Metrica: interrogazione
707 endecasillabi (recitativo) in Gl'inganni felici Venezia, Pasquali, 1744 
sfumar d’aure sabee nembi odorosi
e che tronco rimase al grasso armento
dalla sacra bipenne il bianco collo,
scendan l’anime forti al gran cimento;
e il regio banditor pubblichi intanto
del sudato trionfo il premio e il vanto. (Ascende sul trono)
vinti gli altri in possanza emoli atleti,
quand’ei non sia d’ignobil sangue e vile,
tutto d’Elide il regno in premio acquista.
Bella madre d’amor, tu che l’interno
penetri de’ miei sensi e il cor mi vedi,
di fior ti coronai, s’arabi incensi
fra vittime innocenti unqua ti ardei,
favorevole arridi a’ voti miei.
Sono i primi caduti. Al braccio mio (Lotta con due o tre atleti e gli atterra)
                                          Quello son io.
Un fier odio, che ancor non ben intendo,
                                          Ad una scossa
l’arene imprimerai con la percossa.
                                          Il fiero incontro
                               Forse funesto.
                                       (Sifalce è questo). (Lottano)
Quanto han costor di lena! Eguale ad essi
col feroce Acheloo lottare Alcide.
                                                Sento mancarmi
l’affaticato piè. (Cade a terra)
                              Cedimi, uom forte.
Non cedo al tuo valor, cedo alla sorte. (Si parte)
Mancan altre vittorie? (In positura di lottare)
                                           Assai facesti.
Vieni a goder del premio, eroe sovrano.
Non diedi al ciel le mie preghiere invano.
Lascia che al regio piè, Clistene invitto,
                                                Eroe che vince (Lo abbraccia)
degno è di questi amplessi. Ormai ricevi
matura alle vittorie; e sul tuo capo,
il peso trionfal di tanti onori,
verdeggino con fasto i regi allori. (Si leva la corona di alloro e lo corona. Suonano intanto le trombe)
va di un’alma sì grande? Io già nel volto
leggo la nobiltà de’ tuoi natali.
Patria m’è Atene e son Demetrio, figlio
Principe amico, al sen ti stringo e al novo
giorno conchiuderemo i tuoi sponsali.
Gioie non trovo al mio diletto eguali.
                                     Forza è ch’io parta.
ti attenderà sposo e consorte al regno. (Si va oscurando la scena)
di regnar non mi curo, altro non chiedo. (Scende dal trono)
allunghino la vita accesi lumi. (S’illumina la scena. Segue il ballo di lottatori)
per riveder la figlia, alma, in tormento.
Stelle, che più volete? Eccovi Oronta,
del tessalo monarca unica figlia,
fuor del regno, raminga e dietro l’orme
di Orgonte il mentitor che seco porta
il miglior di me stessa, alma ed onore.
Qui trovai l’infedel che, sazio e stanco
che mi giurò cotante volte e tante,
sotto altre spoglie è d’Agarista amante.
Sin che un giorno ei si penta, io qui mi fingo
degli astri osservatrice, arte già appresa
fin da’ primi anni miei. Perfide stelle,
che volete di più? Mi avete tolto
di Oronta il nome e quasi il sesso e il volto.
                               Se astrologo foss’io,
Altro io non so che i crudi affanni miei.
                 Principessa.
                                          E ben, qual fato
                                         Io già osservai
Dell’oroscopo tuo, de’ tuoi natali
e se pur non m’inganna il cielo e l’arte,
per te volger mirai tutti i pianeti
solo influssi in amor placidi e lieti.
dalle stelle non vien ma da quegli occhi.
                                              Da que’ sospiri
esce vampa d’amore. A che l’ascondi?
Celo l’amor, perché l’oggetto è vile.
                         Io voglio amar tacendo.
bacio di affetto e di allegrezza imprimo.
                                  Oimè, che ascolto!
Fa la gran gioia impallidirle il volto.
Se tra le angustie del reale albergo
                                   Rendi più angusta
più che lo sposo, il genitor mi piace.
                                Troppo m’è grave,
                                                      Ah non turbarmi
(Se mio non è Armidoro, altri non voglio).
Non ti attristar. Le donne usan così;
prima dicon di no, poi fan di sì.
fia Demetrio, di Atene eccelso prence,
di forte lena e singolar bellezza.
Sia qual egli si vuol, l’odio e il rifiuto,
che il passaggio è più dolce ed amoroso
dagli amplessi di padre a quei di sposo.
Pietà, Alceste, se mai piagarti ’l petto
lo stral che ti ferì? Scopri l’oggetto.
Servo ma che comanda all’alma mia.
Di che arrossisci? Ergi nel cielo i lumi;
                        Ed aita.
                                         Amo Armidoro.
                                         Fu il suo pennello
                                           (Il cor respira).
ch’ei sappia mai la mia viltate.
                                                         E forse
                                          Ah, se sì audace
                               Il soffriresti in pace.
il vedersi adorar da chi s’adora.
Se l’ami tu, lascia ch’ei t’ami ancora.
Inutili consigli, or che mi sforza
                                       Amor m’aiti.
Taci e tu, Brenno, quanto udisti.
                                                            Posi
su la mia fede l’amor tuo sicuro.
Se mio non è Armidoro, altri non curo.
Se sperar tu non vuoi, che far degg’io?
(Oppresso è dal dolor; non mi risponde).
Han vicino il sollevo i tuoi tormenti;
                                   Qui sei?
                                                     Pur senti.
ad altro oggetto abbia il pensier rivolto,
non è per te la sorte; il posto è tolto. (Si parte)
A’ primi rai della nascente aurora,
che lo attendessi e pur nol veggio; ah quali,
raggiri ei volge? E quanto tien lontano
dal genitor, dal regno amor possente?
tanto ha di forza una beltà gentile.
                                           Alcun non m’ode.
in libertà le voci e che ti spieghi
del genitor cadente e del tuo impero.
Inutile è il consiglio. Ascolta e taci.
                               O violenza o frode
mi dee por di Agarista. Alla tua fede
                                               Usa il tuo ingegno.
gli aspettati guerrieri. Io di quel regno
finger con essi ambasciator mi voglio
Appoggio al senno tuo sì grave incarco. (Arbante si parte)
                                                               Io leggo
                                          L’arte t’inganna.
                                    Eccomi all’opra.
                                  Ecco la destra.
                                                              (O cara!)
(Ti bacierei, se tu non fossi infida).
Di una linea ho stupor che qui si stende.
            Infedele in amore.
                                                (Oh dio! Che ascolto?)
(Al traditore impallidisce il volto).
                                                    (È vero).
A costui tutto è noto il mio pensiero.
                               Da queste linee chiaro
intendere il futuro a me non lice.
(Destra, fin che ti stringo, io son felice).
                                       Ascolta. Arte già appresi
sforzo a dirmi ’l futuro; a me, se vuoi,
che svelino farò gli eventi tuoi.
O Sifalce, Sifalce, ah tal non sei;
Alceste io non sarei. Partì l’infido
ed io misera Oronta invan lo sgrido.
                               Come? Tu cinto
                                        Alceste, ho vinto.
Sento i contenti tuoi. Ma, tu Demetrio?
                          Tal sono. Or di Agarista
                                        Ne godo.
Ma a che riprendi i vili arnesi e torni
                                 Io, pria che a lei sia sposo,
Felice sei; ti corrisponde e t’ama.
                                           Ella mel disse
                                        Deh, caro Alceste,
va’ e dille ch’io per lei piango e sospiro;
sol le ascondi i miei casi e il grado mio.
                                         Amico, addio.
felice amante; io non invidio i tuoi
l’ostinata empietà de’ miei tormenti.
più ti adorna con l’arte; ed ecco appunto
a chi vuoi ch’oggi infiori e che corregga
Queste pallide guance? A che far pompa
se goder di chi voglio a me non lice?
sposarne un solo e vagheggiarne cento. (Si parte)
Padre, morir pria che lasciarti io voglio.
Rasserena l’aspetto. Ecco Sifalce,
l’Anfion della Grecia; il suo bel canto
ti accheti ’l duolo e ti rasciughi ’l pianto.
                                          In dì sì lieto
lo sposo acquisti e il genitor non perdi.
(Sarò figlia al dolor, sposa alla morte).
virtù da sollevar l’aspre tue pene,
ma dar gioie non può chi non ne tiene.
Or via, snoda la lingua a’ dolci accenti.
Eccomi pronto. (Sifalce siede alla spinetta)
                               Io qui m’assido. (Si asside dirimpetto a Sifalce)
                                                               Or senti. (Accompagna il canto col suono)
                   Che? Non ti piace?
                                                        Altra ne trova.
Taci, che il mio dolor nasce da spene.
travestito già in Sciro a me i lamenti...
a dir con l’altrui pianto i miei tormenti).
stava per Deidamia quel forte Achille,
ch’esser dovea della troiana gente
la conocchia trattava e torcea il fuso.
Quando celar più non potendo un giorno
l’amoroso ardor suo, mesto s’affisse
nel vago volto e sospirando disse...»
                                           (Fors’ella gode
che le scopra così gli affetti miei).
(Che tal fosse Armidoro anch’io vorrei).
La lingua mia, già del suo fallo avvista,
La canzon dice Achille e non Orgonte.
Mi ha confuso il chiaror della tua fronte.
la risposta gentil di Deidamia. (Agarista va alla spinetta)
(Parlar così teco, Armidoro, intendo).
Tu vaneggi, Sifalce. Al vago Achille
                                 Ma troppo osasti.
Ingannaste sol voi gli affetti miei).
(Ma così ad Armidoro io non direi).
nunzio m’inchino. Il tuo Armidor poc’anzi:
«ardo per Agarista e sì l’adoro
che se tu non m’aiti, Alceste, io moro».
                                         E il disse appena
che in deliquio di amor mi svenne in braccio.
E il lasciasti così? Temo ed agghiaccio.
Così stette gran tempo; infine al volto
che avria mosse a pietà le belve istesse.
lo sgridai che tropp’alto alzasse il volo.
può veder senz’amor volto sì vago?»
             «Viltà e timor dovean frenarti».
               «Cara beltà, voglio adorarti».
              Mi disse: «Se mi neghi aita,
sei scortese e crudel. Forse non sono
così vil qual ti sembro»; e poi partissi.
                                            Il tutto io dissi.
                              Chi sa? Sovente
Ciò ch’è oggetto al desio tema è del core.
Brama il chiaror di una regal corona
chi non ne prova il peso; e pur quell’oro
è luce che tormenta e non illustra.
solo il re custodisce e più di ogni altro
perché il comun travaglio in sé risente.
                                 È mio l’uffizio; or vado.
udirò ciò ch’ei chieda. (Oh quanto orgoglio!)
monarca invitto e mio signor sovrano,
Clistene, a te cui Pisa, Elide e tutto
d’Elle il flutto vicin serve e soggiace,
di affetto in segno invia salute e pace.
la tua figlia in isposa al prence Orgonte,
di re sì grande unico figlio erede.
Clistene, e poi che non farà di grande
a’ nostri acciari ’l tuo poter congiunto?
Ove mai giungerà dell’armi vostre
sconosciuto il terrore? Io già preveggo
pender tremante e poi vassallo il mondo.
più che di ambasciator, ceffo ha di spia).
che un re sì grande e formidabil chieda
la mia alleanza e l’amor mio, vedrallo,
Ben del chiesto imeneo, che a me sarebbe
di vantaggio e di gloria, il non poterne
dispor m’è grave a suo favor. La figlia
ho promessa in isposa; e torre altrui
l’obbligata mia fé, come potrei
irritare ad un punto uomini e dei?
(Ciò mi era noto e simularlo è forza).
ch’altri per lui sia ingiusto. Ei sarà sempre
della tua gloria amico e del tuo impero.
Tal finor l’ho pregiato e tal lo spero.
riposerai fin che ti aggrada e quante
puote un genio sovran grazie impartirti,
Clistene te le accerta. Oggi disposta (A’ suoi cortigiani)
sia la caccia regal nel vicin parco.
                         Sarà solo il mio incarco.
a pro del mio signor che, quando sono
di vantaggio al suo prence, i tradimenti
perdono il nome; e son virtù, non colpe;
o se pur colpe son, sono innocenti.
ti disegno con l’ombre e già mi avveggo
un tuo sguardo val più del mio pennello. (Si mette a dipingere)
a colorire un volto; e se non erra
egli è il ritratto sol del volto mio).
ch’arda al vostro chiaror voi non vorrete,
scopri al ritratto e all’esemplar le taci?)
Ma di avervi a guastar temono i baci.
(Miei rispetti, non più). Tanto, Armidoro,
per un ritratto hai le pupille accese?
(Oimè! Certo il conobbe o pur m’intese). (Sorge e nasconde il ritratto)
Ti turbi? E tu il nascondi? Io mi contento
                                                         (Che sento!)
                                           E la conobbi.
                                              Anzi lo voglio.
                                     Non me ne offendo.
                                      (Così l’intendo).
                                          Che?
                                                      Dell’immago
                              E in me ti affissi?
                                                                 Or io
che tu fossi, credea, l’idolo mio.
                                                Il tuo bel volto
distinguer non saprei da quel che innanzi
                                      (Così l’intendo).
                                   Il cor mi chiedi.
                                                                  A nulla
                                             Son pago,
quando avrò l’esemplar, darti l’immago.
                   (Bell’artifizio amor mi detta).
                 Ora in lui ravviserò quel volto
che il sen ti accese. È questi un vetro. Errasti.
miri ’l tuo volto, egli è il ritratto istesso.
Finger non posso più. T’amo, Armidoro.
                              Godo vederti, o figlia,
men torbida la fronte e più tranquille
sotto il ciglio seren l’egre pupille.
                                            (Infausto nome!)
I molli vezzi ed il gentil sembiante
(Mi riapri la piaga ancor grondante).
a’ vicini diletti invido affanno,
(Mi proponi un piacer ch’io non curai).
più t’infiora le chiome e più pomposa
rendi la tua beltà, che ben conviene
fregio maggiore a dignità di sposa.
E in isposo Demetrio il regio padre
                                       E non ti turbi?
                                         (Sono tradita).
                                        T’abbia Demetrio
                                        Taci, spergiuro.
Se Demetrio ti sposa, altro non curo.
                                           Ancor ti adoro.
                 E se m’ami ancor, fa’ ch’io ti veggia
labirinti di duol l’anima inciampa?
Forse così la mia costanza ei tenta.
vo’ veder di schernire arte con arte).
Demetrio sposerò, già che tu il brami.
                           L’alma mi brilla.
                                                            Ah indegno
                                                    O caro sdegno!
                                      Mi dai la fede?
Mi scorderò fin di Armidoro il nome
                                         Sempre, Agarista,
gastigami così ch’io mi contento.
                                         O fier tormento!
Tu mi amasti? Tu mai? Vile ch’io fui
ad abbassar l’affetto mio regale
Ah, una bella discolpa è quel sembiante.
                                      Il gran disegno
                                       Caccia regale
per me nel vicin bosco oggi ordinata
ha Clistene; con lui verrà la figlia.
                                     A lei d’intorno
                                         Inermi e sparsi,
cadranno agl’improvvisi urti primieri.
Ma come uscir col prezioso acquisto
                                    È poco lunge il lito,
le bianche vele inver la Tracia a’ venti.
Ben oprasti. Secondi ’l ciel gl’inganni.
Chetatevi, o pensieri. A che agitarvi
Per pochi indugi a tollerar vi esorto.
                                       (Scoperto io sono).
Ma Sifalce, che dissi? Orgonte sei.
                                (E come il seppe?)
                                             (Mi sembra insano).
Che vedesti? Che udisti? A che mi sgridi?
m’hanno lo spirto ed il pensier, che appena
                                Ascolta. Erami accinto,
per iscoprir de’ tuoi novelli affetti
a scongiurar gli spirti averni e Pluto...
ombra pallida, esangue e fuor dell’uso
entra il cerchio segnato e tutta lorda
di sangue e pianto, a me sì parla e spesso
tra il singhiozzo e il sospir rotta la voce.
per troppo amor, per troppa fé già morta».
                         E non ti turbi?
                                                      A me che importa?
                                Altro hai che dirmi?
                                                                       Ascolta.
«va’ e Sifalce ritrova; ah, non Sifalce
ma Orgonte l’infedel, che mi tradì,
e per me in fiero suon sgridal così:
che te già del suo cor, te del suo regno,
te del suo letto avea chiamato a parte
col titolo di sposa, anzi di serva.
a trar torbide notti e freddi sonni,
tu il peso sostener del tuo peccato,
E puoi frenar i pianti ed i sospiri,
                    Rider mi fai. Perché ti adiri?
«Ma che lagrime spargo? A che consumo
inutili lamenti? Ah, se nol credi (Snuda uno stilo)
a me, credilo a un ferro; e perché io possa
seguirti ed agitarti, ombra insepolta,
al mio sangue, o crudel, credilo ormai». (Alza il ferro per piagarsi)
Ciò disse e fece la tradita Oronta;
poi con alto sospiro all’aure sparve.
Questi furono, Alceste, o sogni o larve.
                            E il misero racconto
                              Ho il core in calma e solo
troppo al vivo esprimessi ’l volto e i gesti.
(Cor mio più non sperar; troppo intendesti).
dell’onor mio, della mia pace. Oh numi,
Così dolente, Alceste? A me i sospiri,
                                           (Alma, per poco
frena il giusto dolor). Di che ti affligi?
                                               E come il sai?
ah vil che fui! le fiamme mie scoperte
ed io le sue dal suo bel labbro intese,
anzi con lieto ciglio udì l’infido
col principe Demetrio i miei sponsali;
e mi soggiunse poi l’empio spergiuro:
«Quando t’abbia Demetrio, altro non curo».
(O vago scherzo!) Ei t’ingannò né affanno
nascer ti dee da così dolce inganno.
E tu pur prendi a scherno il mio martoro?
quando Demetrio avrai, lascia Armidoro.
Io Demetrio, giammai. Pria s’apra il suolo...
quel principe Demetrio, a te consorte.
                         Il ver. Sei più infelice?
                                                                    O sorte!
                                           Anzi mi alletta.
Ma vo’ anch’io meditar la mia vendetta.
E pur ritorni ad agitarmi ’l seno,
o mio tradito amore? Ancor sopporti
l’ingrata compagnia di un’infelice?
forse care ti son, già piansi tanto
per troppo lagrimar l’uso del pianto.
                            (Ecco Armidoro).
                                                              (Oh quale
             (Qual odio)...
                                        (In sen mi bolle!)
                                                                          (Io sento!)
(Forse ch’è mio rival ma nol pavento).
                                               Ad ogni piede
                                      Ove son io,
                                        Poco m’importa.
                                    E forse troppo
Altrove il folle ardir ben punirei.
Né qui né altrove io so temer Sifalce.
                                 Dunque la spada impugna. (Si battono)
                          Entro al real giardino
                        (Son confuso).
                                                     Ov’è l’ardire?
più lodevol la sua dell’arte mia.
                                          È ver. (L’inganno
                                            Ognuno esponga,
giudice me, le sue ragioni. Il labbro
dee decider la lite e non il brando. (Si asside)
                                            Giusto è il comando.
Io pur m’assido e le ragion di entrambi
                                     Armonico concento...
                               In ciel si pregia.
                                         Il mio li canta.
E la mia li convince allor che tace.
                              E tu il confidi all’aure.
                                         Un sol momento
vivon le tue; poi le disperde il vento.
Non più. Fu detto assai; decider voglio.
Quanto allo spirto il corpo cede e il senso,
                                    Udisti?
                                                    Oh dio!
(Così principio a vendicarmi anch’io).
Per serbar l’onor mio, meglio è ch’io vada. (Si parte)
                                         Dolce comando.
Di’ che a lui sarò in breve. E tu qui resta. (Ad Armidoro)
L’alma paventa e non so come è mesta.
(Qual freddo tosco entro del sen mi scorre?)
                                            (Alma, respira).
E sol teco, Armidoro, il cor si adira.
Vaneggi. Chi è costui? Mi è nome ignoto.
Quel tuo amante sì fido e sì divoto.
Me stessa consacrai tutta allo sposo
Non ho altro amante e questo solo adoro.
                                           Io l’ho presente.
                Amor lo dipinge agli occhi miei.
ciò che in odio aver puoi. Parta il mio nome.
Altro prender ne voglio a te più grato.
Più Armidoro non son. Son già cangiato.
                  Demetrio.
                                       Chi?
                                                   Di Atene il prence.
                   Egli è il tuo sposo; egli è il tuo bene.
                     E perché mai?
                                                  Non posso amarti.
Odio al par di Armidoro anche Demetrio.
                                      Non ti diss’io
                                         Dunque chi sei?
                               Sia chi tu voglia.
(Così fingo vendette e pur l’adoro!)
Fermati, idolo mio. Ma più del vento
fuggi per non udir gli aspri miei guai.
quando per ingannarmi io vi trovai.
l’affanno mio che già t’ha tolto il senso,
per troppa crudeltà fatto pietoso;
febbre troppo maligna, ebro delira;
più agitato dal mal meno lo sente.
tanti sospiri? A che divido l’alma
per un crudel tra lagrime e singhiozzi?
Ah, che non piango lui; piango me stessa;
piango la rotta fé, l’onor perduto;
a sì giusta cagion solo è dovuto.
Alceste, Alceste? In su le molli piume
tacito o posa o dorme; e mesto parmi
che dal duol non respiri ancor dormendo.
cade dagli occhi, ancorché chiusi, e irriga
                                                      Che ascolto!
Chiudi gli occhi per sempre. A che più aprirli
ed il nome di Oronta e quel di Alceste.
                                     Che veggio? Oh dio! (Alceste, alzando gl’occhi e veduta Agarista, tosto risorge)
                                      Fammi palese,
                                      (Certo m’intese).
A che sesso mentir? Che più celarti
a chi tutto il suo cor t’ha già svelato?
Ma scoprirlo non val, s’è disperato.
                                       Eccomi pronta.
col racconto dolente il viver mio.
Oronta io son, prole infelice e sola
al tessalo monarca. Alla mia reggia
venne Orgonte di Tracia. Un sol suo sguardo
e col nome di sposo, oh dio!, l’onore.
tosto l’orme seguii. mentito il sesso,
d’altra beltate in altra reggia amante.
                                          Sperar ti giovi.
Forse un giorno vedrai l’infido Orgonte
Si penta, sì; non brama il mio tormento
la morte del crudel ma il pentimento.
alla caccia vicina omai ti appresta.
Purtroppo del mio sen, veltri spietati,
fan l’aspre doglie mie caccia funesta.
Solo dell’esser mio la sorte e il grado
taci; la mia onestà così richiede.
Questo bacio ti sia pegno di fede. (Si baciano e partono abbracciate)
Pegno di fede un bacio! Occhi ’l vedeste?
E lo diede Agarista? E l’ebbe Alceste?
mi han tradito così? Dunque io dovea
la chiarezza oscurar del sangue mio
con gl’imenei di una beltate impura?
Sorte fu ciò che vidi e non sciagura.
Tu ricalcitri, o cor? Tu le tue fiamme
con quelle del mio sdegno ancor bilanci?
Sento che vincer vuoi; né ben a tanta
ancor di amante, ancor di amico il nome.
se vincer non ti posso. Ecco mi accingo
a portar lunge il piè da queste soglie,
un empio amico, una lasciva moglie.
mia bellissima fiera. Ove più folta
nega l’ombra selvaggia adito al sole,
l’attenderemo al varco; e allor che giunga,
vedremo al bosco e a questi orrori intorno
non conosciuto o non atteso il giorno.
Tu qui, Aiace; qui, o Silvio; e tu, Tersandro,
e fa’ che non ti fugga il mio Melampo.
Tutto è in ordine omai. Ben mi avvegg’io
che una caccia a dispor non v’è un par mio. (Prende il suo posto)
                                        Il tuo bel volto
può servir sol di scusa a quell’infido;
e il difendo così dentro al mio core;
è forza per quel volto arder d’amore.
la pietà mi rattristi, o sia che questi
de’ famelici alani e sol dagli urli
sian fomento all’orrore, o che lo spirto
lo voglia anticipar col suo spavento,
non so perché, l’alma languir mi sento.
Così cerchi Armidoro; e l’occhio forse,
ne avvisa il core e il core all’alma il chiede.
               Coraggio amici. (Combattono e poi fuggono li soldati di Agarista)
                                              Ah, traditore! (Oronta trattiene Sifalce ed esso, rispingendola senza mai guardarla, va ritirandosi nel bosco)
                                                 E dove, iniquo?
col mesto avviso al genitor dolente. (Si parte)
Né mi bada, il crudel, né mi ravvisa.
O vibra il ferro o me conduci ancora.
Esser può di periglio ogni dimora. (Sifalce, nell’uscir dal bosco, trattenuto da Oronta, rivolgendosi con furia l’urta e la getta in terra e poi si parta. Oronta resta in terra tramortita)
                           Ecco il terreno asperso,
seguirò il traditore. A me confida
le tue vendette ed al valor de’ miei.
A dirti il vero, io non mi fiderei. (A Clistene)
                                   Fia ben che tosto
(Così ripongo in sicurtà la preda). (Si parte co’ suoi guerrieri)
di una femmina vil, non d’un re forte,
ne’ casi estremi antidoto ozioso.
manda armate falangi e fa’ che tosto
contro il trace rattore i greci abeti.
                                         Sì, che dal trace
vengono i tradimenti. In quel Sifalce
sta ascosto il figlio al re de’ Traci, Orgonte.
                                     Sempre il dicea
che quel ceffo di spia non mi piacea.
fan certa la tua perdita. Che badi?
tosto al lido ogni armato; escan dal porto
Se la figlia è perduta, anch’io son morto.
sol per vostro sollevo al lido asciutto.
Forse dell’infedel potrem nel guardo
incontrar chi me uccida e a voi risparmi
un lagrimar più lungo; o forse il mare
non perché di un sospir, di un pianto solo
termini la mia morte e poi mi lasci,
in su l’arene ombra insepolta, esangue.
da’ sacrileghi muri, e pur son lungi
dal mentitore Alceste; e sol son meco,
ad onta del mio duol porvi in obblio?
                                                Ancor, vil alma,
                                         Cieli, che miro!
Se non vuoi che mi affligga, a me nascondi
Co’ baci un dì vendicherò quest’onte.
Parmi che Arbante tardi. Io qui fomento
con l’indugio i miei rischi. Andiam, mio bene.
                                                          Al voler mio
chi sottrarti oserà? (Afferrandola per condurla al mare)
                                     Deh, chi mi aita?
Benché nol merti, a tuo favor son io. (Avanzandosi verso Agarista)
                                    Oh fiero oggetto!
Menti; uom vile tu sei né i miei natali
Nacqui principe anch’io; stringe in Atene
                                 Son pronto.
                                                         Alcun sì ardito (A’ suoi soldati)
non fia che turbi ’l mio cimento. Io tutto
voglio il merito sol, voglio la gloria.
                                         Così desio.
(Se non vince Armidor, morta son io). (Si battono)
(Quanto è forte costui!) Posiamo alquanto. (Si ritira un passo addietro)
Ma forza alfin sarà che al suol tu cada. (Tornano a battersi)
sia fato o tua virtù, meco pugnando,
col braccio atleta e cavalier col brando.
                                      Forza di fato.
Sì, Armidoro, son tua; tu mio sarai.
vieni, infedele, e non parlarmi mai.
punì ’l ciel le mie colpe. Il sangue mio
così l’alma sen fugge e mi abbandona.
Tu mi dai morte e non il ferro e sento
in te, non nella piaga, il mio tormento.
vacilla il piè, l’occhio si oscura e tutto
Col mio morir sei vendicata, Oronta.
han bevuto l’arene? Orgonte, Orgonte,
Qual ferro osò cotanto? Ed impunito
Ah cada pria l’empio uccisor esangue;
poscia col pianto mio spargasi ’l sangue.
l’orme non inseguir. Viva egli in pace.
pene, se tu l’uccidi. Ah, non lasciarmi
riva di Flegetonte, ombra più mesta.
Mi è legge il tuo voler. Coraggio, Orgonte.
Sì, ch’egli è desso. Orgonte, anima mia,
ma tal non ti volea. Ditemi, oh cieli,
vi chiesero mai questo i miei lamenti?
io strappata mi avrei l’infame lingua.
Crescon le pene mie nel duolo altrui.
con cui mi uscì lo spirto! Ah, crudo ferro
Vieni, anche il mio trafigi. Alla mia destra
così risparmierai forse un delitto.
                 Spira per anco.
                                               E trattenuta
i miei caldi sospiri han la fredd’alma.
di un inutil dolor. Di terra, amici,
sollevatelo alquanto. Ecco, alla piaga (Arbante solleva di terra Sifalce ed Oronta, sostenendolo con una mano, con l’altra li lega al petto un anello)
                                                   Ed ecco
ch’ei le languide luci apre e respira.
                                        Egli delira.
Questa forse di Oronta è la sembianza
che mi rinfaccia i tradimenti e l’onte?
Oh, troppo a me fedel, troppo ingannata
bell’ombra, eccoti Orgonte alfin pentito.
Caro Orgonte, vaneggi. Ancor tu vivi,
non so se per fuggirmi o per bearmi.
Tu vivi e, se nol credi, il sol rimira
scossa da’ miei sospiri; è quello il lido
che ti sostien pietoso. Io sono Oronta,
non ispirto, non ombra; e se nol credi,
che non han tatto l’ombre o i nudi spirti. (Gli dà la mano)
a’ tuoi begli occhi e nel mio fier tormento.
vivrò ma per amarti e perché il pianto
l’offese che ti feci un dì cancelli.
Voglio affetto e non pianto, occhi miei belli.
folti nembi di polve. Ad ogni rischio
                                     Io nulla temo.
                                                       Andiamo.
Ti seguo, o caro; e tu sostienlo, Arbante.
Finito ha di penar l’anima amante.
da corteccie sabee succhi ed incensi,
pietà ti mova un genitor languente;
                                 Ov’è? Ma come?
Lo fa impazzir la troppa contentezza.
Che ti turba? Che feci? In che peccai?
Vieni, infedele, e non parlarmi mai.
Figlia, pur ti riveggio. E qual buon nume
                                                  Ei fu Armidoro,
                                               Io ti detesto
                                          Demetrio è questo!
esser alla tua figlia; e già fu tempo
che l’amai, che la chiesi e l’acquistai...
                                        E perché mai?
                                        Sono innocente.
«Questo bacio ti fia pegno di fede?»
E l’ebbe Alceste ed Agarista il diede.
                                Par poco un bacio
Diedi un bacio ad Alceste e l’ebbe Oronta.
                           Alfin da tante risse io veggio
                                        Alceste è donna,
figlia al tessalo re, per nome Oronta.
Fole son queste. E perché qui nascosta
o di Orgonte più tosto, il tracio prence
che tradita l’avea, l’orme infedeli.
Principessa, a’ tuoi piedi eccoti Oronta.
or mio sposo e pentito, e seco Arbante
ti chiedono perdon de’ lor delitti;
e al real genitor per me tu il chiedi.
Amica Oronta, un dì sì lieto e caro
non si turbi dagli odi; e tu, mio padre,
agli errori di Orgonte e a quei di Arbante.
Agarista, non più. Basta un tuo prego,
a vincer del mio sen tutti i rancori;
                                                      Io taccio.
Ed io, in segno di affetto, ambi vi abbraccio.
E voi pur condonate, anime illustri,
                                   L’idolo mio
stringendo al seno ogni vendetta obblio.
                                     Vuoi tu ch’io sia
                                            Entrambi i nomi,
                             Ed oh felici inganni!

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