Metrica: interrogazione
595 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Foligno, Campana, 1713 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
Ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo.
                                                             O amico.
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo a la fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama, là dove
non offendi il tuo prence o, se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che ’l suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo altero sei.
vuol privar te di un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude.
mi sia rival, che mi contenda e usurpi
nol soffrirò. Sento che m’empie un cuore
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
ch’un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che, prima che a te, fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti allor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
                                Osserverò s’è dessa.
(Purtroppo, amico, è dessa).
                                                     In quale oggetto
                                (Finger mi giovi).
                                                                   (O numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, o eccelso prence.
                                                     A te, che altrove
giammai non viddi, ove fui noto e quando?
(Ah quasi dissi il fier destin d’amarti).
                         Di segretario in grado
                                (O com’è scaltra!)
                                                                   Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
Giorno (ah giorno fatal!) che in voi s’accese
allor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti e me presente
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
Non ti sovviene, ingrato...
                                                A cui favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor? Gismondo,
tu pur non mi ravvisi o te ne infingi?
ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
Mi ha tradita il mio sposo o vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il fuoco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
                                  E poi?
                                                 Riparo
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                         Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco ti abbraccio.
                                                             Parti,
pria che il german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
(Io fui del mio morir fabbro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
                               Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer di una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
                                          E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                 Mia cara.
                                     Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
                                        Lo sa il tuo core.
e promesse d’amor vane e fallaci,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Eh taci.
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovea miglior mercede.
de l’aver vinto è tuo retaggio. Vinse
con l’armi tue, col tuo gran nome Ernando.
tu regesti la mano, io strinsi il brando.
ti convenia non meritarli, o duce.
fermo sostegno. Io da te l’ebbi e deggio
darti l’onor, poiché non posso il dono.
Principi, duci, popoli, si applauda
giunse a la reggia tua nunzio straniero
                                   Venga.
                                                  (Ei fia Lucinda).
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiaggie e ’l fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(O dei! Fia meglio allontanarmi).
                                                              Arresta,
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’uficio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento.
                                (Legge e minaccia).
                                                                      (O note!)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi?) Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi;
leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
(Ch’Erenice mi ascolti è mia gran pena).
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       (O dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti.
mentitor me dicesti. In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
si rimetta l’onor de’ tuoi trionfi.
Legge sia de’ miei voti il tuo volere.
la tua innocenza a sostener ma sappi
che mancano a chi è reo forti difese,
che retaggio al fallir son le ruine
e sempre infausto è de’ superbi il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume;
che se cangio l’altar, non cangio nume.
Di Lucinda mi spiace il rio cordoglio
ma per le pene altrui pianger non voglio.
Deh nol cercar, bella Erenice. Addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
Ancor ten priego. Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gl’occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegl’occhi e non amarli?
Ti amai dal primo istante in cui ti vidi,
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuorché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
che non spira altri amori il tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor mai non si terge; e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
                               In traccia appunto, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene, a me germana e di Erenice
la fida amica, il tutto intesi.
                                                    Ah troppo,
È tempo sì di vendicarsi. Iniqua!
                    No, mio signor...
                                                    Gismondo,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Io mi credea che d’Erenice al nodo
quello di Casimiro e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco;
più feroce ei divien, non meno amante.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette i’ fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pene.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo; ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura.
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Fede non le giurasti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
Sieguasi il tuo furor, pugnisi. Io meco
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue,
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?)
o ti difendi o ti traffiggo inerme.
Pugnisi al nuovo giorno. (Ernando intanto
andrò a punir di quell’ingrata a canto).
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi quest’inciampo a l’amor mio).
di donna vincitor. Dammi la morte.
                        E ancor t’infingi? Or via mi svena.
Sia gloria tua l’aver Lucinda uccisa,
dopo il tradito amor torle la vita.
Padre, già il dissi, un mentitore è desso,
mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
seppellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo e non sarà mio figlio.
Men da la tua virtù, giusto regnante,
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non di obblio.
Gismondo, ov’è il mio figlio?
                                                      Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamasi tosto il duce Ernando.
                                                           Al cenno
(Temo anch’io l’ire d’un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
qual acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma; e in che vi offesi, o dei?
                                           Padre... (Oh stelle!)
                                 (Ahi che dirò?)
                                                               Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                 Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
Questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
                                                  E ragion n’ebbi.
ragion avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando amico!
(Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi?
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua. Lagrime chiedo e sangue.
Ti vuo’ giudice e padre. Ah rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror de l’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia, ben ti è noto.
                                               A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
aver dovea. L’ora vicina e d’ombre
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agl’Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure e il capo
data ho la inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice. Il cor tel dica,
tel dica il guardo. Hai l’uccisor presente.
il silenzio del labbro e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno).
                                                     (O destra? O ferro?)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a vuotar ch’hai nelle vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe; il mio supplicio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?
                              Sire, i tuoi cenni attendo.
Custodirai ne la vicina torre
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso,
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
                                  (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re. Di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
tal le mie nozze il fanno; e re non dee
Rispetta il grado e ’l tuo rigor correggi.
nel far la colpa; e la sua colpa il trova
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Misera, e in chi poss’io ripor più spene?
De la real promessa or mi sovviene.
sposo l’avrai né mancherassi a fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
A sì bella pietade o quanto io devo;
se questa non  nasceva entro al suo core
che faresti nel mio, povero amore?
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel fregio. Il cor ti manca
di Casimiro. Io vel porrò. Lo attendi
il tuo pallido orror sarà più grato.
qual sia l’amor che tu m’inspiri; ei vale
teco a punir con questa destra ultrice
chi a te uccise l’amante, a me il rivale.
vien che ognor nova pena in me derive
per chi è morto con esso e per chi vive;
o in Ernando io lo pensi o nel mio sposo.
e più che a l’amor mio, pensa al suo sangue.
                               Ecco la man, vendetta.
vendicator se non amante io piacqui.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra’ marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Vuol il padre ch’io mora? Ahi che farò?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah sì, per me cadde il fratel ma cadde
Volea morto il rival, ne ha colpa amore.
Lucinda a me? Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi.
nunzia della mia morte e spettatrice.
di averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
                            (Caro dolor!) Custodi,
                               (Che cangiamento è questo?)
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato!
chiedo la pena mia, non il perdono.
tua nemica non più ma sol tua sono;
e la vendetta mia sia il mio perdono.
Prenci, vi attende il re, non più dimore.
Plachi l’ire del padre il nostro amore.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede, impegno
ne serve a l’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
vi figura il pensiero e non v’intende.
son padre ancora. Allor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuor che un tal dono. Abbilo a grado, il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
                                                    Eh, lascia
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede.
                       Mio ben!
                                          Mio dolce amore!
Padre, con sì bel dono a me due volte
a l’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel, meno mi offendi.
è il lasciarti, ben mio, non il morire.
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
e tiranno è di lei chi ne dispone.
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi ti uccide,
nieghi il nome di sposo a chi ti adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra, a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
Ma sappi, io pur morrò dal ferro uccisa
la pietà di quel pianto. Andrò men forte
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? A l’armi, a l’armi.
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fuori de’ ceppi... Ahi, dove son, che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai né fu ch’il guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno, dove
l’ire cader? Su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re.
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, mi agghiaccio, io primo offeso, io primo
rinunzio a la vendetta e gitto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora.
Seguiam suoi passi. Un sol rifiuto, Ernando,
non stanchi il tuo soffrir né lo sgomenti.
Odio che si rallenti è quasi estinto;
e quando ascolta, un cor di donna è vinto.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati di amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ingiusto.
Sarò più reo, perché tu sii più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cuor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori
e insegnami costanza allor che mori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge!
tu giungi, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi io non ti deggio.
(Principe, al tuo destin scampo non veggio). (E parte)
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
di acciar la destra e di costanza il core.
                                            Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gitati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun grida, ognun freme e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisferò, soddisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
da temer resta o da sperar? Sospeso
a memorabil opra il re s’invia;
e sospesa del pari è l’alma mia.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi move?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traetemi al supplicio; e quando ancora
sì, questo acciar trafigerammi; in pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio sol dolore, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
sembra più bella agl’occhi tuoi la morte.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse.
Di me disponi. In me le leggi adempi.
fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi trovarà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni.
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei.
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue publicherò dal trono.
Io pure in te, novo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati,
ti abbraccio amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte.
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che il vivo abbracci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.

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