Metrica: interrogazione
618 endecasillabi (recitativo) in Odoardo Venezia, Albrizzi, 1698 
                                 Addio, consorte.
                                                                 Enrico. (Arrestandolo)
                              Col nuovo sol vi andrai.
                                    Dunque si tema
                          Ah non tardar, se cara
                  Sì, ma per tornar, cuor mio.
se quel che ti dovrei non è più mio?
infelice Metilde; e tien sepolti
in eterno silenzio i tuoi rossori.
O stimoli! O ritegni! O leggi! O amore!
tra vergogna e desio ti sento, o cuore!
                             Di qual funesto avviso
nuncio a te sono! Il tuo consorte è ucciso.
Che sento? Ucciso Enrico? O dei! Ma come?
                 L’ombra e ’l timor...
                                                       Misero! L’alma
m’era presaga. Ah barbaro Eduino!
Da te il colpo partì. Numi, e tardate
Trionfano i tiranni; e voi che fate?
                                         Servo mal nato,
tu d’iniquo monarca empio ministro,
fuggi dagli occhi miei, fuggi, t’invola.
Fuggi e col mio furor lasciami sola.
                                                 O dei! Qual vista?
de la tua crudeltà? Forse a compirla
                                     Metilde,
vedi a chi parli? Al tuo dolor ch’è cieco,
quest’ingiurie perdona un re che t’ama.
È morto Enrico; or tu con esso estingui
quel basso ardor che ti fe’ cieca al mio.
teco amante a supplir. Che più t’attristi?
Perdi un vassallo ed un monarca acquisti.
Ciò che voglio poss’io.
                                          Ciò che non lice
                           Più non sei moglie.
                                                                Io fui.
                               Ed onestà in me vive.
                                   Infermo soglio
Dopo avermi tu stesso il mio trafitto?
                T’allontana. (Lo rispinge)
                                        Invan mi fuggi. (L’afferra per un braccio)
                                                                       O numi,
            Importuno.
                                    Al tuo campo vicini
                           I punirò... Mia cara...
de la prigione, ove Odoardo è chiuso,
sforza i custodi e in libertà...
                                                     Riccardo
tosto s’avvisi. Egli al periglio accorra.
                Signor, la tua presenza...
                                                              O parti, (Lascia Metilde)
Al tuo senso in balia meglio è lasciarti. (Parte)
                                  Ah! Pria mi svena.
                                                                      Ad altre
piaghe riserbo il tuo bel sen.
                                                     Ti mova
                      È ne’ ceppi.
                                              E vuoi?...
                                                                  Risolto
                  Di’ ciò che vuoi. Più non t’ascolto. (Eduino va ad aprire con un calcio l’uscio del gabinetto. Metilde va agitata per la scena e poi vien tratta a forza dal tiranno nel gabinetto)
Sin che l’ombra e la sorte a’ voti arride,
Segui il mio piè. Fuor de le mura io stesso
                           Fuggi.
                                         E pria che spunti
il nuovo dì, sarai nel campo amico.
Ivi duce, ivi re, vieni il Tamigi
morte a un tiranno e libertade a un regno.
                  Che pensi?
                                         Eh, principessa, amico,
non è questa la via che fuor de’ ceppi
condur mi deve e farmi grado al trono.
Benché iniquo e crudel, benché tiranno,
Eduino ci è re. Nome sì sacro,
gli han data i numi. Al loro braccio è solo
riserbato il poter del suo gastigo.
Non tenti l’uom ciò che rispetta il cielo.
Non fia vero, non fia ch’armi la destra
contro il mio re, contro il fratel mio stesso;
torbidi spirti e contumaci affetti.
se possibil mai fia, vanne e disponi
a una pace miglior l’alme irritate.
a l’arbitrio del ciel la sua vendetta.
tu che la mia salvezza hai tanto a cuore,
se hai pietà de’ miei mali, il tuo dolore.
                    Signor.
                                    Ne la dimora
                                           E torni, o dio!...
Gismonda, sì, torno a’ miei ceppi. Addio.
tentar poss’io per sua salvezza?
                                                          In fede
                              Quando altra via non resti?
m’uccise il padre e m’usurpò lo stato.
la mia destra e ’l mio cuor dolce mercede.
che non lice tentar?... Ma qui ’l tiranno?
                                Sire...
                                              Entro la reggia
e me vicino, a tal eccesso arriva
mi si rispetta? Ed un rigor, che ancora
non perdonò, per atterrir non basta?
                                        Ov’è ’l german?
                                                                       Fra’ ceppi.
tentò sottrarlo a le catene?
                                                 È vero.
                            L’ombra l’ascose.
                                                             E ’l ferro
                         (Finger mi giova). Il piede
lo tolse al rischio ed a la pena.
                                                       O caro,
                               Oprai conforme al zelo.
                               Il prigionier germano
Non mi sembra esser re, finch’egli è vivo.
Dal passato periglio ancor mi batte
nel petto il cuor. Riccardo, avverti. Il fiero
Eduin non perdona. Enrico ancora
vive per te; tu d’Odoardo i ceppi
franger osasti; il re fedel ti crede.
se degl’inganni tuoi l’empio si avvede.
È ver; ma non importa. Opra da giusto;
Odoardo si salvi. A la grand’opra
amicizia, ragione, amor ti chiama.
cuor che serve a virtù, cuor che ben ama.
Ma di che mi querelo? Alfin l’iniquo
un sol bacio rapì. Pronta lusinga
a maggior mal mi tolse Ecco il tiranno.
Fulminatelo, o sguardi. Ah! Se t’accingi,
fa’ forza al cuor, simula l’odio e fingi.
(Mi si guidi Odoardo). Alfin, Metilde,
                             Hai vinto, sire; hai vinto.
                       Tanto ebbe forza amore.
Tenebre care, ove il mio labbro impresse
                  Non più.
                                     Bella, t’intendo. Hai sdegno
ciò che a l’amor dovevi.
                                            È vero. (Ah indegno!)
che mi turban la pace; e vedrò l’onde
gonfie di stragi insanguinar le sponde.
Ma di Odoardo, il tuo real germano,
                                   A te ’l confido, o cara.
                         (Morrà Odoardo?) Ah sire...
E col suo sangue estinguerò quel fuoco
crebbe feroce e dilatò la vampa.
                   E con ragion. Seme fecondo
                                  Al mal presente io cerco
forte riparo e l’avvenir non curo.
l’affetto altrui mel fa temer. Lui morto,
quei che l’amano ancor saranno astretti
                       Viene Odoardo. Or ti ritira
e qui in disparte il tutto ascolta e mira.
Da la cieca prigion che a me tant’anni,
a te, mio re ma mio germano ancora,
tratto né so a qual fine, ecco m’inchino
e intrepido qui attendo il mio destino.
finirà le tue pene, i miei sospetti.
che tu m’annunzi, è lungo tempo, o sire,
che da vicino a rimirar son uso.
pria di morir, di qual error son reo?
                                A re che ti condanna
non mancano ragioni; e se in te stesso
colpevole non sei, sei reo negli altri.
Mi fa guerra il tuo nome; ei di pretesto
serve a’ popoli infidi e contumaci.
Se a tante guerre, a tanti mali io posso
giovar con la mia morte, ella mi è cara.
                                                 (Che ascolto?)
che ognor ti stanno al fianco e lusinghieri
t’insultano il riposo e poi la vita.
                                        Deh li rivela;
e fia prezzo al tuo zelo il mio perdono.
                                        Non più. Quai sono?
questi sono i tuoi vizi, i tuoi delitti.
Tanti adulteri e tanti stupri e tanti
la tua impietà, la tua barbarie, il tuo
poco rispetto a’ numi e l’altre e tante
iniquità che a me rossor fan dette,
son queste i tuoi nemici. Essi del cielo
a te acquistano l’odio e de la terra.
Essi, non Odoardo, essi, o germano,
nel tuo regno e in te stesso a te fan guerra.
                             (Qual cuor?)
                                                       Vedo; t’irrita
questa mia libertà. Ma le tue colpe
chi può adular, puote imitarle ancora.
da un sì odioso testimon. M’uccidi
per non m’udir. Ma, più feroci assai
latrarti in seno i tuoi rimorsi udrai.
Metilde, udisti? Inutili rispetti
ho la sua morte; e tu, se brami a parte,
qual sei de l’alma, esser del trono, ascolta.
                               Egli morrà. Ma devo
cauto e a tempo esequir. So quanto caro
l’abbiano i suoi trionfi. A lor sugli occhi
Me duce, essi lontani, o vinca o perda,
sarà tua cura il farlo; e perché tutto
da te dipenda, ecco il real sigillo.
la vita, ubbidirai. Prima del giorno
fa’ che mora Odoardo. In te riposa
un re che t’ama; e al suo ritorno avrai
il nome di regina e quel di sposa.
Metilde, addio. Ciò che t’imposi affretta.
Altro premio e maggior non avrà l’opra
Tu rimanti, o Riccardo, e sia tua cura
pronto a le leggi e custodir le mura.
Dichiariamoci alfin. Regni Odoardo;
pera il tiranno e non s’attenda il dubbio
e del prence e di noi sarà deciso.
dipende il suo destin. Nulla poss’io
come si accordi il di lui cuore al mio.
s’agita d’Odoardo e la salute
                             Ah principessa!
                                                            Amica,
non intendi il mio cuor. Vanne e conferma
di tutta Londra a favor nostro i voti.
Io disporrò quei de la reggia.
                                                      Addio.
        Che ’l prezzo sarai de l’amor mio.
                                    Ai giusti voti
                                Tutto a’ miei cenni omai
qui ubbidisce e s’inchina. Io sol gli posso
render la libertà, la vita, il soglio.
                          Che far mai deve?
                                                              Amarmi.
                  Sì.
                          Misera me!
                                                  Già sciolta
dal nodo marital, posso a quel fuoco,
che sì lunga stagion tacito m’arse,
conceder sfogo e procurar ristoro.
Tu nel carcer fatale andrai del mio
immutabil voler nuncia al mio bene.
                                    Digli che questi è ’l giorno
per lui di morte o pur di vita. Un solo
M’ami e i ceppi son franti e suo ritorna,
ad onta del tiranno, il patrio regno.
compiacendo a l’amor, servo a lo sdegno.
vuol l’amor di Odoardo o la sua morte.
S’ei la rifiuta, ah che sarà di lui?
Infelice Gismonda, ovunque ei pieghi,
tu non vedi che orror; tu sempre il perdi.
Debole cuore, ancor dubbioso? Andiamo.
Se non salvo Odoardo, assai non l’amo.
arbitro del destin di tanti regni,
nel più bel fior degli anni e nel più dolce
ma d’ingiusto fratello ira tiranna.
colpo fatal; non mi fa orror l’incontro;
morir senza il piacer de’ tuoi begli occhi,
mio conforto, mio ben, mio sol desio,
se Gismonda tu chiedi, idolo mio.
È sogno? È illusion? Gismonda? E t’odo?
Ma qual buon genio a me ti guida? Vieni
O a raddoppiar col tuo periglio il mio?
quanto han fatto per te. Lungi è ’l tiranno;
dal voler di Metilde e più dal tuo.
Chiede amor per amor. Se non v’assenti,
                                         Io, mia Gismonda,
amar altra che te? Prima più vite
per te oggetto d’orror; ma tu la devi
col mio, non col tuo cuor, la tua sciagura.
                             Che tu di fé mi manchi,
non voglio, no. Serbami il cuor, ne godo;
ma se t’ama Metilde almeno infingi
                            Io tal viltà? Per tema
finger affetti? E simular sospiri?
non ti prenda pietà de la mia sorte.
Qual frutto avrei de le mie frodi? Il solo
morir più tardo e ’l non morir sì forte.
sei di morir, dove più vivi ancora
in Gismonda morrai. Principe, addio.
A lei dirò che a sodisfarne i voti
hai pronto il cuor, fermo il desio.
                                                             Qual vano
                                 O converrà che alora
o che a l’ultimo rischio ancor tu esponga
vilipesa da te, da me schernita,
sfogo del suo furor su la mia vita.
              No, signor, vo’ che tu viva o teco
Gismonda perirà. Del tuo periglio
ho anch’io timor, se te spaventa il mio.
o perirem. Pensa e risolvi. Addio.
esser vile o crudel, spergiuro od empio.
quindi austera virtù. Resisto o cedo?
Temo la mia costanza o pur la chiedo?
                                 Ma qui d’intorno
veglian per lui guardi gelosi.
                                                     Il luoco
ti mova il mio periglio; e s’io la vita
già ti serbai, tu non espor la mia.
l’Anglia cospira, io più d’ogn’altro offeso
fa’ che ceda il desio del vendicarti.
gli arcani miei ti svelerò.
                                               Ubbidisco.
abbia accolto il mio amor? Timidi affetti,
qual di voi m’assicura? A chi do fede?
che a primo aspetto il suo destin prevede!
Gismonda, o dio! Vieni di vita o morte
                                        (E ’l potrò dir?)
                                                                       Rispondi.
nulla vegg’io che mi consoli ancora.
                                O me felice! E voi (Alle guardie)
ite a frangerne i ceppi e qui disciolto
                             Eh, mia fedel! Gl’incendi
chi può frenar? Troppo fia dolce a l’alma
udirmi a confermar da quel bel labbro
la mia felicità. Verrà egli a dirmi:
consacro a te; son tuo, Metilde, e t’amo.
o qual piacer m’invoglia e qual desio!
                                     (Che avrà risolto?)
(Felice è ben chi può baciar quel volto).
                               L’ora fatal pur giunse
de la tua libertà, caro Odoardo.
tanta felicità. Metilde sola
non potea meritar che tu l’amassi.
concorresse a bearmi e a far che amante
tutto il mio cuor ti comparisse inante.
al mio piacer? Perché ti turbi? Il volto
gli occhi non son tranquilli. Hai tanta pena
con l’esempio del mio, del tuo rossore.
(Vuole e non vuol, brama e si pente il cuore).
                                          Tu taci ancora?
son di prezzo sì vile? Ed io finora
ho le speranze, i voti? E osò poc’anzi
ingannarmi Gismonda? Ah se tradita
l’inganno mio vi costerà la vita.
Pietà di noi. (Ad Odoardo)
                          L’ire sospendi, o bella,
e ’l mio tacer non accusar. Con l’alma
a’ tuoi voti applaudia. Volea tacendo
lasciarti in libertà di sperar tutto.
Ciò che ’l cuor tacque, or ti conferma il labbro.
mi ritrovi a’ tuoi doni e son qual chiedi,
non d’iniquo destin fiacco timore
ma (forza è ’l dirlo) a ciò m’astringe... amore. (Verso Gismonda)
                                         Non più, mia vita. O troppo
O mia sorte! O piacer! Ma che più tardo?
Vado l’opra a compir. Certo è ’l mio bene,
anche il tuo si assicuri. Un giorno stesso
te ne l’Anglia regnar, me nel tuo seno.
                                   (Che mai facesti?)
                                                                       (Ed io...)
(Ho perduto in amor l’idolo mio?)
                             Ah Odoardo!
                                                       Eccomi salvo
                                      Eccoti salvo; e o quanto
per la mia vita; io ti compiacqui; io feci
forza a me stesso e per tuo amor son reo.
Ma che vegg’io? Tu piangi, o cara?
                                                                Il cielo
testimonio mi sia. Di tua fortuna
nulla mi dolgo. Io la bramai; tu stesso
a me la devi e l’amor mio ti salva.
                              Qual favellar?
                                                          Poc’anzi
che tu mi amassi e ne godea quest’alma.
più non sei mio. De le mie pene il frutto
godrà Metilde; ed io mirar nol posso,
mi condona, Odoardo, ad occhio asciutto.
Qual dolor? Qual sospetto? O ciel! Gismonda
Io di Metilde? Io l’amerei? Qual fede,
le sue fiamme adulai? Dillo, tu stessa
tu nieghi fede o non la doni intiera.
il tuo dolore e ’l mio. Torna Metilde;
                           Ah no, se m’ami, o caro.
Dal tuo timor la mia costanza imparo.
Andiam, principe, andiamo. In te sospira
                                               Metilde, ascolta.
La mia vita è in tua man. Del regno il cielo
dispose a suo piacer. Questo non posso
Quella ti lice e, se tu cerchi, in onta
del divieto real, torla al suo fato,
è tua pietà. Ne serberò ne l’alma
rimembranza immortal. Se più richiedi,
vano è ’l desio; quanto dar posso è questo.
a prezzo tal la tua pietà, l’accetto,
se l’odio tuo non me ne dolgo. A’ ceppi
torno tranquillo; e in quel soggiorno orrendo
dal tuo voler l’ultima sorte attendo.
                            (Degg’io dar fede al guardo?
Darla a l’udito? E non sognai? L’ingrato
amor mi giura e poi mel niega? Inganna
                         Di sempre amarti.
                                                             Or come
                            Al par di te confusa
non affrettar. Potrà pentirsi...
                                                       Io stessa
                                    La tua pietade ascolta.
Odoardo infedel? Mesta Gismonda?
Che creder deggio? E che pensar? Metilde,
cieca Metilde, e nol conosci ancora?
Que’ muti sguardi, quel parlar secreto,
non ti scuopron l’amore? O dio! L’amore?
Principessa, m’inchino. A te dal campo
Pugnò? Vinse? Di’! Parla.
                                                Eccoti il foglio. (Le dà una lettera)
Così mi scrive il regnator tiranno.
«Vado a pugnar; creder mi giova i miei
cenni esequiti e già Odoardo estinto.
Sposa e regina in guiderdon de l’opra
tuo amante, sì, ma tuo monarca ancora».
                                 Eccomi pronto.
                                                               Andiamo;
né si consumi inutilmente il breve
Può la sola tardanza esser funesta.
prende orgoglio e vigor la pena mia.
                                           E che?
                                                          Dal campo
il commando real venne poc’anzi.
                                 (Impallidisce; e tutto
leggo il suo cuor ne la sua fronte anch’io.
Ho Gismonda rival ne l’amor mio).
                               E conservar la vita
                                               Io, principessa,
                   Sì.
                           Dopo un sì grave e tanto
(Infelice Gismonda, ascondi il pianto).
                         Anco Eduin t’offese.
                                 Ma nulla ottenne;
e la fé marital rendeva il tolto.
non vo’ me stessa. Ho d’ubbidir risolto.
                              Per mia salute il deggio.
che amar ti può?... Quel che tu amasti?... E quello
                                      Così già imposi.
                                                                      Io moro. (Sviene in braccio ad Adolfo)
La mia rival si è dichiarata alfine.
sprezza il mio amor. Che far degg’io? D’entrambi
nel più ardente furor prender vendetta?
Che più si teme, o principessa? Il cielo
decise a pro del regno; e ’l fier tiranno
nel primo de la pugna impeto è morto.
Londra n’esulta e impaziente chiede
il suo caro Odoardo, il suo monarca.
Ma che vegg’io? Tu impallidisci? Ah forse
                    Ti disinganna. Ei vive;
ch’io gli serbai, che tu gli cerchi, ingrato
                                             Egli?
                                                         Io l’amava.
ei tutto avvampa e a te l’amor ne invola.
                         Or vanne, il traditor difendi,
metti a rischio per lui. Questa, o Riccardo,
serberà a’ tuoi perigli e a la tua fede.
Che mi dite, o pensieri? A qual di voi
ceder convien? Quindi amicizia e quindi
tradito amor frena e risveglia a l’ire
non mi so vendicar, se quel non perdo.
Punirò l’infedel? Sì, non è giusto
che vada impune e del mio duol sen rida.
Ma ch’io perda il mio re? Che in lui tradisca
la pubblica salute? E le più sacre
leggi d’amico e di vassallo offenda?
suddito, non amante. Il primo affetto
è più giusto de l’altro e sia più forte.
Sacrifica a ragion la tua vendetta
senso a natura, ad amicizia amore.
Qual voce, o dei! Questo è ’l tiran.
                                                              Che miri?
Son io, sono il tuo re; mi serba il cielo
Non cadei, no, come ne sparse il grido
fama bugiarda. Il tuo stupor comprendo.
Conscio già de’ miei rischi o almen presago,
Sveno cuoprii, de’ miei custodi il duce.
fu inganno, a me diè scampo; e sotto a queste
spoglie mentite, alor che vidi agli empi
fausta la sorte e a’ miei disegni iniqua,
uscii dal campo e qui mi trassi. Or dimmi,
Metilde ov’è? Morì Odoardo?
                                                       Ei, sire...
            Vive ancor.
                                   Vive il fratel? Metilde
                   O dei! Dove, o signore?
                                                               Io stesso,
e di Odoardo e di Metilde in seno,
                   Mio re, se hai la tua vita a cuore,
                                              Entro la reggia
dove cerchi vendetta, incontrar morte.
il tempo e l’ire consumar. Sospendi
l’impeto giusto ed in miglior soggiorno
Ne’ tetti miei l’avrai sicuro.
                                                    Andiamo.
                                   Ed io le accetto.
Son captivo o son re? Mi stanno intorno
danni congiuri e mi tradisca alora
che a lui m’affido? E ’l crederò sì iniquo?
Metilde, o dio! tradirmi, in chi avrò fede?
in cuor di donna averla? Ah donna ingrata,
t’offesi, sì, ma non fu grave il torto,
il grado offerto e ’l marital mio letto!
                                                 A qual oggetto
son riserbato ancora? Enrico vive? (Si guardano con stupore)
                             (Non lo svenò Riccardo?)
de l’odio mio forse dà corpo a un’ombra?)
                    (Cuor...)
                                      (Non m’inganno).
                                                                         (È desso).
                                                                                              (È desso).
Enrico, è ver, senza stupor non posso
mirarti in vita; io ti credea già estinto.
al commando fatal cerchi discolpe.
Era tuo re, tu mio vassallo; e l’uso
de la tua vita era mio dono; e al mio
regio piacer potea donarla anch’io.
Di quale ingiusta autorità ti pregi?
esente dal gastigo. I numi forse
lo riserbaro a la mia destra.
                                                    Infido,
                          Sì sì, crudel, t’uccido. (Snuda uno stilo per ucciderlo)
                                               Chi mi sospende
                                        Il braccio stesso,
                                 (Ah che Riccardo
                           Non sempre, iniquo, a questo,
un amico leal ti farà scudo.
tu mi riguardi. In veder salvo Enrico
nel tuo cuor mi condanni e reo ti sembro.
                                   E che puoi dir?
                                                                 Vedrai
che fedel ti son io, se t’ingannai.
impeto del furor l’alma hai composta,
forse un tacito orror senti in te stesso.
L’inganno approvi. Esecutor s’io n’era,
                             Così ubbidirmi? (Più furioso passeggi)
                                                              Intendo
più difficili prove a me dovevi
chieder, o sire. In mezzo a l’armi, il sangue
avrei sparso per te. Ti avrei seguito
                                                 Tu m’hai tradito. (Entra furioso seguito dalle guardie)
che salva un regno... (Ecco Gismonda; affetti,
                               Alfin tu perdi il frutto
                            Già lo perdei, Gismonda.
Perché ingannarmi? A più gran meta alzasti
i voti tuoi; perché tacerlo? E meco
in volto lusinghier finger affetti?
soffro l’amor ma de l’inganno ho pena.
l’error confesso; amo Odoardo e solo
sì gran merto potea torti il mio cuore.
in me ne avea; ma per salvar chi s’ama,
che non si fa? Che non si soffre?
                                                            Ed ora
                                       A farti invitto.
né a lui fia di gastigo un mio delitto.
per me non hai di che temer. Metilde,
                            La placherà il mio sangue.
Tu ne cerca altre vie. L’onor de l’opra,
sia de la tua virtù, non del tuo amore.
che risolvesti? In pensier gravi immerso
parmi vederti; e l’infedel Gismonda
cesse amore al dover. Gismonda amai
ma più ’l mio re. Vinci tu ancor te stessa;
timor di vita e gelosia di onore.
Metilde, attendi e darai fede al guardo.
                                Si vince amor ch’è fiacco;
ma nel cuor di Metilde ad espugnarsi
                      Consorte.
                                          O numi! Enrico...
                                       Io son Enrico, io vivo.
                         (O me infelice!) (Non lo miri)
                                                         Il guardo
                                  (O fede! O amor!)
                                                                     Metilde.
Son gli occhi miei di rimirarti indegni. (Si volge a lui ed abbassa gli occhi)
Sposa leal, le tue ripulse ancora
mi son pegno di fede. Il fier tiranno
so che tentò... Ma ti consola, o cara.
né rea tu sei di sue lascivie. Onore
illeso è in te, se fu pudico il cuore.
(Più non è tal, colpa d’ingiusto amore).
Tempo è d’oprar, non di lagnarsi. Estinto
per te cada il tiran, ne la cui vita
la gloria riserbar de la vendetta.
tardar, si può perir. Vanne e l’affretta.
Giusti dei, che fec’io? Qual freddo orrore
Non ho più cuor; non ho più sangue; e dove
mi trasse amor? Così perdei me stessa?
                           (S’agita e turba).
                                                            Ah Enrico,
Ma se il tuo sangue ardir mi diede al fallo,
mia smarrita ragione. Il tuo trascorso
figlio è d’amor né l’innocenza esclude.
L’amar è fato e ’l non amar virtude.
                              Ecco il re. (A Metilde)
                                                  (Finger mi giovi).
                                        Parlo a Metilde
che, infedele e spergiura, ancor m’è cara.
mi rimprovera pur. Finger mal sai
sotto aspetto seren l’ire de l’alma.
L’arte comprendo e mi fa orror la calma.
Nobil pietà so che trattenne il colpo;
colpe più gravi amor perdona. Andiamo,
            Dove?
                           A regnar.
                                               L’Anglia un tiranno
non vuol per re; né da un delitto attendo
                              Sdegni non ho.
                                                            Né i temo.
                               Tu più non l’hai.
                             Lo so. Ma t’ingannai.
                           Ah mio signor!
                                                         Tradito
da’ miei più cari, in odio al mondo e in tale
su l’acciaro fatal la morte agli occhi.
Andrò in mano al fratel? Darò a Metilde
il piacer del mio sangue? Ah no! Fia meglio
                                 Pur posso...
                                                        Adolfo.
                Taci. Tal era. Or l’uso a pena
n’ho su me stesso; e questo ancor fra poco
dal livor de la sorte a me fia tolto.
(Miei timori, cedete; ho già risolto).
in te l’antica fede, a me qui reca
                     Che?...
                                    Non opporti.
                                                              Ah sire!
                      Ubbidirò.
                                           Fato protervo!
sin la sua morte a mendicar da un servo.
Odoardo e Gismonda a me qui innanzi (Alle guardie che partono)
                         Ecco, o Metilde, agli occhi tuoi
e la mia colpa e l’amor mio presento.
tramai l’inganno. Io non dirò che caro
Odoardo mi sia né ch’io l’adori.
tel dissero abbastanza i miei languori.
la vittima che dee. Mora Gismonda;
sol la sua vita ogni piacer t’invola.
che rival ti richiedo, è ’l morir sola.
perché morrai? Son miei, Metilde, i colpi;
son mie le pene; io t’ingannai, ti offesi;
Ei si deve ubbidir. Tu n’hai la cura.
Esser potria, se ne sospendi il colpo,
un’inutil pietà la tua sciagura.
datevi pace. Ambo vivrete; in ambo
rapire al mondo un paragon d’amore.
Obbliate, ven prego, e perdonate
un trasporto d’amor. Già nel mio seno
né mi resta di lui che un pentimento.
                                      A miglior tempo
serba i tuoi sensi. Ecco in tua man ripongo
il sigillo real. Tu andrai là dove
te con Riccardo il fior del regno attende.
del tuo destino. Hai per salire il trono
al mio piacer posso dar fede a pena.
                                 Sì, mia Gismonda.
                        Egli è tuo. Sola Metilde
contender tel potea, se non rapirlo.
se ancor l’amassi, è in me già colpa il dirlo.
saper che sei felice. Al tuo contento
né mi chieder ragion del mio tormento.
Di grand’avi gran figlio...
                                               Ecco, Odoardo,
                                    E a te più brilli in fronte
lo splendor del diadema. (Odoardo ascende sul trono)
                                                Omai vicina
                            Al tuo piè...
                                                   L’Anglia s’inchina. (Qui segue la coronazione)
Re sono, è ver. Morto il real germano,
lo scettro è mio. Ma se mel dona il sangue,
virtù mel serbi. In dar le leggi agli altri
non le grane di Tiro o i regni immensi
ma l’amor de’ vassalli e quel del giusto.
Chi regna è re ma più chi regge i sensi.
Signor, di tue fortune io non son forse
                                        E a me ben puoi
                           Bella Metilde, in parte
de la costanza tua, de la tua fede.
stabilito sul trono ed or che nulla
svelar ti deggio un innocente inganno.
                                          Vive il tiranno.
                                        Sì, poco lunge
                             Fa’ che a me venga. Il trono (Parte Riccardo)
non ebbe incanti; ancor qual era io sono.
Vieni, o mio re; s’io già sul trono ascesi,
se lo scettro impugnai, fu perché fede
diedi a la fama e ti credei già estinto.
in me stesso volgea l’orrido scempio.
rendo al sangue ragion, giustizia al merto.
Vieni, torna al tuo soglio; io già ne scendo.
Scettro, diadema e ciò ch’è tuo ti rendo.
                  No no, t’arresta. Odimi e teco
m’oda Enrico, Metilde e l’Anglia tutta.
A te, Odoardo, a te qui vengo in tempo
che de l’offese mie da te non posso
né gradirne il perdon. De la mia sorte
esser volli il monarca e in vita e in morte.
ne le viscere il tosco e già lo sento
senza darmi l’orror del pentimento.
Sei re de l’Anglia; io tal ti feci; e questo,
che in me punii; rimanti e regna; almeno
numerato Eduino. Ecco, a’ mie lumi
s’oscura il dì... Vacilla il piè... La terra
                Sostienmi.
                                      Accorro pronto e ’l braccio...
l’alma a spirar. Tanto di lena ancora
lasciatemi, o del sen voi furie ultrici.
il morir sotto gli occhi a’ miei nemici.
la gloria del perdon, timido forse
dover la vita a chi bramò dar morte.
                           Tua torno, Enrico.
                                                              O cara.
                                T’arrise il cielo; e degno
ecco la destra e con la destra il regno.

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