che mi sgridi?
Cose vidi ed udii che sì agitato
e non so come vivo e come spiro.
per iscuoprir de’ tuoi novelli affetti
a scongiurar gli spirti averni e Pluto...
ombra pallida, esangue e fuor de l’uso
entra il cerchio segnato e tutta lorda
di sangue e pianto a me sì parla e spesso
tra il singhiozzo e ’l sospir rotta la voce.
del tessalo monarca unica figlia.
per troppo amor, per troppa fé già morta».
«va’ e Sifalce ritrova; ah non Sifalce
ma Orgonte l’infedel, che mi tradì,
e per me in fiero suon sgridal così:
violator lascivo, alma da trace,
ingannando una vergine innocente?
che te già del suo cuor, te del suo regno,
te del suo letto avea chiamato a parte
col titolo di sposa, anzi di serva.
a trar torbide notti e freddi sonni,
tu ’l peso sostener del tuo peccato,
anima vile e cavaliero ingrato?
E puoi frenar i pianti ed i sospiri,
Rider mi fai. Perché ti adiri?
«Ma a che lacrime spargo? A che consumo
inutili lamenti? Ah se nol credi (Snuda uno stilo)
a me, credilo a un ferro; e perché io possa
seguirti ed agitarti, ombra insepolta,
al mio sangue, o crudel, credilo ormai». (Alza il ferro per piagarsi)
Ciò disse e fece la tradita Oronta;
poi con alto sospiro a l’aure sparve.
Questi furono, Alceste, o sogni o larve.
Ho ’l cuore in calma e solo
troppo al vivo esprimessi il volto e i gesti.
(Cor mio più non sperar; troppo intendesti).
de l’onor mio, de la mia pace. O numi
Così dolente, Alceste? A me i sospiri,
(Alma, per poco (A parte)
frena il giusto dolor). Di che t’affligi?
ah vil che fui, le fiamme mie scoperte
ed io le sue dal suo bel labro intese,
anzi con lieto ciglio udì l’infido
col principe Demetrio i miei sponsali;
e mi soggiunse poi l’empio spergiuro:
«Quando t’abbia Demetrio, altro non curo».
(O vago scherzo!) Ei t’ingannò né affanno
nascer ti dee da così dolce inganno.
E pur tu prendi a scherno il mio martoro?
Quando Demetrio avrai, lascia Armidoro.
Io Demetrio giammai? Pria s’apra il suolo.
quel principe Demetrio, a te consorte.
Il ver. Sei più infelice?
Ma vo’ anch’io meditar la mia vendetta.
E pur ritorni ad agitarmi il seno,
o mio tradito amore? Ancor sopporti
l’ingrata compagnia d’un’infelice?
forse care ti son, già piansi tanto
per troppo lacrimar l’uso del pianto.
Forse ch’è mio rival ma nol pavento. (A parte)
Altrove il folle ardir ben punirei.
Né qui né altrove io so temer Sifalce.
Dunque la spada impugna. (Si battono)
più lodevol la sua de l’arte mia.
È ver. (L’inganno (A parte)
giudice me le sue ragioni. Il labro
dee decider la lite e non il brando. (Si asside)
Io pur m’assido e le ragion d’entrambi
E la mia li convince alor che tace.
E tu ’l confidi a l’aure.
vivon le tue; poi le disperde il vento.
Non più. Fu detto assai; decider voglio.
Quanto a lo spirto il corpo cede e ’l senso
Così principio a vendicarmi anch’io. (Piano)
Per serbar l’onor mio, meglio è ch’io vada. (Parte)
Di’ che a lui sarò in breve. E tu qui resta. (Ad Armidoro)
L’alma paventa e non so come è mesta.
(Qual freddo tosco entro del sen mi scorre?)
E sol teco, Armidoro, il cuor si adira.
Vaneggi. Chi è costui? M’è nome ignoto.
Quel tuo amante sì fido e sì divoto.
Me stessa consacrai tutta a lo sposo
Non ho altro amante e questo solo adoro.
Amor lo dipinge agli occhi miei.
ciò che in odio aver puoi. Parta il mio nome.
Altro prender ne voglio a te più grato.
Più Armidoro non son. Son già cangiato.
Egli è ’l tuo sposo; egli è ’l tuo bene.
Odio al par d’Armidoro anche Demetrio.
(Così fingo vendette e pur l’adoro!) (A parte)
Fermati, idolo mio. Ma più del vento
fuggi per non udir gli aspri miei guai.
quando per ingannarmi io vi trovai.
l’affanno mio che già t’ha tolto il senso,
per troppa crudeltà fatto pietoso;
nel furioso ardor le aduste vene
febre troppo maligna, ebro delira;
più agitato dal mal meno lo sente.
tanti sospiri? A che divido l’alma
per un crudel tra lacrime e singhiozzi?
Ah che non piango lui! Piango me stessa;
piango la rotta fé, l’onor perduto;
a sì giusta cagion solo è dovuto.
Alceste, Alceste? In su le molli piume
tacito o posa o dorme; e mesto parmi
che dal duol non respiri ancor dormendo.
cade dagli occhi ancor che chiusi e irriga
Oronta, Oronta, e vivi ancor?
Chiudi gli occhi per sempre. A che più aprirli
ed il nome di Oronta e quel di Alceste.
Che veggio? Oh dio! (Alceste alzando gl’occhi e veduta Agarista, tosto risorge)
A che sesso mentir? Che più celarti
a chi tutto il suo cuor t’ha già svelato?
Ma scuoprirlo non val, s’è disperato.
col racconto dolente il viver mio.
Oronta io son, prole infelice e sola
al tessalo monarca. A la mia reggia
venne Orgonte di Tracia. Un sol suo sguardo
e col nome di sposo, oh dio!, l’onore.
tosto l’orme seguii mentito il sesso
d’altra beltate in altra reggia amante.
Forse un giorno vedrai l’infido Orgonte
Si penta sì; non brama il mio tormento
la morte del crudel ma ’l pentimento.
a la caccia vicina omai ti appresta.
Purtroppo del mio sen, veltri spietati,
fan l’aspre doglie mie caccia funesta.
Solo de l’esser mio la sorte e ’l grado
taci; la mia onestà così richiede.
Questo bacio ti sia pegno di fede. (Si baciano e partono abbracciate)
Pegno di fede un bacio? Occhi il vedeste?
E lo diede Agarista? E l’ebbe Alceste?
mi han tradito così? Dunque io dovea
la chiarezza oscurar del sangue mio
con gl’imenei d’una beltate impura?
Sorte fu ciò che vidi e non sciagura.
Tu ricalcitri, o cuor? Tu le tue fiamme
con quelle del mio sdegno ancor bilanci?
Sento che vincer vuoi; né ben a tanta
perdita sai risolverti e ti piace
ancor d’amante, ancor d’amico il nome.
se vincer non ti posso. Ecco mi accingo
a portar lunge il piè da queste soglie,
un empio amico, una lasciva moglie.
mia bellissima fiera. Ove più folta
nega l’ombra selvaggia adito al sole,
l’attenderemo al varco; e alor che giunga
vedremo al bosco e a questi orrori intorno
non conosciuto o non atteso il giorno.
Tu qui, Aiace; qui, o Silvio; e tu, Tersandro,
e fa’ che non ti fugga il mio Melampo.
Tutto è in ordine omai. Ben m’avvegg’io
che una caccia a dispor non v’è un par mio. (Prende il suo posto)
Insoliti accidenti; ed è Sifalce
può servir sol di scusa a quell’infido;
e ’l difendo così dentro al mio cuore;
è forza per quel volto arder d’amore.
la pietà mi rattristi, o sia che questi
de’ famelici alani e sol dagli urli
sian fomento a l’orrore, o che lo spirto
lo voglia anticipar col suo spavento,
non so perché, l’alma languir mi sento.
Così cerchi Armidoro; e l’occhio forse,
ne avvisa il cuore e ’l cuore a l’alma il chiede.
Coraggio amici. (Combattono e poi fuggono li soldati di Agarista)
Ah traditore! (Oronta trattenga Sifalce ed esso respingendola senza mai guardarla vada ritirandosi nel bosco)
tosto con grande acquisto.
col mesto avviso al genitor dolente. (Parte)
ti spiacerà di non avermi uccisa.
Né mi bada, il crudel, né mi ravvisa.
O vibra il ferro o me conduci ancora.
Esser può di periglio ogni dimora. (Sifalce nell’uscir dal bosco, trattenuto da Oronta, impaziente rivolgendosi con furia l’urti e la getti in terra e poi si parta. Oronta resti in terra tramortita)
seguirò ’l traditore. A me confida
le tue vendette ed al valor de’ miei.
A dirti il vero, io non mi fiderei. (A Clistene)
(Così ripongo in sicurtà la preda). (Parte co’ suoi guerrieri)
inutili querele? Il pianto fia
d’una femina vil, non d’un re forte,
ne’ casi estremi antidoto ozioso.
manda armate falangi e fa’ che tosto
contro il trace rattore i grechi abeti.
vengono i tradimenti. In quel Sifalce
sta ascosto il figlio al re de’ Traci, Orgonte.
che quel ceffo di spia non mi piacea.
fan certa la tua perdita. Che badi?
tosto al lido ogni armato; escan dal porto
Se la figlia è perduta, anch’io son morto.
sol per vostro sollievo al lido asciutto.
Forse de l’infedel potrem nel guardo
incontrar chi me uccida e a voi risparmi
un lagrimar più lungo; o forse il mare
non perché d’un sospir, d’un pianto solo
termini la mia morte e poi mi lasci,
in su l’arene ombra insepolta, esangue.
da’ sacrileghi muri, e pur son lungi
dal mentitore Alceste; e sol son meco,
ad onta del mio duol porvi in obblio?
Se non vuoi che m’affliga, a me nascondi
Co’ baci un dì vendicherò quest’onte.
Parmi che Arbante tardi. Io qui fomento
con l’indugio i miei rischi. Andiam, mio bene.
Parli a un tronco od a un sasso?
chi sottrarti oserà? (Afferrandola per condurla al mare)
Benché nol merti, a tuo favor son io. (Avvanzandosi verso Agarista)
Menti; uom vile tu sei né i miei natali
Nacqui principe anch’io; stringe in Atene
scettro gemmato il genitor Clearco.
Alcun sì ardito (A’ suoi soldati)
non fia che turbi ’l mio cimento. Io tutto
voglio il merito sol, voglio la gloria.
(Se non vince Armidor, morta son io). (Si battono)
(Quanto è forte costui!) Posiamo alquanto. (Si ritira un passo addietro)
Ma forza alfin sarà che al suol tu cada. (Tornano a battersi)
sia fato o tua virtù, meco pugnando
col braccio atleta e cavalier col brando.
Sì Armidoro, son tua; tu mio sarai.
vieni, infedele, e non parlarmi mai.
punì ’l ciel le mie colpe. Il sangue mio
mi rinfaccia delitti e vergognosa
così l’alma sen fugge e mi abbandona.
miserabile spettro, ombra infelice,
Tu mi dai morte e non il ferro e sento
in te, non ne la piaga, il mio tormento.
vacilla il piè, l’occhio si oscura e tutto
Col mio morir sei vendicata, Oronta.
han bevuto l’arene! Orgonte, Orgonte.
Qual ferro osò cotanto! Ed impunito
Ah cada pria l’empio uccisor esangue;
poscia col pianto mio spargasi il sangue.
l’orme non inseguir. Viva egli in pace.
pene, se tu l’uccidi. Ah non lasciarmi
riva di Flegetonte, ombra più mesta.
M’è legge il tuo voler. Coraggio, Orgonte.
Sì ch’egli è desso. Orgonte, anima mia,
ma tal non ti volea. Ditemi, o cieli,
vi chiesero mai questo i miei lamenti?
io strappata mi avrei l’infame lingua.
Crescon le pene mie nel duolo altrui.
con cui mi uscì lo spirto! Ah crudo ferro,
vieni, anche il mio trafigi! A la mia destra
così risparmierai forse un delitto.
i miei caldi sospiri han la fredd’alma.
d’un inutil dolor. Di terra, amici,
sollevatelo alquanto. Ecco a la piaga (Arbante solleva di terra Sifalce ed Oronta, sostenendolo con una mano, con l’altra li lega al petto un annello)
di rincorar gl’inermi spirti.
ch’ei le languide luci apre e respira.
Questa forse d’Oronta è la sembianza
che mi rinfaccia i tradimenti e l’onte?
O troppo a me fedel, troppo ingannata
bell’ombra, eccoti Orgonte alfin pentito.
Caro Orgonte, vaneggi. Ancor tu vivi,
non so se per fuggirmi o per bearmi.
Tu vivi e se nol credi il sol rimira
scossa da’ miei sospiri; è quello il lido
che ti sostien pietoso. Io sono Oronta,
non ispirto, non ombra; e se nol credi,
che non han tatto l’ombre o i nudi spirti. (Gli dà la mano)
a’ tuoi begli occhi e nel mio fier tormento.
vivrò ma per amarti e perché ’l pianto
l’offese che ti feci un dì cancelli.
Voglio affetto e non pianto, occhi miei belli.
folti nembi di polve. Ad ogni rischio
io mi prometto ogni perdono.
Ti seguo, o caro; e tu sostienlo, Arbante.
Finito ha di penar l’anima amante.
da corteccie sabee succhi ed incensi,
pietà ti muova un genitor languente,
e ritorna la pace a un re dolente.
Lo fa impazzir la troppa contentezza.
Che ti turba? Che feci? In che peccai?
Vieni, infedele, e non parlarmi mai.
Figlia, pur ti riveggio. E qual buon nume
ti sottrasse a quegli empi?
il mio bene, il mio sposo.
Sì Demetrio son io; sposo dovea
esser a la tua figlia e già fu tempo
che l’amai, che la chiesi e l’acquistai...
«Questo bacio ti fia pegno di fede?»
E l’ebbe Alceste ed Agarista il diede.
Diedi un bacio ad Alceste e l’ebbe Oronta.
Alfin da tante risse io veggio
figlia al tessalo re, per nome Oronta.
Fole son queste. E perché qui nascosta
o di Orgonte più tosto, il tracio prence
che tradita l’avea, l’orme infedeli.
in parola giurar di cavaliero.
A torto sospettai, perdona, o cara.
Principessa, a’ tuoi piedi eccoti Oronta.
or mio sposo e pentito, e seco Arbante
ti chiedono perdon de’ lor delitti;
e al real genitor per me tu ’l chiedi.
Amica Oronta, un dì sì lieto e caro
non si turbi dagli odi; e tu, mio padre,
agli errori d’Orgonte e a quei d’Arbante.
Agarista, non più. Basta un tuo priego,
a vincer del mio sen tutti i rancori;
venga a turbar così felici amori.
E dal rossor de le mie colpe...
Ed io, in segno d’affetto, ambi vi abbraccio.
E voi pur condonate, anime illustri,
stringendo al seno ogni vendetta obblio.