Osiride svenasti, il figlio indegno
che ad Amasi infedel già diè Ladice.
Il figlio d’un tiranno è sempre reo.
Da la madre, già estinta, al padre iniquo
egli venia. Seco portava un capo
al diadema d’Egitto, in onta, in danno
E dov’è questi, Aprio svenato e i figli?
Quegli cui destinata ancor bambina
Quegli. (Intendo il suo duol).
Or sappi qual tu sia. Leggi, signore,
tutti in quest’atto umil gli arcani miei.
Vive Sesostri; e quel tu sei.
Te sol da l’empia strage, a te mal noto,
salvai per vendicarla. Oltra l’Eufrate
ti nodriro i miei fidi. Ora a la reggia
ti chiamò la mia fé. Quella è la spada
ch’Aprio stringea morendo. In mano al figlio
Io teco sono e saran teco i miei.
Giova che il traditor di me si fidi.
Tal ei cadrà. N’ho già disposti i mezzi.
Quel foglio di Ladice e quella gemma,
de’ traditi imenei bugiardo pegno,
ben togliesti a l’ucciso.
A te fieno stromenti, onde il tiranno
Osiride ti creda. Ei più nol vide,
dacché ’l lasciò bambino.
Ad Amasi la reca. A lui ti vanta
uccisor di Sesostri; ed ella il provi.
Che più? Vieni a la reggia ed indi al soglio.
Vadasi. Tu mi reggi. Ad Artenice
il diadema dovrò che tu mi rendi.
taci quel che tu sei, quel che ti fingi.
il mio assenso e ’l suo amor sia tuo comando.
Artenice, idol mio, vieni a bearmi.
che per te nel girar di poche aurore
mi nacque in sen, mai non si alzò più bella.
se vampa eguale in te si accende e s’oggi
lontananza fatal nulla ne scema.
Misera! Ma qual uopo a me t’invola?
Alta ragion mi chiama in Menfi.
sogna vivo Sesostri o fors’ei riede,
memore di sua fede, il genitore
ma invano il tenta, il tenta invano, o caro.
(Qual gioia!) E s’or vivesse il tuo Sesostri?
Viva; non odio il viver suo ma resti
Regni. Mi avrà vassalla e non consorte.
Sol nel tuo seno amo l’impero e ’l trono.
(Potessi dir che il suo Sesostri io sono).
Forse giova ch’io parta a farti grande.
Crudel! Vuoi dir che nel partir mi cedi
Non temer di Sesostri; io ti assicuro.
Mia sarai. Tuo sarò. Lo bramo e ’l giuro.
Qual favellar? Ma che vegg’io?
Amasi... Re... Signore...
questi aggiugni in trofeo di tua beltade.
corone ed imenei, talamo e soglio;
t’abbia Menfi regina, Amasi sposa.
Signor. (Che mai dirò?) Signor, ben veggio
Tu re, tu grande. Io vil...
chi ha gli affetti d’un re. Dal primo istante
che ti presi ad amar, grande ti feci.
pubblico rendo e non maggiore il dono.
e le fiamme n’estinse il tempo e l’uso.
diè l’altera regina odi e ripulse.
Del disprezzo mi vendichi ’l disprezzo.
Sugli occhi suoi ti vo’ regina e moglie;
e la man, che a te stendo, a lei si toglie.
Serve al piacer di un re quello di un padre;
né dopo il mio l’altrui voler si chiede.
(O barbarie! O perigli! O amore! O fede!)
questi son tuoi custodi e miei vassalli.
Intendo. Amor tiranno usa la forza,
perdo il rispetto. Il mio dovere obblio;
e ’l men che temo è ’l provocarti a l’ira.
Verrò, crudel, verrò; ma dal mio core
né una viltà. L’odio ti giuro eterno.
Odierò la tua reggia, i tuoi vassalli,
la tua grandezza. Il tuo poter mai tanto
far non potrà che ognor non t’odi o freni
la ragion di quest’odio...
Parte di voi le sia di scorta in Menfi. (Alle guardie)
No, ma ’l sembiante e ’l non volgare ammanto
Non lunge, anch’ei ferito, il passo infermo
uomo traea di già matura etade.
Venga a la reggia. Ivi udirò i suoi casi.
voto miglior. Tu vanne al tempio e intendi
quale impetrò dubbia risposta e vana
da’ numi suoi la credula Nitocri.
di quel bel che desio non ha ’l mio core.
fuor de la piaga, onde trafitto ho ’l fianco,
Potrai colà trovar rimedio e posa.
D’Amasi il solo aspetto è ’l mio ristoro.
Né a me fidar puoi sì geloso arcano?
ne serbo impressa. Altro di lui m’è ignoto.
Come tutta ei non tolse a te la vita?
Estinto mi credé. Deggio al suo inganno
questi del viver mio miseri avanzi.
Vanne colà. Più non si tardi, amico,
poi verrò a trarti in Menfi al regio aspetto.
Questo è ’l sol ben che chieder posso a’ numi,
favellar al regnante e poi morire. (Parte)
per me si avvisi. Egli odia meco il crudo,
il mio zelo gli affida e la mia fede.
cadde il tuo genitor. Colà svenati
gl’innocenti fratelli; e qui Nitocri,
tua regal madre, ancor ne piange.
A punir de l’empio in sen le colpe.
Sia prudente il valor, perché sia lieto.
Vedila, sì, ma vendicata. Il crudo
troppo la custodisce. Attendi e spera.
Pria che sorga la notte. Egli qui giugne.
Stranier che al regio piè chiede inchinarsi.
Donde viene? Che vuol? Palesi il nome.
Te sol di grande arcano ei brama a parte.
Si guardin queste soglie; e tu qui resta.
Mi concedi, signor, che di Ladice...
L’ultimo foglio a la tua destra io rechi.
Porgi. Le note cifre io ben ravviso.
Leggiam. «Sposo infedel». Femina ardita.
«Gelosa uscii del regno; or fuor di vita
mi spinge il mio dolor». Morta è Ladice?
Cessa un de’ miei rimorsi. (A Fanete)
«Dopo tre lustri Osiride a te viene.
A lui rivolgi almen benigno il ciglio;
abborrir la tua sposa, ama il tuo figlio».
Ma Canopo dov’è che te bambino
seguì custode al volontario esiglio?
Sotto il peso degli anni estinto ei cadde.
onde a Ladice io mi giurai consorte.
che a sì gran padre un degno figlio io mostri.
Non lunge a Menfi, inosservato
trovo un ignoto. Odo che ad uom canuto
il nome di Sesostri audace ei vanta.
Snudo l’acciar. Cade il men forte. Ardito
Sesostri incontro. Mi resiste. L’ira
nel contrasto più fiera in me si desta.
e del trionfo mio la prova è questa.
Chi Sesostri salvò seco lo trasse.
Vanne al riposo, o figlio. A lui che riede,
mia gioia, mia speranza e mia salvezza,
lo scettro e la corona oggi prometto.
al valor de’ suoi voti e a’ numi suoi.
(Sensi di un empio cor). Tu sei felice.
E più ’l sarò con l’imeneo vicino.
Che? Tenti ancor Nitocri? Ancora l’ami?
Si adempia il cenno. (Alle guardie, alcune delle quali partono) Io amar colei?
Alor che io la temea, mi finse amante
un politico amor. Bella mi parve
e bella mi piacea. Poiché impotenti
veggo in lei l’ire altere e l’odio audace,
bella più non mi par né più mi piace.
A qual maggior beltà dunque concedi
Qui tu la vedi. (Accenandogli Artenice)
Non ti stupir. La reggia (A Fanete)
degna stanza è di lei. D’Amasi è il cenno.
Meco vieni a regnar. D’Amasi è ’l voto. (Ad Artenice)
Non risponde Artenice, ov’è Fanete.
Egli ama il tuo destin. Tu vi acconsenti.
Te ne priega il mio affetto e tel consiglia.
Risolva il padre e ubbidirà la figlia.
più chiaro al regno, a me più fido il rendo.
(Non s’irriti il fellon). Figlia, Artenice,
siegui ’l tuo fato ov’ei ti chiama.
Lo seguirò ma nel sepolcro, o padre,
Quella man, che tu chiami e che tu spingi
sciorlo saprà pria d’incontrarlo; e pria
tradirò le tue brame e la mia vita.
dopo l’amante il re. Prima che cada
spento da l’ombre il dì, sposa ti voglio.
L’amarmi e ’l far che mi ami è vostra legge.
Udiste. Un’altra legge aggiungo a questa.
Chi mi niega la man perda la testa.
Mal si contrasta, o figlia,
del nostro re a la brama e mal s’irrita.
E ’l chiami nostro re? Quel che tiranno
Nostro re questo mostro? In chi di sangue
già tanto sparse e ancor di sangue ha sete,
Artenice non ha, non l’ha Fanete.
Né scema l’odio, alor che ti offre un soglio?
è spavento, è dolor di mia virtude.
Or sì mia figlia sei. Serba costante
così rara virtù; quest’odio serba;
ma cauta il custodisci. A miglior tempo
Da una man più innocente attendi il trono.
Non temer. Sei figlia e padre io sono. (Parte)
ma se l’amato ben non vede il core,
non si ristora e non ha pace amore.
per me felice! Oggi avrà fine il mio,
oggi ’l pubblico lutto. Oggi in Sesostri
rivedrò ’l caro figlio. Oggi dal trono
cadrà l’egizio mostro. A’ voti miei
tanto promise il ciel, tanto gli dei.
men orribile oggetto agli occhi tuoi.
Spargi su la mia morte un sol sospiro;
ad abbracciar nel tuo Sesostri un figlio,
a ricalcar col tuo Sesostri un trono.
promise il ciel, tanto gli dei. Compirsi
oggi deve per me l’aspra sentenza.
Fia re Sesostri. Io morirò. Pazienza.
politico timor nulla si tace.
Hai chi osserva i miei passi, i guardi, i voti;
e spergiuro vassallo a te ne reca (Guardando Orgonte)
mi costringe il dover (per più tradirlo).
Sotto il fulmine devi o sotto il ferro
cader. Già viene il mio Sesostri e viene
col favore de’ popoli vassalli,
punitor de’ miei torti e de’ tuoi falli.
più non temo il furor. Vivrò immortale,
se per mano di lui cader sol deggio.
freddo cenere giace il busto esangue.
No, non lo credo. Il ciel non mente. Ei chiaro
parlò. Vive mio figlio. Io non lo credo.
Tu non lo credi e impallidisci e piangi?
O dei! Ma come? A te chi ’l disse? Quando
e donde sai ch’egli morì?
dal suo stesso uccisor n’ebbi poc’anzi.
che tu ’l vegga, gli parli e lo ravvisi.
Venga egli pur; ma di Nitocri il labbro
per tuo timor. Con quest’inganno hai fede
di tor l’armi a l’Egitto, a me ’l coraggio.
Ma ’l pensi invan. Già l’impostura io vedo.
Han parlato gli dei. No, non lo credo.
Misera più quanto più cieca!
tutta Menfi è in tumulto.
Tal non si crede; e fin che dubbio è ’l grido,
e gran rischio ti fora a trarne un passo.
Prevenirò gl’iniqui; e correr tutte
farò le vie di egizio sangue. Orgonte,
l’ire, o monarca, a miglior tempo. Orgonte
io la città. Farò che getti il ferro
Tutto me stesso al vostro amor consegno;
ma il popolo fellon provi ’l mio sdegno.
Morto Sesostri, or che si spera? Io ’l vidi;
Fuori di Menfi e ne’ tuoi tetti.
ciò che resta di vita or or si tolga.
Comun bene è ch’egli mora;
ed è pubblico rischio ogni dimora.
Ma non veggio il garzon che a noi sen venne
da estranio lido e ti seguì a la reggia.
Se questo è un fallo, il mio destin n’è ’l reo.
No, non è fallo. Amalo, o figlia. Ei grande
far ti potrà quanto potea Sesostri.
Non si opponga al tuo amor la tua virtude.
Posso abborrire il padre e amarne il figlio?
quest’odio e quest’amore. In egual grado
Nemica ti lodai, ti lodo amante.
Amalo, o figlia; e per godere amando,
di’ al tuo cor, di’ al tuo amor ch’è mio comando.
Parlo a l’amor; ma qui ’l mio ben... No. Taci,
incauto cor. Qui del tiranno è ’l figlio.
Osiride, a che vieni? In questo nome
tu vedi la ragion di mie dimande.
che oggi alfin ti vedrò felice e grande.
Fu la grandezza tua sempre il mio voto.
(Sa del padre le brame e tal favella?)
Vanne. Sdegno i tuoi voti. In accettarli
da l’amor di tuo padre e dal suo sdegno?
Ahi! Che ascolto, o destin?
non è sciagura tua. Te dal suo amore
e te difenderò da’ sdegni suoi.
Tu di un padre rivale esposto a l’ire?
pria che non farti mia, saprei morire.
Innocente non è più quella fiamma
che per te mi arse in sen.
l’erede d’un tiranno e lo detesto.
(Caro sdegno!) Or sì cruda a’ voti miei?
Si perdé quel che fosti in quel che sei.
(Che Sesostri son io, ditele, o dei).
Vanne, Osiride, va’. Col tuo sembiante
tenti la mia virtù. Da me lontano
meno mi sedurrà d’Amasi il figlio.
(Quanto è crudo, o Fanete, un tuo consiglio!)
e che sperar poss’io dal tuo bel core?
O dio! Nol so. D’odio e d’affetto è misto
odio quello che sei; bramo e mi pento.
s’io stessa non intendo il pensier mio?
perdasi ancora il regno e a lei si mostri
ne l’Osiride odiato il suo Sesostri.
e di un popol fellon, di un’empia donna
vieni a confonder l’ire e le speranze.
il nemico Sesostri. Il falso grido
mette in armi e in furor Menfi e Nitocri.
Sostenerlo chi può, se Osiri il niega?
Non basta, o figlio. A te conviene, a fronte
Sì, vederla tu dei, tu farla certa
che Sesostri morì. Dille ch’ei cadde
da te trafitto; e fa’ che di quel ferro
le baleni sugli occhi un fatal lampo.
perché insultar con tal fierezza al pianto?
e ’l popolo fellon deporrà l’armi,
ai rimproveri espormi e a le querele.
Non più. Così voglio. Invan resisti.
Ecco Nitocri. Un gran piacer ti chiedo
nel suo nuovo dolor. Qui, me presente,
che si vanta uccisor del mio Sesostri?
Che fa? Che attende? A che mel celi? Venga.
e più presto il vedrai di quel che brami.
che sgomenti l’autore e l’impostura;
né tu, barbaro, avrai l’empio diletto
Non tant’orgoglio, o donna; e se in te parla
sappi ch’ella è bugiarda o almen l’estrema.
mi si desta nel sen nuovo tumulto?
la colpa tua, tutta la mia sciagura.
Siegui. Tu reo sei del mio figlio ucciso?
Tu lo svenasti? Impallidisci? Taci?
In quel silenzio, in quel pallor ravviso,
Olà, che tardi? (A Sesostri)
Togli a costei la sua fierezza; e affretta
la tua gloria, il suo duol, la mia vendetta.
il destin di Sesostri a questa spada. (Le porge la sua spada)
Morto è Sesostri. Il mio Sesostri è morto.
Era suo questo brando. E sarà vero
il certo testimon del suo destino.
(Ahi! M’intendesse almeno).
In quel suo duolo io godo.
Fia questo il mio conforto?
Morto è Sesostri. Il mio Sesostri è morto.
Così confondi l’impostor? Così
ti rendono i tuoi dei, que’ dei, superba,
da te sì mal pregati, il tuo Sesostri?
di una misera madre, ah! non più madre.
Godi del pianto mio. Se non ti basta,
Pur se cerchi il mio core e se il mio nodo,
Fa’ che vittima cada a l’odio mio
quel carnefice infame e tua son io.
So ch’ei Sesostri uccise.
So qual ne sparse il crudo.
per vendicare il tuo, sveni il mio figlio.
Sì, il mio Osiri. In questo nome
riconosci il tuo prence e ’l tuo nemico.
temi il tiranno e non sperar l’amante.
Ferma, crudel. Di’ almeno
Piango i tuoi mali... Essi avran fine... e tosto.
La mia vista or t’irrita... Io parto.... Addio.
Barbaro, non partir. Prendi; e ’l tuo braccio (Gli getta la spada a’ piedi)
unisca al figlio anche la madre. Il meno
resta a compir. Vibra. Ferisci. Uccidi.
Tu sospiri, o crudel? Tu mi compiangi?
Madre son di Sesostri e tu l’hai morto.
(Più non resisto). Ognun ritragga il passo.
chiede di te; né ammette indugi il cenno.
Non dipende da me quanto mi chiedi.
Tu ancor, Fanete, insulti
servo al dover. Regio è ’l comando. Andiamo.
(La tua pietade era comun periglio). (A Sesostri)
col rimembrar che mi uccidesti un figlio.
In libertà son le tue furie e sieno
Pria di morte sarò. Consiglio. Aita.
Artenice, l’avrai. Nitocri imita.
e, s’ei fugge al mio braccio, il tuo l’uccida.
in Sesostri il tuo sposo, il figlio mio.
egualmente ci chiama a vendicarla.
Sì, pronto ho ’l braccio e generoso il core.
Dimmi ’l crudel. Voglio ch’estinto il miri
sì mal comincia? Onde il tremor del passo?
Ma intendo. Chi esser dee sposa del padre
perdona al figlio. Io te da l’ire assolvo.
basta sola Nitocri a far ch’ei pera.
di languir oziosi e irresoluti.
Amor sia, sia ragion, salvisi Osiri.
risolverà ciò che io gli debbo. È vero,
Sesostri egli svenò. D’Amasi è figlio;
ma ciò ch’or più mi tocca è ’l suo periglio.
Dopo brieve ristoro in Menfi ei venne;
e vicino a la reggia or ora il vidi.
Perduti siamo, ove il tiranno ei vegga.
per mio cenno si vieta ad ogni passo
da’ più folti custodi; e ciò che sembra
miglior difesa, è mia maggior cautela.
Non basta, Orgonte. (Egli è Canopo). Il colpo,
che a la speme comun da noi si deve,
Vanne. Facile e pronto offri l’aspetto
d’Amasi a lui. Ti seguirà. Tu ’l guida
ne’ reali giardini e là si uccida.
A le nostre speranze il cielo arrida.
Si punisca; e chi la fronte
osa sottrar del nostro impero al giogo,
offra il collo a la scure, a’ ceppi il piede.
È giusta l’ira. È facile il gastigo.
D’Artenice parlai, per lei rispondi.
È vassalla col padre a te la figlia.
Ubbidirà. (S’ inganni e si deluda).
E pria che cada il dì, qual tu imponesti,
l’avrà regina e sposa il letto e ’l trono.
Vedi la mia bontade. A lei perdono
le sue prime ripulse. A me qui venga.
qual per mia gioia in lei favelli amore.
(Quel labbro udrai ma non vedrai quel core).
Bella, quale a me riedi? È spenta ormai
(Cieli!) Sul labbro mio più non la vedi.
Vanne, Fanete. In libertà qui meco
che tu sposa e regina oggi sarai.
Così prometto. Il tuo dover tu sai.
già l’odio in te, pudico amor ti accenda?
(Dal suo amor la sua tema or mi difenda).
non ben risponde a chi d’amor le parla.
Evvi chi tenta, o sire, evvi chi giura
nel real sangue una mortal vendetta.
Posso tradir l’idea del fallo;
ma tradir non degg’io del reo la vita.
la salvezza per or, non l’altrui pena.
Vedi che rea col reo ti fa il tacere.
Mi assolve la mia gloria. In pari grado
deggio fede a l’amor, fede a l’arcano.
Mal mi conosci e mal mi tenti. Amore
mi fe’ parlar. Mi fa tacer virtute.
cauto veglia. Ei si guardi. Abbia custodi.
Senza far me infedele e te tiranno,
di più cercar, di più scoprir non lice.
Quanto potea disse Artenice.
A che più cerco il reo? Già l’ho in Nitocri.
Madre e moglie si tema. Ardete intanto,
amorose mie fiamme, or che sul labbro
con voci troppo chiare amor favella.
Solitudini amene, a me gradite,
lusingate pietose i miei tormenti. (Si pone a sedere)
Qui ’l traditor. Ma trema il braccio. Ardire. (Snuda il pugnale)
Si uccida. (Va per ferir Sesostri) Osiri, a te.
Lascia, o crudele. (La ferma e le toglie il pugnale)
Qual demone o qual furia a la tua destra,
al tuo core insegnò colpa sì acerba?
(Ahi, qual mano mi assale! Ahi, qual mi serba!)
Non è demone o furia ira di madre.
Un colpo io scelsi, onde sapesti, o crudo,
qual ben si pianga e mal si perda un figlio.
per mano di colei cadeva Osiri.
si tragga a la sua pena; e tu l’imponi. (A Sesostri)
Poiché mancò il mio colpo, io son più forte.
Minacciami la vita e non la morte.
Tu d’Aprio traditor, tu di Sesostri.
Paventa in me la moglie, in me la madre.
La nemica di entrambi in me scorgete;
ciò che tentar io posso, empi, temete. (Parte tra le guardie)
la ragion che la salva. Un sì gran pegno
grande ostaggio ti fia contra i perigli
(E al viver suo respiro).
In me ti affida; ed a suo tempo aspetta
del regno la vendetta e del regnante.
Giugni opportuna, o cara. E sai qual sorte
No, a l’amor di Artenice.
su quel labbro il suo amor. L’amor che noi
d’imeneo stringerà fra le catene.
Tu con essa rimanti. A lei favella.
Il nume tuo, la tua fortuna è quella.
per tuo favor? Tuo dono è la mia vita?
di Nitocri la speme; ed al periglio,
sì, Artenice rapì d’Amasi il figlio.
O dio! No, non mi duol; ma miei delitti
son che per me tu viva e ch’io ne goda.
Che? Fia colpa l’amor? Rea la pietade?
Pietà, che gli empi assolve, è rea con essi;
e amor, che salva i rei, non è innocente.
colpa che fosse tua, te sventurato,
ma poiché quel tuo acciar tolse a Nitocri
in Sesostri il suo figlio, il re al suo regno,
il suo prence, il suo sposo a’ voti miei,
la colpa è tua. Tu l’empio, il reo tu sei.
(Moro s’io taccio). Odi, mio ben...
tutto il tuo amore; e tutto or vedi il mio.
Il reo tu sei; ma più del reo infelice
Questo è ’l mio core. Ei vede il fallo; e ingiusto
amor non lo condanna, anzi l’obblia;
e teme ne la tua la pena mia.
Tu di me l’abbi, o prence. E se in Sesostri
più sperar non poss’io, se in te non deggio,
d’Amasi al nodo. Altro favor non chieggio.
Addio. Sposa di lui tu non sarai;
me non empio e non reo forse vedrai.
S’insidia la mia vita. Ah! Tu mi salva.
e tu d’Amasi sposa in vita il serbi?
Conto a lui renderò del mio soccorso.
(Volo a Fanete. Ei ne prevenga i mali). (Parte)
E per grand’uopo, o bella.
Tu a lui mi guida; e da me sappia
del padre il rischio e ’l traditor del figlio.
(Cieli! Del figlio?) Andiamo. (In questo core
ancor ti sento e ancor mi piaci, o amore).
Sì, l’ingiurie, i disprezzi, i tradimenti,
E nuove stragi a l’ire mie risparmi.
Vanne. Poco ti costa esser felice.
paventa, o scellerato, il furor mio.
Vanne. Ubbidisci, amane il prezzo e spera.
(Per deluder costei finger degg’io).
Vieni, o bella, a calmar...
onde ancor sei tu minacciato e ’l figlio.
m’insidia ancora. Olà! Si arresti, o fidi,
che alcun la vegga o favellar le possa. (Partono alcune guardie)
or non temer. Vien d’altra mano il colpo.
Vecchio straniero e ignoto
di te richiede. Ei ti esporrà l’arcano.
Venga, Quanto a te denno i giorni miei.
(Il caro ben voi custodite, o dei).
Che mai vegg’io? Quegli è Canopo.
pur mi esaudir gli dei. Pur mi è concesso
Tu vivi alor che morto io ti compiansi?
Tal mi credé chi sul mattino immerse
la spada scellerata in queste vene.
che il tuo gran figlio iniquamente uccise.
Oggi nel bosco ei fu trafitto. Io ’l vidi
fiero uccisor volger ver Menfi il passo.
Artenice parlò. Non v’è più scampo).
Temi per te. Forse non basta a l’empio
tien minaccioso il padre). (Veduto Fanete)
Canopo, a me ti volgi. Osserva. Parla.
Quegli, signor? Quegli tuo figlio? Ah, l’empio!
Quello è ’l suo traditor, quel l’omicida.
Il figlio mio tu assassinasti?
siane ’l tuo cor. Ben lo ravviso. Ei tinto
va del sangue di Osiri e va del mio.
tolse al tuo figlio, onde mentirne il grado,
la regal gemma e di Ladice il foglio.
fosse l’idea. Tremane, o sire. Io parto.
E contento morrò, se meco io scerno
scender quell’empio al doloroso Averno. (Parte)
Va’. Contento sarai. Morrà l’iniquo.
Più non si tema. È cheto,
sire, il tumulto. A l’imeneo felice
che d’Amasi l’aspetto e d’Artenice.
che uscì da la tua man colpo sì enorme?
Morì, non dubitarne; ed io l’uccisi.
Qual disegno era il tuo? Quale al misfatto,
qual mai ti mosse ira esecranda e ria?
Tutto saprai, quando saprai qual sia.
E ben, chi sei? Parla, o crudel.
Dal colpo che fec’io, non mi conosci?
Ei t’insegni qual sono, ei mi ti mostri.
Odilo e ne paventa. Io son Sesostri.
Ah! No, mio re. (Sesostri dà di mano alla spada)
se di sì nobil morte egli qui more?
Non l’avrò solo. (In atto di difesa)
ma sanguinosa, tormentosa e lenta.
comincino da me, se tanto ardisci.
Anche Fanete a’ danni miei?
Saziati, o crudo, e prendi. (Getta la spada a’ piedi di Amasi)
Da l’odio mio la peggior morte attendi.
vederti esangue, unire il padre al figlio.
Mi fu avverso il destin. Pur mi consolo,
che un tiranno di meno avrà l’Egitto.
Fremi ma ne’ miei ceppi; e tu, Artenice...
A te degg’io la mia vendetta e piangi?
Lascia ch’io pianga. Lagrime più giuste
altro prence non hai che dal mio core.
Amasi è re. Fanete è genitore.
Con la vittima rea colà ti attendo;
e pria ch’ivi d’amore arda la face,
abbia il regno, abbia il re vendetta e pace.
Sia pietà, sia fiacchezza, a te dà pena
di Sesostri il destin. Sin da’ prim’anni
tuo sposo esser dovea. Lo so; e al tuo duolo
vo’ usar pietà. Teco lo lascio e solo.
Quel che per essa è dono,
che già è perdita tua la gioia mia.
Voi, se temete il mio (Alle guardie)
sdegno e poter, lo custodite. Addio.
Sesostri, anima mia, così ti trovo?
il dolce nodo, il lieto amor che unirci
ambo dovea? Per me tu a morte? Ah! Questa
e a morire così per colpa mia.
Mio ben, non ti doler. Celami un pianto
Vivi, vivi contenta i giorni tuoi;
e se tanto può amor, vivi anche i miei.
Ten priego, o cara; e s’egli è ver che mi ami,
su la destra fedel bacio amoroso,
prendi ’l mio spirto e ’l custodisci in seno.
O dio! Non più. Sento che il cor vien meno.
prendi forza da lei. Vendichi un colpo
la tua patria, il tuo amor, la morte mia;
tuo periglio mai fia, lascia agli dei
tutto il supplizio di quell’alma indegna
e tu ad Amasi vivi e seco regna.
Va’ pur. Ben tosto ombra fedele al fianco
No, vivi. Ancor ten priego e in te conserva
la più cara metà de la mia vita.
questo è ’l solo piacer che spero e chiedo.
Come priva di te viver poss’io?
Se non puoi col tuo cor, vivi col mio.
più non ho che bramar. Moro felice.
Tutte restate ad affogarmi il core.
Ma lagnarsi che giova? Al colpo atroce
cerchisi scampo. Amor lo trovi o ’l tenti;
e se fia d’uopo, anche infedel diventi.
onde lo scampo? Onde il riparo, amico?
Dal tuo, dal zelo mio. Benché fra’ ceppi,
Sesostri è ’l nostro re. Coraggio e fede.
Tutto, spento il tiranno e salvo il regno.
son de le colpe sue pompe superbe.
E pompe diverran de la sua pena.
Qui fra poco Artenice al traditore
Ma in suo soccorso avrà quella del padre.
Molto sperar mi fai; e a tanta speme
deggio del mio valor le prove estreme.
Risponde di mia fé la pompa illustre.
Ove meco si assida oggi Artenice.
Ei fia quel nume, a piè di cui
vittima al figlio mio cadrà Sesostri.
(Barbara idea!) Poi sorgerà d’amore
al tuo re le delizie e la vendetta.
Si plachi ormai l’ombra di Osiri. A noi
ed a la pena sua venga Sesostri.
in te qualche pietà quell’infelice.
Pensa ad esser regina. Ei venga e mora.
fia di questo furor l’ombra di Osiri?
Ei di tre colpe è reo. Mi uccise il figlio,
pretende nel mio soglio e mi è rivale.
lo chiamano al gastigo. Ei venga e mora.
(Ahi! Dov’è il genitor?) Rivale il temi?
giova ch’io sia infedel, mi esca del petto
con la metà del cor la cara immago.
A me lo dona e più non l’amo. Ah! Senti,
senti quai patti acerbi. A me lo dona.
Ecco del dono il prezzo. Ecco Artenice.
Ecco la fede. Ecco la destra ancora.
Viva Sesostri e tua son io...
che non sia mio. Se quella man mi niega
il tuo pronto volere, avrolla or ora
del mio poter. Venga Sesostri e mora.
a fronte di due pene or qui si vegga.
L’una fia ’l tuo morir, l’altra Artenice,
mia sposa su quel trono, e fia la prima.
China al destin la fronte; e l’empio temi.
Vo’ le tue nozze e la sua morte io voglio. (La prende per mano)
Vieni. Regina e sposa mia tu sei. (Va con Artenice sul trono)
Perché, perché s’indugia il morir mio?
Morrai, fellon. Là s’incateni. (Sesostri è legato alla statua dell’Odio)
Il colpo attendo e non lo temo.
Ma il braccio temerai ch’è tuo omicida.
Essa il suo figlio uccida.
Se a lei ti scuopri, (A Sesostri)
teco morrà la madre; e se tu parli, (Ad Artenice)
per te de l’ire mie fia reo Fanete.
Numi, numi d’Egitto, e voi tacete?
Eccomi. Che si vuol? Sul trono assisa
o se giusto son io. Là scorgi il reo
del tuo morto Sesostri. In lui si adempia,
e si adempia da te la tua vendetta.
Mio figlio, sì, ma un figlio indegno e vile
e traditor del tuo. Qui l’abbandono
a le tue furie; e se ti manca un ferro,
eccoti ’l mio. (Le getta la spada)
Lo prendo e corro... Ahi! Dove?
Qual gelo? Qual orrore? Un sì bel colpo,
che già fu voto mio, da me or si teme? (La prende e va furiosa verso Sesostri, poi si ferma)
A che più tardi? Egli tuo figlio uccise.
Ei dunque mora. (Torna verso Sesostri)
Pensa a Fanete. (Ad Artenice)
Narrami, scellerato, anche una volta
il tuo delitto, onde più pronta a l’ire
a lui di più? Non ti mostrò l’acciaro
che Sesostri cingea? Sugli occhi tuoi
non vantò il tradimento e ’l traditore?
d’Amasi il figlio e l’uccisor del mio. (Corre a Sesostri)
Ferma, o regina. (Discende furiosa dal trono)
Olà! Che tardi? Ei mora. (Alzandosi il prospetto, si vede tutto il tempio illuminato con l’ara d’Amore e d’Imeneo in lontano. Cade il simolacro dell’Odio e resta disciolto Sesostri. Sparisce il trono e, volendone Amasi discendere, si trova incatenato ad un sasso)
Qual tradimento? O cieli! Io fra catene?
vendica il padre, il re, Nitocri e ’l regno.
Io? Io tradito? (Amasi vien circondato da le guardie)
quel sangue scellerato il tempio e ’l nume.
le ingegnose catene, onde sei colto.
Un sasso è ’l trono mio? Lacci al mio piede?
Taci. Non ha vassalli un traditore.
O minacce! O destin! Ti cedo il soglio. (A Sesostri)
Voglio il mio regno e la tua morte io voglio.
Da me, da lui cerchi pietade ancora?
Ei disse. Io dico: «Amasi vada e mora».
Un carnefice attendi. Al suo supplizio
Andiamo. Io morirò; ma temi ancora
d’Amasi le vendette. Ancor sepolto
tuo nemico m’avrai. M’avrà l’Egitto
la tua pace e ’l tuo amore; e col mio sdegno
sarò fatale al re, fatale al regno. (È condotto altrove dalle guardie)
Tanto si dee di questi fidi al zelo.
Meglio i suoi casi udrai. Giova che lieta
vegga or Menfi il suo re.
in Artenice ancor la sua regina.
Contenta alfin col mio Sesostri io sono.
Oggi è felice il regno e lieto il trono.