Metrica: interrogazione
480 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Praga, Wickhatt, 1725 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi e il contumace Adrasto,
nelle aperte sue piaghe il suo delitto.
degne della tua fama, son maggiori
                                          Fremo di sdegno.
Agl’amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gl’applausi?
                                                       Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
gli affetti meritar del tuo gran core.
(Ti arride amor. Sol per te chiedo). (Ad Alessandro)
                                                                  O amico!
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne amorzerò le fiamme; ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
qua giù, fuorché il suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il sofrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, che ei mi contenda e usurpi
nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma del re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
sono giuste; ma invano il mio Cupido
tentano spaventar... Che veggio? Ahi vista!
Né m’inganno; ella è dessa, ella è Lucinda.
dell’amor mio, costei sen viene e seco
rinfaccierà dell’onor suo le macchie.
Che far poss’io? Gli affetti a lei dovuti
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e goduta beltà più non mi piace.
                                          In quale oggetto
                                   Io vi ringrazio, o numi.
già sospirato e pianto. Oh lieta vista!
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo all’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
non viddi mai, ove fui noto e quando?
(Ah quasi dissi il fier destin d’amarti).
                           Di segretario in grado
                                Io con Lucinda, io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
Giorno (ah giorno fatal) che in voi s’accese
allor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovenir che in bianco foglio
me presente, segnasti e, me presente,
ti dovria sovenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon delle sue pene,
                                        Non mi soviene.
Non ti soviene? Ingrato...
                                                A chi favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
abbia con la mia vitta il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
parti, Lucindo, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labro espose
mi esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose e minaciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
                                      E poi?
                                                     Riparo
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
                                      Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Nell’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco ti abbraccio.
                                                             Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
(Io fui del mio morir fabbro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
importuno venir tosto non privi
del piacer d’una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio commando.
                   Da lei che adori, audace, or prendi
Perché Ernando è vassalo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Nell’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (Impugnando la spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                    Prence, anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è all’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
                                                E questo è il solo,
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba? Vuole
servirsi amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore;
in Lucinda sei reo, povero core.
Lucinda, sì, che ancor da te tradita,
amorosa ma invan forse ti appella
sua delizia, suo ben, sua dolce vita.
volge il cielo i suoi lumi; oggi si applaude
a’ trionfi di Ernando. Il dì venturo
fia sacro a’ miei natali. Oggi al valore
ne avrà tutta la gloria il vostro amore.
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
quella che, estinto il genitor Gustavo,
le belle spiaggie e ’l fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è freggio al debil sesso, invidia al forte,
che io servir possa ai cenni è mia gran sorte.
dir mi riman, ti vuo’ presente.
                                                         (Oh inciampo).
Costui, signor, mente l’uffizio e il grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento.
Nieghisi tutto a chi provar non puote.
Che sento! Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi,
leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio alla pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
                                                Or ora il dissi.
mentito è il ministero; io né giurai
né mai la viddi o pur ne intesi.
                                                          Oh dei!
E perché alcun della mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti.
mentitor me dicesti. In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon dell’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
colà al cimento. (Getando un guanto a’ piedi)
                               Ed io la sfida accetto.
ti desia ma non sa crederti il core.
non nascano per te vaste rovine,
che de’ mendaci è sempre infausto il fine.
Barbaro dio d’amor! Tu mi vuoi morto.
E quando? A punto allor che in vari oggetti
un omaggio ti rendo, oltre al costume.
perché sol cangio altar ma non già il nume.
                                   Il giuro.
                                                    Ed io nol credo.
d’esser rivale al suo signore, amarmi
e tradir l’amistà. Tant’è, dar fede
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Forché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo Erenice, io t’amo
Senza desio, senza speranza t’amo.
ma col cor d’Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio t’adoro.
se non alle mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
or tuo amante pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa. A quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea nell’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
Se errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella il pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor non mai si terge e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
stringerà il tuo rival sposa Erenice».
vero sarà. Chi le soscrive? Ismene.
Errar costei non può. Tutto l’ingrata
apre ad essa il suo cor. Ah cruda! È tempo,
è tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
e l’amor rispettai; morrà l’indegno.
ben qui ti trasse frettolozo.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è il sole e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
l’ora assegnasti e ’l campo; ed or paventi?
e a dover di monarca amor di padre.
È dal mio core la viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura.
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia che espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Sposa non l’abbracciasti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin, ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda ora ti dice:
                                       Se’ tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti?
più del tuo sangue, le mie piaghe e sia
il tuo rischio maggior la morte mia...
La tua, la tua vogl’io. Perfido, all’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
Io voglierò contro costei la spada? (Attonito vuol partire)
No no, da questo campo ad armi asciutte
                          (Corre all’occaso il sole
e in braccio ad Erenice Ernando è atteso). (Fra sé)
o ti diffendi o ti traffigo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
Tolgasi quest’inciampo all’amor mio. (Furibondo l’assalta e le gitta di mano la spada)
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile. Aggiungi alla tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
                      Ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà il minor, l’aver Lucinda uccisa,
doppo tolto l’onor, torle la vita.
                           Che tacer? Sia noto...
Padre, già ’l dissi, un mentitor è desso,
mentì già ’l grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda. In tali spoglie
No, Lucinda non sei. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene, a lui m’involo). (Parte)
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
seppelir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
nell’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a cuoprir, se non d’oblio.
Come, non è qui ’l prence? A me si chiami,
Orribil vista, o sogno spaventoso!
Quai fantasmi, quai larve in cor di padre,
in cor di re sveglian timore? Ah! Troppo
del mio coraggio in onta e con spavento.
or Casimiro ed or pareami Ernando.
Nel sogno inorridii; mi desto e scendo
qualche lor rischio il core anche vegliando.
                             Figlio... Sparrite (Alzandosi allegro)
                                         Padre...
                                                          Vieni...
                 Ahimè!
                                  O qual facesti?
                                                               O stelle!
                                 Ah! Che dirò?
                                                             Rispondi.
Perché lo sdegno... Una ne l’altra...
                                                               Siegui.
Mancan le voci, attonito rispondo.
Nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi, ah! di quel sangue.
                                                                    Questo,
preppara pur contro il mio sen, preppara
questo, il dirò? del mio rivale è sangue.
                                                   E ragion n’ebbi.
ragion avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando, amico!
Vive il rival? (Voi m’ingannaste, o lumi,
                                 Io son confuso.
                                                              Ah, duce,
io moria per dolor della tua morte.
e per versarlo in tuo servigio, o sire,
così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!)
fra giustizia e pietà libri egualmente,
ecco al tuo piè ad implorar vendetta.
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
fu virtù in Alessandro. Odiai l’impuro.
                                               In questa notte
stringer doveasi l’imeneo segreto
per tema del rival, non per tua offesa.
ne’ tetti miei, sulle mie soglie e quasi
furor, dove m’hai tratto?) Io fratricida?
Sì, morto è l’infelice e, tosto ch’io
verrò teco agli Elisi, ombra adorata.
S’aggita al tribunal della vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure. Data
ho già l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo. Hai l’uccisor presente.
il silenzio del labbro e più di tutto
della stragge fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno).
                                                     (Oh destra! Oh ferro!)
                                   Ei fece un colpo
degno di lui. Vendetta, o re, vendetta.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è il cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
                                              La spada?
                         Eccola, o re. Già ’l core
dispongo a soffrir mali più attroci.
(Qual raggio a noi voglieste, astri feroci?)
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare un figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del frattel vuol il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
                                  (Oh dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re. Di Casimiro il capo
con l’amor mio dalle tue leggi esento.
È re di Lituania e come tale
non dee ad altro regnante esser soggetto.
Casimiro non re, suddito egli era.
                                (Ah misera Lucinda!
Muore il tuo sposo e ’l tuo rossor pur vive).
Così l’onor mi rendi? È questa, o sire,
or mi sovien; ch’ella si adempia è giusto).
Ma la giustizia offesa?... E la mia fede?
                                             Oh dei! Che pensa?
per mia cagion. Ernando, la regina
tu guida al prence e fa’ che sciolto resti
dell’imeneo verrò pronubo a voi.
Grazie, o signor; qual tu pietoso sei,
                           Eh! Non temer, reina,
sarai sua sposa e serberò la fede. (Parte)
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
spirti di Casimiro? Io di re figlio?
Io tra lacci ristretto? Io ceppi al piede?
sei mia gran colpa. Oh di Erenice, oh troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto,
son misero, son reo; spergiuro ancora
sono a colei che sì fedel m’adora.
                                       Oh gran regina!
mia Lucinda, mio ben, mia sposa, nomi
in bocca sì crudel troppo soavi.
nunzia della mia morte e spettatrice.
di averti iniquo, o mia fedel, tradita;
sul labro tuo morte non è ma vita.
tolgasi le ritorte. Il re lo impone.
                            Da te che offesi.
                                                           Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo. Contenta
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
                                      O gioia! O sorte!
Né sciolga altri che morte un sì bel laccio .
son padre ancora. Allor che morte attendi,
agli imenei t’invitto e ti presento
                                          Ed è pur vero
che sì tosto si cangi il mio destino?
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
O ben sofferti alfin pene e tormenti!
conferma a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
all’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Paga è Lucinda
                           Ma Casimiro...
                                                        Padre.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai. (Entra)
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai! Spietato
giudice, iniquo re! Ma tu che fai,
d’un tiranno il comando e soffri? E taci?
che far, che dir poss’io? Misera sposa!
Morir? Guerrieri ho meco, ho meco ardire
per eccitar ne’ popoli lo sdegno,
per suscitar ira e furor nel regno.
che esser può mio delito e tuo periglio.
Il re è mio padre; io son vassalo e figlio.
al comando crudel va’, piega il collo
alla scure fatal; ma sappi ch’io
caderò estinta pur del braccio mio.
Tu impalidisci? Il mio morir tu temi
né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di cor; e vuoi ch’io viva?
che ti chiedo morendo. Addio, mia sposa,
la pietà di quel pianto. Andrò men forte,
se più ti miro, o mia diletta, a morte.
Sposo, tu parti? Oh miserabil sposo!
Più non ti rivedrò. Barbaro padre!
Su, lagrime, corrette a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui il pianto? All’armi, all’armi.
Tutto ardisci, o Lucinda. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fuori di ceppi... Ah! Dove son? Che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
perdona al prence, anzi perdona, o bella,
alla patria, al monarca, alla tua gloria;
meglio tu placherai l’ombra diletta.
Sì, vanne al re pietosa e al figlio implora
                            Vuo’ pensar meglio ancora. (Parte)
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati d’amor cangiate, o amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Nelle tue mani è il mio destin.
                                                         Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                                       E fui spietato.
                                        Il mio germano.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ingiusto.
Sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non immiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori;
figlio mi abbraccia; addio. Vattene e muori.
Importuno dover, quanto mi costi!
e buon padre e buon giudice.
                                                       Signore,
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te della vendetta
il figlio condannato assolve il padre.
                         Se restano impunite,
se l’esempio del re non le corregge.
Presto, signor, cingi lorica ed elmo.
                                   Che avenne?
                                                             Il prence, oh dei!...
                                           Ah! Se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fuggati i suoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
Sì sì, Lucinda, popoli, Erenice,
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisferò, soddisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
Non per viltà ma perdonai per gloria.
vado a morir; giusto non è ch’io viva.
                                    Viva, viva.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
Traetemi al supplizio; e quando ancora
sì, questo acciar traffiggerammi; in pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
volontario a’ tuoi ceppi e piego il capo.
frattricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubbel, non reo vassallo.
punir si dee nel figlio. Il condanni;
mi ritrovò. Voi nol volete? Ed ora
padre, non re mi troverà natura.
                                           Un atto grande
qual re avesti, o Polonia, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Leva il berettone a Casimiro e li pone la corona)
far cader la tua testa o coronarla.
La corona a te cedo. Or sei sovrano
e assolverti potrai con la tua mano.
                                                Io la corona
le leggi tue publicherò dal trono.
Sia di Ernando Erenice e te, mia sposa,
Parmi affani sognar, mentre che godo.
Nel tuo giubilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco; oggi più degno
principio e nuova vita e nuovo regno.

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