Metrica: interrogazione
686 endecasillabi (recitativo) in I rivali generosi Venezia, Pasquali, 1744 
                                           Elpidia è mia.
                                             E Olindo mora.
E col mio sangue il tuo si sparga ancora. (Si battono)
Principi e qual furor, qual genio infesto
al greco impero, a cui sinor voi foste
gran sostegno ed onor, v’agita? E spinge
Quel ferro che dovria del sangue ostile,
e all’Ausonia troncar gli antichi ceppi?
apre l’ugne a squarciar di fronte al Goto
fa che nel proprio sen rivolga i rostri,
quale il frutto sarà degli odi vostri?
Sovrano eroe, che del maggior regnante
                                E le virtù sostieni...
                                  Omai permetti
                         Ed i rivali affetti.
Chiamisi Elpidia. Io ben più volte, o prenci,
le brame vostre e gli odi vostri intesi.
                                          E ch’io la vidi...
                                               Primo mi accesi.
Con l’incontro sperai de’ maggior rischi
                                          E questo ferro
mi pendé forse, inutil peso, al fianco?
                                            D’esserti forse
egual, se non maggior, poss’io vantarmi.
E tanta egualità decidan l’armi. (Tornano per battersi)
E il rispetto si obblia? Dono quest’ire
al vostro merto, al vostro amor ch’è cieco.
Quetatevi o farò che da’ più cari
il basso volgo a più temermi impari.
le vostre risse ascolti e le componga.
Quanto è possente amor sui nostri affetti!
arde Ormonte ed Olindo. Il troppo affetto
è per entrambi un incentivo agli odi.
Tu li raccheta, o principessa, e scegli
uffizio altrove or mi richiama. Addio.
non so se più bramato o più temuto.
ove per fasto amor le faci accende,
                            E il mio morir.,,
                                                            Dipende.
                                          Ed io divoto...
                                  A mio favore...
                                                               Il voto.
è di affetto volgar troppo incapace.
per sentiero di pianti e di sospiri
di vil beltade al basso acquisto aspiri.
prove da voi di amor più grande. Udite.
han da sentir l’ultimo sforzo i Goti.
Dov’è più grande il rischio, amor vi guidi.
Elpidia fia, se pur vi è Elpidia a core.
Così serva alla gloria il vostro amore.
Ah, rubella del cor, lingua spietata!
la sentenza crudel? L’amato Olindo,
va tra le morti a ricercar la vita
e tu mandi a ferir chi mi ha ferita.
i tuoi colpi, i miei voti amor guerriero.
converrà che atterrita alfin trabocchi,
abbia appreso a ferir da’ tuoi begli occhi.
                 Mio re.
                                 Non v’è più speme.
Già perduta è Ravenna e vinta cede
Chi seco ha il suo valor non è mai vinto.
No, non mi aduli. Al primo assalto è forza
che cada la città. Ma non è questo
sola Rosmilda è il mio tormento.
                                                            (E il mio).
                                                  Ma serva,
ma di empio vincitor preda lasciva.
l’estremo è de’ miei mali. Ah se ancor m’ami,
                                         Vanne ed allora
che delle turbe ostili il fier torrente,
col piede vincitor la reggia inondi,
                                                    Ove?
                                                                 A Rosmilda
e in quel fianco innocente... E dir lo posso?
                                       Che! La regia figlia
                 Così ho risolto e così tento
sottrarmi al disonor con un delitto.
                                              O morir deve
Io di entrambi per lei scelgo il minore.
(Ah, per salvarla a me dia ingegno amore).
                                Ruotin or gli astri
Simulerò la mia sventura; e forse
obbligherà l’insolito ardimento
la nimica fortuna al pentimento.
                                Alla difesa io volo.
Vitige, e tu che pensi? Ovunque volgi
il tuo pensier, perdite incontri e mali.
che in Elpidia ti fermi e l’infedele
ancor può meritar che tu l’adori.
che da Roma fuggendo, ov’io ti accolsi
hai potuto lasciarmi e portar teco
il più fiero terror de’ miei pensieri.
Andiam... Ma per qual via, se il fiero greco
mi cinge intorno?... Alla grand’opra amore
sia consigliero e guida. Odi, o Feraspe.
Fuor della porta Aquilonar te n’esci,
e impetuoso il fier nimico assali.
Vanne e trionfa. Io con drappello eguale,
donde il flutto vicin stagna in paludi,
andrò furtivo ad occupare il tergo.
facil mi fia nel mal difeso albergo.
                              Figlia. (Oh tormento!)
                                               Il ciel provvide.
empia di stragi ogni sentiero e porti
sin entro a questa reggia incendi e morti.
                                     Invan le temi.
                                      Io la servil catena
                                                All’aria, al vento.
me, tuo sangue, tua figlia e del tuo core
unico oggetto, unica speme? E il puoi?
Se mi lasci così, morta mi vuoi.
(Oimè, qual entro al sen pietà mi scorre!
la natura, l’amor quasi mi han vinto).
Figlia, non paventar. Fra le sue spoglie
il vincitor non conterà Rosmilda;
mai segneranno incatenata a dito.
Non paventar. Convien ch’io parta. Addio.
Ma che tanto dolermi? E che pavento?
Vanne, inutil timor. Virtù non manchi
a chi manca fortuna. Ho cor che basta
Su, cada la città; trionfi il Greco
delle suddite stragi; e sia Rosmilda
trofeo del vincitor. Tante sventure
potran farmi infelice? Il cor nel petto
e del primo terror quasi ha diletto.
Presa è Ravenna. Il vincitor nimico
già ver la reggia inoltra i passi e l’ire
sazia di stragi. E tu, mio cor, che fai?
Che risolvi di te? Vuoi la tua morte
in quella di Rosmilda? Ah, che a svenarla
Bella Rosmilda, e tu della mia vita
avrai quella pietà che ho della tua?
che una speme sì dolce e sì gradita
a me doni un conforto, a te la vita. (Entra negli appartamenti di Rosmilda)
voce dolente ad impiagar l’udito!
                                                   I gridi
nel petto mio. V’è qualche rischio ancora
degno del mio coraggio. Entrar vogl’io.
                                          Soccorso, o cieli. (Di dentro. Ormonte entra negli appartamenti di Rosmilda)
parte nel fiero assalto e parte inteso
sta di Feraspe a ributtar gl’insulti,
ite, o fidi guerrieri. Entro a que’ muri
è chiusa la beltà che m’imprigiona.
o mal cauti o dispersi o disarmati,
vi frastorni da un’opra a me sì cara,
o vil timore o cupidigia avara. (Parte de’ soldati di Vitige va a rapire Elpidia; e parte resta con Vitige)
a vendicar tanta insolenza, o numi?
de’ miei mali il maggior l’esser rapita.
Qui ogn’indugio è periglio. Andiamo, o fidi. (Passano tutti il ponte, il quale per ordine di Vitige è tagliato da’ soldati)
Tosto il ponte s’atterri. E tu vien meco.
                               A ricercare in questo
se vi annida di te fiera più cruda.
Se vuoi mostro peggior, prendi ’l tuo core.
Elpidia, non temer che il labbro mio
i miei doni, i tuoi sprezzi e la tua fuga.
Dall’ira mia non aspettar vendette,
                                       Questo è quel solo
che mi fa più di orror. Dimmi più tosto
sempre dell’amor tuo piaghe e tormenti.
basti a farmi felice; e nel tuo volto
io cerco le discolpe al mio destino.
                             Elpidia mia.
                                                      Tu menti.
T’obbliga ad esser mia legge di guerra.
                                              Ma non il core.
                             Tu troppo iniquo.
                                                               Pensa
                            Ti placherai.
                                                     T’inganni.
Invan ti prego e tu mi fuggi invano.
Al tuo valor degg’io, principe invitto,
il greco ardir; ma del tuo ferro un lampo
mi troncò i nodi, abbagliò i Goti e solo
nel maggior duce hai sostenuto il campo.
se Italia ha scosso il giogo e se alfin doma
oggi a piegar l’ardua cervice a Roma,
forza è di tua virtù, cui tutto cede.
ciò che dovea, ciò che potea mostrarmi
degno di amar Elpidia; e al par di Ormonte
di mille rischi oggi sostenni a fronte.
primo piantai le sì temute insegne.
ecco spoglie, ecco schiavi e di Vitige
ecco il duce maggiore; ed a’ tuoi piedi,
ecco la regal figlia, ecco il diadema.
                                     Al gran valor di Ormonte
e al suo nobil destin serve la gloria.
                  A te, signor...
                                            L’alto tuo merto
Sorgete, che non dee varia fortuna
né voi miseri far né me superbo.
Chi per te sinor visse a te richiede
ma non tanto ch’io ceda. Elpidia al pari
                                        V’è chi per anco
Quai sono i tuoi trionfi? Ove pugnasti?
Ma saranno le mie degne di sprezzo?
                                       A te cotanto
(Più che Ormonte rimiro, ei più mi alletta).
Del tuo valore e della gloria mia,
                                                        Ei sia.
Che non oprai per acquistarti un regno?
Qual rischio non tentai per tua difesa?
Io di Ravenna espugnator primiero.
Non cadea la città senza il mio ferro.
Non vivea il capitan senza il mio brando.
I miei per testimon il duce istesso.
Da’ vostri merti io sol rimango oppresso. (Vien presentata una lettera a Belisario, la quale da lui leggendosi, ognun tace)
Principi, qui gara di onore indarno
vi trattiene in contese. Il fier Vitige
il premio a sì grand’opre. Or or dal campo
così mi scrive il general Fernando.
                            Iniqua sorte!
Ma s’Elpidia è perduta, io vado a morte.
che nimico io vi sia, nulla vi affanni;
se siete in mio poter, liberi siete.
Tu, Alarico, il tuo duce e tu, Rosmilda,
non cangi dignità, cangi vassalli.
E credi che se un dì propizia sorte
mi darà in mano il genitor Vitige,
forse non si dorrà che dalle chiome
gli abbia tolto il diadema; e di nimico
non vedrà in Belisario altro che il nome.
                                         Non più, Rosmilda;
seguimi, o duce; e tu rimanti. Addio.
Genitor, libertà, sudditi e regno,
tutto perdesti. Anche il mio core, o dio!
Gratitudine sia, sia genio o fato,
tu mel rapisti, Ormonte, ed io tel devo.
l’alta necessità dell’adorarti.
sì, ti amerò; ma non saprai ch’io t’ami:
che taciuto è dolor, scoperto è colpa;
tutti gli acquisti tuoi, tutti i miei mali.
nelle tue ingiurie e ne’ tuoi doni al pari.
Bella, questo silenzio e quest’orrore,
Empio, per detestar colpe sì enormi
                                                     E tu più dura,
dell’aspre pene mie senso non hai?
Finalmente che chiedo onde mi sdegni?
                                         Oimè! Che tenti?
Se non cedi all’amor, cedi alla forza.
ponno impetrar questi miei preghi e queste
o allontana gli amplessi o vibra i colpi.
torni a illustrar l’augusta fronte e torni
del tuo scettro real l’ausonio impero.
                                                 Non l’amo.
                                                    Il cielo.
                                                                    Ad opre
Se non cedi all’amor, cedi a la forza.
Amici, ecco il fellon. (Fuggono i soldati di Vitige, incalzati da quelli di Olindo)
                                       Perfida sorte!
Nessun s’accosti o dentro al sen di Elpidia
               Ferma, crudel. Qual colpa mai
v’è in quel petto innocente? In questo seno...
Mi muor l’alma sul guardo. Ah, torci altrove
l’iniqua punta; e se di sangue hai sete,
eccoti il ferro, eccoti il petto ignudo.
                                   Al primo passo
                                   Fermati, o crudo. (Tornano a poco a poco a riunirsi i soldati di Vitige)
Se uccider tu la puoi, chi potrà torti
all’ira del mio brando? Egli ancor fuma
delle gotiche stragi; eccoti a fronte
un tuo fiero nimico. Eccoti Olindo.
l’uccisor di Feraspe, io che più volte
cercai nella tua morte i miei trionfi.
                                  E se non bastan forse
all’odio tuo sì grand’insulti, omai
riconosci una volta in questo Olindo
il rival di Vitige, in questo ferro
l’uccisor di Ataulfo. Ancor va gonfia
questa più del tuo sangue avida mano.
Ti sento, amor geloso, ombra diletta,
entro del seno mio gridi: «Vendetta».
Più tacer è viltà. Me, me, tiranno,
Eran per me quell’ire; io dovea sola
già vittima cader de’ tuoi furori.
                                     Crudel, tu invidi
l’ultima gloria alla mia morte? Ah vivi...
Sì codarda mi stimi? Ho core anch’io
                                  La tua mi uccide.
Qual più agitato cor del mio si vide?
                            Svena il mio petto e un colpo
                                               Il tuo furore
contro Elpidia è barbarie, in me è vendetta;
il tuo periglio e l’odio mio tel chiede.
In che ti offese Elpidia? Olindo è il solo
che tutto meritar può il tuo furore.
si consacri al piacer della vendetta.
Libera Elpidia sia, purché tu resti
La fé ricevo e la mia vita impegno.
le ragioni dell’odio; e se mi amate,
custoditemi Elpidia; io vivo in essa.
E tu prenditi il ferro e il sen mi svena. (A Vitige)
                                     O cari ceppi!
                                       Ahi, qual tormento!
Io vado, Elpidia, a morte e lieto io vado
col piacer che tu viva e forse mi ami.
ch’è l’ultimo respir del viver mio.
più felice consorte. Un solo istante
dona talvolta a chi per te sen muore.
Lunge inutili indugi. Ogni momento
all’ingorda vendetta è un gran tormento.
Viver poss’io, quando a morir tu vai?
Dopo tante del cor smanie importune,
te in libertà, te in sicurezza io trovo,
                                         Oimè!
                                                        Tu piangi?
contaminaro il fregio? E a tanto ardire
avrà spinti quegli empi il tuo bel volto?
Troppo, Ormonte, mi chiedi; io troppo ascolto.
Di lascivia o di sdegno io ben cadea
m’era il ferro omicida o il labbro impuro.
Devo l’un, devo l’altra al solo Olindo,
mi pose in libertà co’ ceppi suoi;
mi pose in sicurtà co’ suoi perigli.
                            Ti ha vinto Olindo
nelle gare di onor. Nulla ti resta
Addio, chi sa? Vengo a salvarti, o troppo
la bella Elpidia ha sospirato e pianto.
Ingrata libertà, quanto mi costi!
Per te, Olindo, per te soffre gli strazi
che doveano esser mie, loda e ringrazia.
quest’anima ancor viva? Ah, che purtroppo
trofeo di amore e di vendetta io ’l veggio
nel proprio sangue immerso. O fier oggetto
chiusi alla luce! Udir que’ fiochi accenti,
finir col nome mio! Vedere Olindo,
ahi spettacolo, ahi duol! trafitto e morto!
Sento che peno e che languisco amando;
                                                    (O cieli! Iniquo!)
Ei mi usurpa il tuo cor? Per lui mi sprezzi?
T’intesi. Invan tu taci; invan mel neghi.
Non sa mentir Rosmilda. Io l’amo e tale
non è il mio amor che vergognar men deggia.
che ami in Ormonte un tuo nimico? In lui
ami l’autor de’ nostri mali? Il fabbro
de’ nostri ceppi? E in Alarico, o dio!
che la sua nimistà. L’amo, il confesso,
benché mio vincitor, benché nimico;
ma quanto adoro Ormonte, odio Alarico.
che rendi all’amor mio, per cui tu vivi?
Così premio il tuo ardir. Tentar di affetto
Tu sei sempre mio servo, io tua regina;
né mio eguale ti fanno i mali miei.
la pietà, per cui vivi? Ingrata, ancora
questo indegno rival. Forse il tuo esempio
m’insegnerà, spietata, ad esser empio.
stanze guidate il prigionier Vitige.
Ad ogni sguardo, al maggior duce istesso
inosservato ei stia. Tutta la gloria
di una spoglia sì grande a me si serbi,
altri che Ormonte, un prigionier regnante.
far fronte a’ tuoi rigori, a’ miei cordogli;
e se mi lasci il cor, nulla mi togli.
più ti credea, liberator ti trovo.
a un suo privato amor; fa ciò che deve
e l’opra stessa è il guiderdon dell’opra.
Vivo per te. Troppo infelice io sono,
in pro del donator l’uso del dono.
temo col mio parlar rendermi ingiusto.
Anzi col tuo tacer mi lasci ingrato.
                Vorrei... Ma assai maggiore è il dono
e di un mio benefizio e de’ tuoi voti.
Mi offende il tuo timor. Parla. Che chiedi?
Se hai ragione su Elpidia, a me la cedi.
come cosa ch’è tua, toglier mi puoi.
                               Questa vita.
                                                       Elpidia?
                                                                         O dio!
O amore! O gratitudine! O tormento!
tanti litigi il brando; io più non sono
il tuo liberator ma il tuo rivale.
Ferisci a tuo piacer, ch’io non ti offendo;
e a chi vita mi diè piaghe non rendo.
(Ah vile Olindo, ancor resisti! E puoi
esser del tuo rival men generoso?)
Elpidia.. Oimè! Tregua, o sospiri. Elpidia...
                                          A me la morte.
Vanne, rival felice. Io qui mi resto
in preda a’ miei dolori. A un disperato
l’ingrata compagnia di un fortunato.
M’ingannate, o pupille? Olindo è quello?
De’ miei timori il primo oggetto? È desso?
Sì, ch’egli è desso. O caro Olindo! È forza
ch’io così proferisca il tuo bel nome.
non è gli affetti a simular bastante.
Grata ti sono e, dirò meglio, amante.
Elpidia... Ahi vista! Ahi pena! A che non moro?
Olindo, e qual dolor? Di che ti affligi?
Tu pur vivi? Io pur vivo ? Il mio contento
O amore! O gratitudine! O tormento!
Il vedermi ti turba? Allor ti attristi
che ti vengo a giurar che più ti adoro?
figlie dell’amor tuo, che in altro tempo
mi avrian fatto morir per troppa gioia,
quasi or mi fan morir per troppo affanno.
Perché, o caro, perché? Mirami. Parla.
                                                         Spietato.
                                                              Il fato.
non mi far più morir. Dimmi, per quelli
dolci nodi di amor, per questo volto,
che ti piacque una volta, e più per queste
lacrime, che tu versi e ch’io pur verso,
Ascolta la mia morte in un sospiro.
Al rivai, per cui vivo, io ti ho ceduta.
                                                                 O dio!
Ah, non mi affligger più, che troppo io peno.
Ancor m’ami, ancor peni e pur mi cedi;
ed amare anch’io devo il tuo rifiuto.
che troppo ha di virtù per esser vinto,
tormenta, sì, ma non distrugge amore.
                     Ah figlia!
                                         Ah genitor!
                                                                Deh prendi,
invece di un amplesso, un mio sospiro.
                                La cara prole?
                             Tu serva?
                                                 O duolo!
                                                                   O pena!
devo alla tua pietà si fier tormento).
Se al comune dolor qualche conforto
dell’esser servi a Belisario il grande.
padre più che nimico. Ei non mi oppresse
«E credi che se un giorno» egli mi disse
«avrò in mia mano il genitor Vitige,
forse non si dorrà che dalle chiome
gli abbia tolto il diadema; e di nimico
non vedrà in Belisario altro che il nome».
Tanto fe’? Tanto disse? E non hai finto?
Generoso nimico! Or sì m’hai vinto.
                                      Si attenda Ormonte,
che prigionier mi fece, e a lui mi guidi.
Trionfaro il tuo braccio e le tue ciglia
del genitore insieme e della figlia.
meditava vendette. Arride il cielo
a’ miei giusti disegni. Io nol rifiuto.
Belisario nol sa. Destati, o mente,
dal tuo cupo letargo e ardisci un colpo
Poi Rosmilda sia tua. Vanne ed affretta
un riposo all’amore e alla vendetta.
                                     Io stesso il vidi.
lo tiene Ormonte ad ogni sguardo?
                                                                Ei spinto
sol co’ tuoi precipizi, alzarLo tenta.
(Tanta viltà in Ormonte? Ei da sé stesso
                                           Teco favello.
                                                A lui celiamci.
seguimi. O quai perigli han le grandezze!
(Buon principio han le frodi. Ingegno all’arte).
                                                     E che? Saranno
premio delle mie glorie i tuoi disprezzi?
Le glorie apprezzo e il vincitor non amo.
                                      La lite ancora
al tribunal di onor pende indecisa.
                                                        Olindo
cedermi non potea, se sua non era.
conosco il tuo gran merto e vil sarei,
ma tutta la pietà che posso usarti,
credimi, sarà il dir: «Non posso amarti».
Vanne, ingrata beltà. Sento che l’alma
si duol di averti amata e scossi i ceppi,
chiede la libertà per sua vendetta.
                                                 Io prigioniero?
                                       E tu ministro
De’ tuoi cenni, o gran duce, eccoti Ormonte
ceder ad altra man sì illustre spada,
a te accrebbe le palme, a me le glorie.
la depongo, o mio duce; e il suo chiarore
dell’innocenza mia ti faccia fede.
Vedi audacia di reo! (A Belisario)
                                        (Cor sì sublime
Vitige preso e ben guardato Ormonte, (Ad Alarico)
                                      In me confida.
ben custodito alle sue stanze il guida.
Congiurate a’ miei danni amor e sorte;
sarò qual fui. Sui vostri lumi istessi
né accrescerò colla viltà del pianto
a’ miei mali il trionfo, a voi l’orgoglio.
qual interno spavento il cor mi fiede?)
caro... liberator... Ma qual ti veggo?
Quando merito palme, incontro ceppi.
e fa de’ lauri miei le mie ritorte.
io ne senta pietà, mira i miei lumi,
vita ch’è cara a me, perch’è tuo dono,
troppo il mio fato insuperbir tu fai.
Vuoi ch’io non pianga e alla prigion ten vai?
Va prigioniero Ormonte e ch’io non pianga?
alla salvezza sua. Sol tocca a voi
né forza a voi, se amor vi regge. Ormonte,
per la tua libertà piace ogni rischio;
della tua libertà tormi la gloria,
l’onor non mi torrà della mia morte.
                                  Dovrò arrestarmi?
                                              In troppo rischio...
                                      Sento il mio core.
              M’involo.
                                  Ah, mi trattiene amore.
sol perché io mora, i tuoi begli occhi ascondi?
Se morto mi volete, o luci amate,
non vi ascondete, no; solo un momento
                                       Poco m’importa.
(Ah, che se parte Olindo, Elpidia è morta).
                           Chi sei?
                                             Sì sfigurato
che più non mi ravvisi? Almen dovresti
conoscer al pallore, al pianto, al duolo,
che un sì misero oggetto Olindo è solo.
Tu Olindo? Olindo sei? Non ti ravviso.
(Ah, purtroppo conosco il suo bel viso).
Così, così rispondi, Elpidia ingrata,
a chi ti serba amor, ti mantien fede?
Così Elpidia risponde a chi la cede.
odia ancor la mia gloria. Io non avea
in petto un’alma vil né un core ingrato.
Per esser generoso, io fui spietato.
Se mi cedesti, a che di amor mi tenti?
qualche pietà richiedo a’ miei tormenti.
che più simuli teco e il cor ti asconda.
Tu di esser mio godesti, io di esser tua.
Ma che pro? Tu mi cedi e i dolci nodi
di sì soave amor tronca un rifiuto,
                                           Il tuo possesso
ho ceduto al rival, non il mio affetto.
Se nulla speri, a che di amor mi tenti?
Qualche pietà sol chiedo a’ miei tormenti.
Ah, non mi affligger più che troppo io peno.
né dell’idolo mio né di me stesso;
e ad accrescer tormenti al dolor mio,
Ben cruda è quella sorte, invitto Ormonte,
empia quella beltà che ti tormenta.
Tu mi vieni a inasprir, bella Rosmilda,
con la pietà del tuo sembiante i mali.
Se mai fosse Rosmilda il tuo destino
rigor di volto o crudeltà di fato.
Rosmilda, hai troppo a core un infelice.
Il più bel de’ miei voti e il più spietato
è la tua libertade. Ecco due ferri,
principe valoroso. Essi al tuo piede
assicurin la strada. Io verrò teco.
grande il coraggio tuo, molti i tuoi fidi.
stien pur meco i miei ceppi; o pur la stessa
destra, che me gl’ impose, ancor gli sciolga.
O di troppa virtù crudel consiglio!
ove sin l’innocenza è un gran periglio.
daria prova alle accuse. A un core armato
di sua innocenza, è assai peggior destino
di miglior sorte! Or che non vuoi dal mio
braccio la libertà, l’avrai dal labbro.
A Belisario andrò. Forse a’ miei preghi
la donerà pietoso; o pure io stessa
parte de’ ceppi tuoi; né sarann’essi
i primi che per te sostengo, o caro.
                     Sì, che ti adoro e l’amor mio
devo a tuoi doni, a’ tuoi begli occhi il devo.
Ahi Elpidia! Ahi dolor! Deh perché amarti...
No, prence amato, amor non cerco e a prezzo
del tuo cordoglio un sì gran ben non chiedo.
                                Odi Rosmilda. Ancora
non ben mi sento in libertà di amarti.
Un’ingrata beltà mi tiene a forza
Se più l’ami, non so. So ben che devo
amar te, sprezzar lei. Stimolo forte
sarà la sua fierezza e il tuo dolore.
O dolcissimi accenti! O speme! O voti!
quando ancora è in periglio il caro Ormonte?
se imperfetto è il piacer, fiacco è il dolore.
Udisti, Olindo? Io di tal fallo Ormonte
                                                     Gran duce,
chi men si crede è traditor. D’ignote
trame ti posso io discoprir gl’inganni.
So quanto m’ami e la tua fé m’è nota.
Legger desio, svelando i tradimenti,
i suoi rossori al traditore in fronte.
                                  Mente chi ’l dice.
Il traditore è qui. L’attesto anch’ io.
                                (Che ascolto!)
                                                            A tempo io giunsi.
                                      All’opre mie
                                               Olindo solo (A Belisario)
                                              Costui (A Belisario)
è accusator rival. Premongli troppo
Scoprir si denno i tradimenti alfine.
Ah, Olindo ingrato e vile, è questo il premio
che rendi all’opre mie? Tu mio rivale?
                                Nol credo ancora.
                                                                  (O duolo).
Sia testimonio il ciel, giudice il mondo.
Ormonte è tal, qual qui lo attesta Olindo.
Lo attesta il labbro e sosterrallo il braccio,
quando fia chi ’l contenda, in faccia a tutto
il greco campo ed all’ausonia gente.
                           Belisario, egli è innocente.
                                     Fe’ prigionier Vitige,
per liberar me suo rival da’ ceppi.
Quivi ascoso il tenea, perché la gloria
                                        (O nobil alma!)
                                 (O caro amante!)
                                                             Basta.
Gli leggo omai la sua innocenza in fronte.
Resti preso Alarico e sciolto Ormonte.
                   Sono innocente.
                                                  Anzi spergiuro.
Chi è infedele al suo re fede non merta.
                                            (O me infelice!) (Si parte con guardie)
                                           Rosmilda, intendo.
                                        Io pur...
                                                         Di Elpidia...
                                                         Di Olindo...
Principi, or non è tempo. Il suon giulivo
là c’invita a goder, dove la gioia
e alla sua libertà festosa applaude.
Ivi all’ombra real de’ sacri allori,
                             Deh Rosmilda!
                                                           Ah Olindo!
                                                                                  Ah Elpidia!
Perché amar tu non puoi chi più ti adora?
Perché amar non poss’io chi tanto mi ama?
                                               Tu il mio tormento...
                                          Tu l’alma mia...
                                                E tu in sospiri.
                                     E tu di affanno.
Miracolo è di amor, com’io sia viva.
Portento è del dolor, com’io non mora.
È fierezza del mal, se non mi uccide.
Per più volte morir, morir non posso.
Chi provò della mia pena più cruda?
Chi provò della mia più fiera sorte?
Quando ed a chi fu più crudel la vita?
Quando ed a chi fu più crudel la morte?
                                      Chi me lo addita?
                         O destino!
                                               O morte!
                                                                  O vita!
Sia destino o virtù, Vitige, ho vinto.
non la parte miglior ma la più forte.
Ma benché vinto, ancor son re. Fra’ ceppi
serbo il mio grado e son Vitige ancora.
sembra un periglio a’ tuoi novelli acquisti,
prendila ma risparmi il sangue mio
quello de’ miei vassalli. Egli ti basti;
Vitige e senza vita e senza regno.
Mal conosci, o Vitige, il tuo nimico.
per odio ma per gloria; e mai non ebbi
sete del sangue tuo. Servo e trionfo
per la grandezza altrui, non per la mia.
Che se fosse in mia man renderti il soglio
e la tua libertà, sperar potresti
lo splendor del diadema alle tue chiome;
forse di tuo nimico, altro che il nome.
Or sì m’hai vinto, o Belisario. Or sia
Vitige il non minor de’ tuoi trionfi.
che non cede al suo fato. In forte laccio
di amicizia e di pace, ecco, ti abbraccio.
Principi, a voi chiedo perdon di tante
                                           E quel bel volto.
Lascia, mio genitor, lascia che in tante
                                              Ti stringo, o figlia.
tu, Belisario (ah, pur convien soffrirlo!)
la bella Elpidia al fortunato Ormonte.
                                   O generoso Olindo!
Abbastanza m’hai vinto. Un cor mi sento
che tuo rivale esser potea con gloria.
Chi l’ebbe in dono, in dono ancor la cede.
Non trovo al merto tuo maggior mercede.
ch’io possa tolerar che la tua gloria
sia prezzo a’ miei rossori. Io l’ho ceduta.
farne a te un dono; e se non è, ben puoi
ciò che ancor non è mio far di te stesso.
sforzarti a rifiutar ciò che chiedesti.
                          O gran virtù di amore!
                                      (E di dolore).
Solo per tua virtude Elpidia è salva.
                                 Ed io l’onore.
                                       Alma, da’ freno alquanto
                              Occupa gli occhi il pianto.
Belle, voi sospirate e voi piangete?
io ben intendo. Ambe di amore ardete.
In me i vostri litigi, i vostri affetti
                           Il tuo desire...
                                                       È il mio.
Pendon da’ cenni tuoi la figlia e il padre.
                              E sia di Elpidia Olindo.
                                           Pago è il mio core.
                            Ch’io sia tuo...
                                                        Pur volle amore.

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