Metrica: interrogazione
661 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Palermo, Cichè, 1708 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto.
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando; i suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo, ei me lo additi.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor. Sol per te chiedo. (Ad Alessandro)
                                                               O amico. (Ad Ernando)
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme, ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia; e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
qua giù, fuorché ’l suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
vuol privar te di un padre e me di un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, che mi contenda e usurpi
non soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor; ma sappi intanto
che un reo vassallo arma di un re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
                                         Che v’è? Che apporti?
                         Erenice?
                                            Ohibò Lucinda.
                    Non è ver.
                                         Siegui il parlare... (Furioso)
Piano, perché mi fate spiritare.
               Giunta è poc’anzi in questo lido.
Voi sospirate, ditemi un tantino.
giunger la vidi entro virile ammanto,
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
rinfaccierà dell’onor suo le macchie,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
                                      Che far poss’io?
                                        Ella sen viene.
(Purtroppo, Gildo, è dessa). (In disparte)
                                                     In quale oggetto
                                Finger mi giovi.
                                                                (O numi).
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto e quando?
(Ah quasi dissi il fier destin di amarti).
                           Di segretario in grado
                                (Oh com’è scaltra!)
                                                                     Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ah giorno fatal) che in voi s’accese
alor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti; e me presente
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
Non ti sovviene! Ingrato...
                                                 A cui favelli?
la tua fedel Lucinda; e sì mi aggiunse:
«E se nulla ottener poi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            O son tradita o finge.
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditore. Gildo,
tu pur non mi ravvisi o te ne infingi?
Ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
Mi ha tradita il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
mercadanti d’affetti, ebrei d’amori.
Taci, Erenice, il caro ben qui giunge;
testimonio fedel del nostro amore;
brama sì di goder ma taci, o core.
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni; egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il fuoco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro alora
fremé, si oppose, minacciò; compiacqui
al suo furor; tolsi congedo e tacqui.
                                  E poi?
                                                 Riparo
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso; e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei; ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco ti abbraccio.
                                                             Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
Io fui del mio morir fabbro a me stesso.
Pace al regno recasti e gioie a noi,
ma tu così pensoso? E che ti affligge?
                               Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer di una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di dar mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              È vero.
li vostri falli con l’altrui rigore.
                                        Ditelo al core.
e promesse d’amor vane e fallaci,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Eh taci. (Parte Gildo)
Voi far da consigliero e se un tantino
non vuol serbare a la sua amata i patti
che importa a te ch’essa ne crepi e schiatti.
de l’aver vinto è tuo retaggio. Vinse
tu reggesti la mano, io strinsi il brando.
ti convenia non meritarli, o duce.
fermo sostegno; io da te l’ebbi e deggio
darti l’onor, poiché non posso il dono.
                                 Di eroico amore.
Saria maggior mio acquisto il tuo bel core. (Piano ad Erenice)
Principi, duci, popoli, si applauda
con regia pompa al comun bene.
                                                            È giusto. (Tutti replicano «Comun bene», eccetera; vanno tutti per sedere al lor posto ma in tal mentre esce Gildo)
Lucinda è forse... (A Gildo)
                                  Queste son le guai.
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiaggie e ’l fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è freggio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(O dei! Fia meglio allontanarci). (In atto di partire)
                                                             Arresta,
dir mi riman, te vuo’ presente.
                                                          (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’ufficio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra esser di credenza, il re l’apre e leggendola guarda minaccioso il figliuolo)
                             Legge.
                                            (E minaccia).
                                                                       (O note!)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi?) Ah, figlio, figlio? Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci? (Scende dal trono)
son di tua man? Li riconosci? Leggi.
Leggi pure a gran voce; e del tuo errore
dia principio alla pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
E segna il cor ciò che dettò la mano».
                         Leggesti? A qual difesa
(Ch’Erenice mi ascolti è più gran pena).
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       (O dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in molte parti la carta e poi la calpesta)
mentitor me dicesti, in campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
si rimetta l’onor de’ tuoi trionfi.
Legge sia de’ miei voti il tuo volere.
la tua innoccenza a sostener; ma sappi
che mancano a chi è reo forti difese,
che retaggio al fallir son le ruine.
E sempre infausto è de’ superbi il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume.
che, se cangio l’altar, non cangio il nume.
Non molto andrà che d’Erenice in seno
strinsi, affrettai; cor ebbi a farlo e ’l lodo.
il mio cor nel tuo seno, io vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
Ancor ten priego, aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegl’occhi e non amarli?
Ti amai dal primo istante in cui ti vidi;
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spigne e mi trasporta?
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core;
fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
senza disio, senza speranza t’amo...
ma col cor d’Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio ti adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa, io solo
se ’l nieghi a le mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
mia beltade, io compiango i tuoi trionfi.
tua vittoria detesto, ogn’altr’onore;
né ti chiedo trofei dopo il suo core.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è raggione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor mai non si terge; e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
di voi, signore, in traccia or ne venia.
ch’adosso non mi trovo un pelo asciutto.
che nutrite nel sen per Erenice
                     L’offerta d’un diadema,
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
e sposa gode i desiati amplessi.
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Nella ventura notte
si stringe il nodo ma con chi nol so.
Così vicina è ancor la mia sciagura?
da Tilla, a me germana e di Erenice
serva fedele, il tutto intesi.
                                                  Ah troppo
È tempo sì di vendicarmi, iniqua,
                     No no, signor...
                                                   Non più,
parto col mio furor, tu taci il tutto.
Do l’ali al piè, straggi prevedo e lutto.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette fei cader, se a voi
gl’innoccenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo; ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innoccenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura. (Venceslao va a sedere nell’alto dello steccato)
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Sposa non l’abbracciasti e dir tu ’l poi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion, già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
                                       Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan l’ire traesti?
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai; più del tuo sangue,
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io, perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?) (In atto di partire è trattenuto da Lucinda)
No no, da questo campo ad armi asciutte
                          Corre a l’occaso il sole
e in braccio ad Erenice Ernando è atteso.
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi questo inciampo all’amor mio). (Siegue l’abbattimento, in cui Casimiro getta con un colpo di mano a Lucinda la spada)
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile, aggiungi a la tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
                      E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà ’l minor, l’aver Lucinda uccisa,
dopo tolto l’onor, torle la vita.
Padre, già ’l dissi. Un mentitore è desso,
mentì già ’l grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda, in tali spoglie
Non sei Lucinda, no; confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene, a lui m’involo).
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota
sepellir la mia pena, il mio rossore.
sul cor del figlio a tuo favore impegno;
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men da la tua virtù, giusto regnante,
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non di oblio.
mentre al certo credea con questo avviso
ch’egli affetto cangiasse ed ora temo,
mi rende in seno palpitante il core.
togliendomi dal sen l’amica calma,
spasimi d’agonie dispensa a l’alma.
da me partì, non facci la frittata,
Gildo, dov’è il mio figlio?
                                                Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
(Temo anch’io l’ire d’un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
quale acciar ti trafigge? E qual gran mal
tutto gelar fa ne le vene il sangue?
prova quest’alma; e in che vi offesi, o dei? (Appoggiandosi al tavolino, si cuopre gl’occhi con la mano, entra Casimiro con stile insanguinato)
                                           Padre... (O stelle).
                                 (Ahi! Che dirò?)
                                                                  Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo,
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                 Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
Questo (il dirò) del mio rivale è sangue.
                                                  E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni (Venceslao gli va incontro e lo abbraccia)
                         Ernando vive? Ernando amico.
Vive il rival! Voi m’ingannate, o lumi?
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua, lagrime chiedo e sangue.
Ti vo’ giudice e padre. Ah rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror de l’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia, ben ti è noto.
                                               A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempie.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’ogetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
aver dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei trafitto... Aimè, perdona.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
Si agita il tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure, il capo
data ho l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice. Il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente.
il silenzio del labro e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno). (Si cuopre gl’occhi col fazzoletto)
                                                      (O destra! O ferro!)
Casimiro l’uccise, ei fece un colpo
degno di lui; se nol punisci, o sire,
verrà quello a vuotar ch’hai ne le vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?
                           Sire, i tuoi cenni attendo.
Custodirai ne la vicina torre
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando, un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
Morirà Casimiro. (Lucinda sopragiunge)
                                   O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
tal lo dichiaro; e come re, né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
Rispetta il grado e ’l tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era, egli era
Tal lo condanno. Il grado, a cui lo inalzi,
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Venceslao vive e tu perdesti il padre.
Muore il tuo sposo e ’l tuo rossor pur vive.
Questa, o regnante, questa è la tua fede?
o due volte ingannata alma infelice!
or mi sovvien; che ella si adempia è giusto.
Ma la giustizia offesa? E la mia fede?
                                             O dei! Che pensa?
                                Spenta è per me pietade?
A l’onor tuo sodisferassi. Ernando.
                              Io l’ubbidia con pena.
                                  Eh non temer, regina,
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
                                            Ah no, reggina,
sempre nel suo dover salda è la fé.
                               D’un padre?
                                                        Ah no, d’un re.
non ti turbin le gioie, ecco vicine
che d’imineo fan strepitar le tede.
                                 E pure il cor nol crede.
nel sen dell’implacabile Erenice.
                                       Ma il cor non dice.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel fregio. Il cor ti manca
di Casimiro; io vel porrò. Lo attendi
il tuo pallido orror sarà più grato.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
qui d’intorno ti aggiri, ombra insepolta,
tu ricevi i miei voti e tu gli ascolta.
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a ragionar di amore.
né la tua fé né l’amistà di Ernando,
non può irritarti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso, egli è ben forte
                            E s’egli è tal, l’accetto.
                                               Tale il prometto.
                              Io più d’un seno, o bella,
                                              Sì, vanne
l’armi e l’ire a dispor.
                                         Tosto ogni indugio
fia che Erenice a l’amor tuo dà fede.
L’opra illustre compisci, anima amante,
la gloria tua, non la tua brama ascolta.
a servire, per sempre sfortunato,
a un padron furioso e innamorato
mi dicea: «Gildo olà»? «Son qui, signore».
ove Erenice...» «Intendo» »Or vola! Ah ferma!»
avea il moto perpetuo a le piante.
ch’esser vivo a l’inferno condennato.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra’ marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah sì! Per me cadde il fratel; ma cadde
volea morto il rival, ne ha colpa amore.
Lucinda a me, per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia de la mia morte e spettatrice.
di averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labro tuo morte non è ma vita.
                        (Caro dolor!) Custodi,
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo. Del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
che non sia inganno il mio gioir.
                                                            Ti accerti
anche il labro real. (Parla piano a Gildo)
                                     Scordo già tutti
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon, temer non dei.
                                          Strane vicende,
vi figura il pensiero e non v’intende. (Parte)
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agl’iminei t’invito e ti presento
fuor che un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morire...
                                                      Eh, lascia
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
no perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma (Dà un anello a Casimiro che poi con esso sposa Lucinda)
conferma a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
a l’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre,
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre;
la vita che ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far? Che dir poss’io? Veggo i miei mali
Penso al tuo duol e ti compiango. O sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno;
ch’esser può mio delitto e tuo periglio;
il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi ti uccide,
nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agl’Elisi, ombra costante
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra, a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
dal ferro uccisa o dal dolor. Tu piangi?
Tu impallidisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di cuore e vuoi ch’io viva?
                                                Il cor dall’alma
                              Il re suo padre...
                                                              Intendo.
Vengo, sì, Gildo vengo, un sol momento
dona a un misero cor per suo ristoro.
                                         Addio, mia sposa,
                                    Tu parti.
                                                       Addio.
la pietà di quel pianto. Andrò men forte
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? A l’armi, a l’armi.
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
ne la regia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fuori de’ ceppi... Ahi, dove son? Che parlo?
Tutta cinta è del popolo feroce
la sarmatica regia. Ognun la vita
Teco fra lor passai né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar; che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno, dove
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re.
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, mi agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio a la vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua cagione ascolta.
A la patria, al monarca, a la tua gloria,
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora.
al regio piè... Vuo’ pensar meglio ancora.
Seguiam suoi passi. Un sol rifiuto, Ernando,
non stanchi il tuo soffrir né lo sgomenti;
odio che si rallenti è quasi estinto
e quando ascolta un cor di donna è vinto.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
gioie sognava, Ernando; ed in voi figli
oggi penar convienci. Itene e i lieti
apparati di onor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ingiusto.
Sarò più reo, perché tu sii più giusto.
Vien meno il cor. Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signor?
                                                            A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori;
e insegnami costanza alor che muori.
Importuno dover, quanto mi costi.
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti; a te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
tu giugni, amico; in sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi io non ti deggio.
Prencipe, al tuo destin scampo non veggio.
                                           Eh non è questo,
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la città tutta e rotti ha li suoi ceppi
le donne e cavalier, l’armi e gl’amori.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
sodisferò, sodisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
Non per viltà ma perdonai per gloria.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traetemi al suplizio; e quando ancora
sì, questo acciar trafigerammi; in pena
io carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio sol dolore, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel; zelo indiscreto il mosse;
di me disponi; in me le leggi adempi,
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Venceslao si cava la corona di capo in atto di porla su quello del figlio)
                                              Il re tu sei.
il popolo t’acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano. (Venceslao corona il figliuolo al suono di timpani e trombe)
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue publicherò dal trono.
Io pure in te, novo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati.
Ti abbraccio, amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte!
ancor l’ombra amorosa; almen mi lascia
pianger l’estinto, anziché il vivo abbracci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esalto e godo.

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