Metrica: interrogazione
770 endecasillabi (recitativo) in Euristeo Venezia, Pasquali, 1744 
Pendono di più regni i casi estremi
fatal momento, o libertà o catene
stan su l’aste guerriere. Ah, cara Ismene,
qual battaglia di affetti anche in quest’alma!
Epigene fia vinto. Il prode Ormonte
farà le usate prove; e i giusti numi
della causa miglior saran custodi.
Rado si accoppia alla ragion la sorte.
col disperarne. Dell’assedio ostile
sciolta vedremo Edessa; e dell’illustre
vincitor tu sarai prezzo e conquista.
Questi gran cori, all’arme avvezzi e pieni
non piegansi ad amar che applausi e lauri;
e son tutti alla gloria i lor sospiri.
Per te son quei di Ormonte. A che t’infingi?
tanta audacia in quel cor?...
                                                    Sdegno ne avresti?
in vili oscure fasce a me, del grande
macedonico impero unica erede,
erger osasse temerario il guardo?
scorre sangue real. Sola al re d’Argo,
del perduto Euristeo padre infelice,
son figlia anch’io. Pur s’in te fossi, o quanto
più di onor mi saria vedermi a’ piedi
languir di amore il valoroso Ormonte
che, con tutto il chiaror di sua corona,
                               E il tuo Clearco ancora?
Sì, che più di grandezza e di fortuna,
merito di valor piace e innamora.
tu mi strappi dal sen ciò che finora
mal chiuder volli. Io lo credea delitto;
Ma l’amor mio, se lo condanna il padre,
                                 Del re la legge
e Ormonte vincitor sarà tuo sposo.
Non mi so lusingar di un bene incerto;
e col rossor di una delusa spene,
non vo’ aggiugner fomento alle mie pene.
Sia tuo, non te lo invidio; e pur sospiro,
cara Aglatida, il fortunato Ormonte.
stringer mi sento; e sua virtude è tanta
ma del facile cor gl’impeti affreno
con la ragion. Cerco di amar Clearco
e trovo in lui quanto ad amore invoglia;
ma amare e disamar chi può a sua voglia?
Giace Epigene estinto; Edessa è salva;
cingon le liete turbe il prode Ormonte,
tardo lasciando a lui volger il passo,
ove il buon re lo attende e il cor lo chiama.
E con l’avviso a me ne vien Clearco,
Ad Ismene ritorno e sarò mesto?
                                        Ismene sola
sarebbe il mio dolor nel suo trionfo.
Dell’armi, dei perigli erano oggetto
Aglatida e il suo trono anche a Clearco.
Aglatida e il suo trono abbiasi Ormonte.
Sta tutto il fasto mio nel cor d’Ismene.
E questo cor ti parli. Odine i voti.
Vorrei per pace mia che, amando Ismene,
nobil conquista tua fosse Aglatida
e fosser tuoi trofei le altrui vittorie.
ciò, lo dirò, ciò che a’ miei lumi è Ormonte.
Il maggior non sapea de’ tuoi trionfi.
La virtù dell’eroe giunse a svegliarmi
stima sì, non amor. Rispetto amica
gli affetti di Aglatida e grata i tuoi.
Più dirò ancora. In tuo favor desio
vincer del cor le ripugnanze e amarti.
Ah, volendomi amar, già mi ameresti.
Anche un forte voler tiene i suoi ceppi.
Ma ti si tolga ogni sospetto. Ormonte
sposo sia di Aglatida. Il nodo illustre
                  Opra mi chiedi onesta e cara.
                                         Qual puote a Glaucia
speme restar dopo i trofei di Ormonte?
Quella che vien dal disperar. Tu vedi
qui il suo poter. Cisseo l’ascolta e l’ama.
giurata al vincitor, sarà spergiura?
quanto util suo la crede. Oscuri sono
i natali di Ormonte. In sugl’Illiri
stende Glaucia lo scettro; e più di Edessa
non crollano le mura all’urto ostile.
servirò al tuo comando, alla mia gloria.
Piacemi; e tua virtù giunga al mio core
per sentier pria di stima e poi di amore.
                                  Dunque, o Clearco,
sovra me dell’Illirio almi regnanti,
più felice che forte, a torne i vanti,
a rapirne le spoglie e delle genti
a renderne verrà favola e scherzo?
sia di regio natale o di plebeo,
egualmente alla gloria è aperto il calle.
il valor, non il sangue. Ormonte ha vinto;
e sul premio, ond’ei vinse, a noi men forti
                                        Come? Di lui
fien la vergine eccelsa e il gran retaggio?
Mostrarne pena accrescerebbe il torto.
Ei, senza il mio favor, basso ancor fora
vapor. Luce io gli diedi. Ei sel rammenti.
Ciò che gli devi a te sovvenga ancora.
In quel primo per noi conflitto infausto
egli ti tolse a irreparabil morte.
Nel braccio ancor ne porti impressi i segni.
Sia Glaucia preservato e Glaucia amico
ma non Glaucia rival la sua mercede.
Giudicarne del merto al re s’aspetta.
Al nodo disugual che il re consenta?
Tu il decreto ne sai. Soffrir n’è forza.
non mai quel di Aglatida. A mete eccelse
ma non oltre il dover. Si riconosca.
Io l’alzai. Me rispetti; o in breve oppresso
egli sarà dal suo sostegno istesso.
nol so. Ne veggo il merto e non il core;
ma in onta di chi ’l giusto a lui contenda,
qui troverà chi sue ragion difenda.
Oh, non fosse a temer che il sol Clearco!
il decoro del grado. Andiamo al nostro
campione invitto ad affrettar gli amplessi.
Sire, nel comun gaudio il mio trascende.
Ormonte è un’opra mia. Fu mio consiglio
                                              E sua virtude
fece il dovere e corrispose ai voti.
Giust’è ch’anche risponda il premio all’opra.
Lodo il grato tuo amor. Tutto gli dia
di Epiro il re, non di Aglatida il padre.
giurai nel vincitor. Tu sai la legge.
Che! Tuo genero Ormonte? Un...
                                                             Che far posso?
Tutto. Ormonte è uom privato e re tu sei.
Taci. Egli vien. Maturerò i consigli.
(Disperar già potete, affetti miei).
Vieni, invitto guerrier; vien, del mio regno
libertade, a te vita, a te de’ miei
Per te vanto trofei, per te re sono.
Ciò che feci in tuo pro, sire, è sì lieve
che tua bontà, con esaltarne i pregi,
De’ tuoi ingiusti nimici il grave eccidio
era impegno del ciel. Sua n’è la lode;
tuoi fur gli auspizi; io sol ne fui ministro;
e servì mia fiacchezza a far più fede
del favor degli dii nel tuo trionfo.
Cor serbar sì modesto in tanta gloria
è un saper dopo altrui vincer sé stesso.
Ma nol deve privar di sua mercede
un’austera virtù. Tale è il tuo merto
che avanza il mio poter né cosa offrirti
posso che tua non sia. Chiedi e, se grado
v’ha nel mio regno, dignità, tesoro...
Sì, un tesoro, o signor, v’ha nel tuo regno
che, se colpa non fosse il sol bramarlo,
me beato faria nel suo possesso.
                                  E qual?
                                                   Pria che col labbro
nell’audacia del prego il cor sia reo,
donami un breve indugio. Anche il tuo dono,
senza un assenso altrui, mi saria pena.
                                        Siasi a tuo grado.
diventa il tuo silenzio un mio rossore.
quel tuo silenzio interpretar mi giovi.
e se premio ne vuoi, Glaucia tel serbi.
militò la mia destra; e duce in campo
de’ Macedoni fui, non degl’Illiri.
dopo la mia ferita il sol mio voto.
e tra gli applausi altrui nessun più giusto
dovea farmi ragion che Glaucia istesso,
da una sorte peggior per me difeso.
E fin dove ti porta orgoglio e spene?
A Glaucia nol dirò, se al re lo tacqui.
Aglatida è un oggetto, ove non puote
senza nota di ardir fissarsi il guardo,
                                            Saper ti basti,
duce, ch’amo Aglatida. Io tutte lascio
al tuo fasto in balia l’alte speranze.
ei non salga a turbar gli affetti miei,
che in Ormonte un rival non soffrirei.
(Frema a sua voglia un gran dolor. Me tutto
occupi idea più illustre. Ad Aglatida
andiamo... O dio!... Di que’ begli occhi a fronte,
che sia temer tu senti, o cor di Ormonte).
Da tanti applausi troveran già stanco
quei che gli reca per paterno impero
Disprezzo, no, ma riverenza e tema
talché, ov’era il desio, non fosse il piede.
Di che temer? Chi a servitude e oltraggio
tolse un popolo intero, e me con esso,
mi crederà sì ingiusta, onde al suo merto
lodi condegne il mio dover ricusi?
Tua bontà, che dell’opra applaude il zelo,
del cor non so se approverà l’ardire.
Fu amor... Ah, che più reo già sono in dirlo;
amor fu che mi accese a nobil opre
e di me stesso assai maggior mi rese.
Tu di Epigene vinto e de’ sconfitti
tessali, tu, Aglatida, hai sola il vanto.
Vinti quei non sarien, se da te vinto
non era il vincitor. Che s’egli amando
ti offese, ecco, i suoi lauri al piè ti getta
e del suo bel fallir la pena attende.
In altro tempo, in altro aspetto, o duce,
non io tanto sofferto e non avresti
tu osato tanto. A’ tuoi trofei concede
                                        Ma della figlia
che dal dover. Segue il suo cenno; e s’egli
                                              Ch’io di mia sorte
mi abusi e d’altra man voglia Aglatida
che dalla tua? No, principessa. Io tacqui
al re gli affetti miei, perché le norme
dee prescrivermi il tuo. Null’ama, o poco,
chi in suo favor vuol che comandi un padre.
O del padre sii dono o sii mio prezzo,
ti rendo a te. Di te disponi. Io cerco
più il tuo che il mio contento; e vo’ più tosto
che parer tuo tiranno. In Aglatida
sta il mio fato. Io l’attendo. Ella il decida.
duce, già dissi assai. Prezzo al trionfo
trasse a pugnar. Tu hai vinto; io piacer n’ebbi;
né di alcun tuo rival senso mi fece
la sinistra fortuna. Or che più chiedi?
Chi felice ti brama il suo già diede.
ben sofferti disagi! E che più temo,
                                         Ma il re l’approvi.
              Tu seco ingiusta a me saresti?...
O lieto, o fausto dì! Gloria ed amore
quasi in gara per me... Che miro?... Erginda?
Erginda, sì. Tanto stupisce Ormonte
                                              E qual ti trasse
lungi dal vecchio padre a questa reggia
                                     Qual? Tu mel chiedi?
Forano albergo mio le patrie selve,
Da quel ch’ei ti lasciò, ben altro il vedi,
ruvido alora cittadin de’ boschi,
                                  E aggiungi: allor di Erginda
fido amante e compagno, ora infedele
con cui fin da’ prim’anni io teco crebbi,
                         Questo non chieggo; e s’anche
lo dannassi all’obblio, non te ne accuso.
Quel ti cerco che amor, dacché Tersandro
lasciò d’esserti padre e suora Erginda,
con più fervida face accese in noi,
quello che vuoi tradir, se nol tradisti.
son per me nomi ignoti. Erginda amante
mi fe’ pietà. Tu la credesti amore;
e in pascerti l’idea di sue lusinghe,
io stimai crudeltade un disinganno
e il lasciai nel suo error. Datti omai pace.
Non è Ormonte per te. Sin fra le sacre
dell’olimpico Giove alme pendici,
sentì l’alma sé stessa e la sua sorte.
                        E sposa ancor?
                                                     Prezzo men grande
valer non può l’abbandonata Erginda.
                 Ti compiango. All’amor mio
più conceder non lice. Erginda, addio.
Così parla il crudel? Così mi lascia?
luogo date, o sospiri, a un giusto sdegno.
Questo, questo mi vendichi. Non manca
a schernita beltà forza né ingegno.
vendicata in amor, se non contenta;
e quell’erbe e que’ tronchi, ove tu vuoi
ch’io vada a confinar l’aspre mie pene,
forse ancor beveranno i pianti tuoi.
il pubblico piacer; ma che con tanta
vittima tu ne sia, lo può Aglatida,
                                          Qual sovrastarmi
può strano caso, ove comanda un padre?
                Nel tuo imeneo. Si vuol che Ormonte...
             E ne hai sdegno. In quel rossor lo leggo
che ti si accende in volto. Or qual consiglio?
                                    Legge sì iniqua?
La fe’ un re, la fe’ un padre. In serva e figlia
cor vorresti rubello e contumace?
Eh, mal simuli ossequio, ov’è dispetto.
dal torbido degli occhi; e sento il core
contra insulto sì reo chiedermi aita.
Serba ad uopo miglior, prence, il tuo zelo.
Nol chieggo, ov’è soverchio; e in darne prove,
non ne avresti altro pro ch’odio e disprezzo.
Io ti credea più forte e che il decoro
risentir ti facesse il grave oltraggio
degl’indegni sponsali. Ah, principessa,
al tuo talamo Ormonte? Un che qual nacque
non sa o s’infinge e vergognoso il tace?
non era in suo poter. Tutta esser opra
dovea di sua virtù la sua fortuna.
l’onte del fato; e dar gli eredi al soglio
così merto dovrebbe e non orgoglio.
riverenza di figlia, esser comprendo
                                          Se il re lo vuole,
egli vi regnerà. Per te, che amando
forse il difenderei da un tal comando.
Tutto sei vinto alfin, cor di Aglatida.
Quai strinse armi possenti e insidiose
Ei di eccelsa virtù sotto il sembiante
non pretese che stima. Al cor, già poco
L’approvò. Sen compiacque; e la sorpresa
sol conobbe il meschin, quando si vide
mancar la libertade e la difesa.
Quella è Aglatida. Attendi. (Ad Erginda in lontano)
                                                   (Ah, che in quel volto
men colpevole trovo il mio infedele). (Erginda si ferma in disparte e Ismene si avanza)
che il felice imeneo. Tuo sarà Ormonte.
                        (Ah, quasi in dirlo io sospirai).
Tacque ancora l’amante. Ormonte chiegga
dopo aver meritato. Un re vuol sempre
quando ancor son mercede, e che si creda
che pregato le dia, più che costretto.
nel silenzio di Ormonte. A lui fu a core
pria del regio voler quel di Aglatida.
                                   Oh, tal risponda il padre.
                   V’ha chi ne ascolta. (In volgendosi verso Erginda)
                                                        Avanza,
ninfa gentil, ch’omai n’è tempo, il passo.
che, quantunque di selve abitatrice,
pur vanta in gentil sangue alma non vile.
Se molte avesse a lei simili il bosco,
di che arrossirne avrien le reggie istesse.
Ben ne giudichi, Ismene. Udiamne i casi,
qual venga e donde e qual si appelli.
                                                                   Erginda
ma del tempio custode, ove si cole
l’almo olimpico Giove, unica figlia.
Qual tempio mi rammenti? Ed in qual parte?
Quel che in Elide è posto, a cui fann’ombra
il vicin monte e il sacro bosco.
                                                        Ah, quivi,
fu il bambino Euristeo. Sapresti, Erginda...
che ogni ’ndugio è mortal.
                                                 Segui. Ti ascolto.
Crebbe fin da’ prim’anni a me compagno
fu a noi la patria mensa, il patrio tetto.
che ancor non sapevam che fosse amore;
e il padre ne godea. Giunti all’etade
in cui meglio conosce il cor sé stesso,
con reciproca fede... Ah, che mi giova
fiamme, i pudichi affetti? O dio! Repente
veggo il giorno sparir, colui fuggendo
L’attendo. Invano. Lo sospiro. Al vento.
Compie l’anno. Ei non riede. Io la temea
ma non tutta sapea la sua incostanza.
Fama non menzognera a me ne giunge.
ai domestici lari e al padre, oh, quanto
dolente ei fia! m’involo; e qui lo seguo.
Qui lo trovo. Sleal! Qui in altri affetti,
oggi, se tua pietà non mi soccorre,
invan da me convinto, invan pregato,
sposo di altra beltà sarà l’ingrato.
Mi mosse il pianto. (Ad Aglatida)
                                      E me di sdegno accese. (Ad Ismene)
Il tuo infedel, quand’io lo sappia, il giuro, (Ad Erginda)
vedrai pentito o ne avrà pena acerba.
anche per Aglatida ardua è l’impresa.
La mia fé ti assicuri. Al re son figlia.
sbigottirà del traditore al nome.
diffidenza mi offende. O parla o vado.
anche del tuo dolor. Colui...
                                                   Ti nocque
l’indugio. Ecco i custodi. Ivi Clearco.
                                         Sorte nimica!
Qui resta, Ismene, e quai rivolga il padre
sul destin del mio amor sensi, raccogli.
Erginda attenderò nelle mie stanze.
(M’inganno forse; ma costei nel petto
non so qual mi versò ghiaccio e sospetto).
Vezzosa Erginda, or tu mie brame adempi.
Mali da te previsti. Irresoluto
su le nozze di Ormonte il re lasciai.
della fede giurata; e quindi il preme
                                 Tu che dicesti?
Quanto dovea. Quasi i riguardi e vinte
quasi di lui le renitenze avea,
e il re, qual chi in naufragio a sé vicina
tavola afferra e vi si spinge al lido,
presel per mano e in quel vial di mirti
seco si pose a ragionar segreto,
a me vietando seguitarlo e a tutti.
Ah, per lo più si segue in dubbio affetto
                                       Reo de’ suoi mali
fu il silenzio di Ormonte. A gran mercede
non conviene dar tempo. Al beneficio
tutto impetrar. Langue, se invecchia, e incontra
pretesti, con chi cerca essere ingrato.
                                     Porlo in dovere
potrà la forza. Ho le mie schiere. Ormonte
quelle avrà de’ Macedoni. I suoi torti
tacito mormorio desto han nel campo.
rimedio estremo; e te non stanchi intanto
Che sì, che in tal scompiglio, Ismene, or qualche
amorosa speranza in te rinasce?
Vanto sia del tuo amor strozzarla in fasce.
No, Glaucia. No, Clearco. Una mia figlia
non sarà mai di chi, qual io, fra gli avi
o re non conti o dei. Non è sì scarso
il poter di Cisseo che ancor non abbia
di che Ormonte premiar senza Aglatida.
Su Aglatida, o signor, se ben rifletti
non tien più autorità la tua possanza.
Ella di altrui divenne, infin d’allora
che a te stesso facesti impero e legge
                                     Ma a tal che fosse
e per nascita illustre e per retaggio.
chi al valor non li pose. Al regno afflitto
che giovar, benché re, Glaucia e Clearco?
(Nelle prime incertezze il cor ricade).
ristringerà le sue pretese Ormonte?
Sire, a lui da quest’ora e figlia e trono
cedi e il primo tu sii de’ suoi vassalli.
Orgoglio, che s’obblii, non ha misure.
                                         Amor lo move
e amor già corrisposto anche il lusinga.
                                           O dei! Che intesi?
Corrispondenze? Amori?... Altro è ben questo
                          No, Clearco. Altri onor chiede
(Lo stral pur giunse al destinato segno). (Si parte)
(E che non puote un reo consiglio indegno?) (Cisseo, senza più badar a Clearco, va a porsi pensoso sopra un sedile di verdura)
Ormonte ama Aglatida? Ah, chi del padre (Levandosi)
aspettar non potrà del re la morte
nell’amor dell’impero. E questo e quella
son già suoi nel suo cor. Pugnando in campo,
e l’accusa e la tema. Odasi Ormonte
e si ascolti Aglatida. Olà. (Ad una delle sue guardie)
                                               (Sicuro
che Aglatida il gradisca, amor, che in seno
Duce. (Simular giovi i dubbi e l’ire).
benefico favor, più che da merto
quel gran bene a implorar...
                                                    Sì, con coraggio
chieggalo il vincitor; ma tal lo chiegga
che convenga a chi ’l dona e a chi ’l riceve.
il grado col dover. Tai grazie ha il trono
il negarle giustizia. Avrei gran pena
dalla necessità del mio rifiuto.
Ma se le brame tue regga l’onesto,
la mercede non tema alcun pretesto.
guida prende il desio che la tua fede.
Questa assolve il mio ardir. La ricompensa,
da te giurata, il difensor del regno
e l’uccisor di Epigene ti chiede.
Altri invan lo tentò. Lo fece Ormonte.
qual lo saresti altrui; né la tua mano,
col frapporsi tra Ormonte ed Aglatida,
perdona, a me sia iniqua, ai numi infida.
                      Ella, o signor. Volo sì ardito
preso mai non avrien le mie speranze
Ma tu il premio offeristi; e nol chiedendo,
di conoscerlo poco io mostrerei.
se lo pretendi, uom vile. A mia bontade
grazie dar puoi, se lo chiedesti impune.
Men d’orgoglio in tua gloria e non forzarmi
nel vergognoso nulla, onde io ti trassi.
Questo nulla, o signor, non fa arrossirmi.
Nell’esser mio quella grandezza ho meco
che meritò ciò che la tua mi nega.
Da un genero real sperar non puoi
che più non t’abbia dato il vile Ormonte;
e questo, che tu chiami uom vile, questo
Nel mio nulla, o signore, ecco qual sono.
vieni il frutto a veder di quegli affetti
che nudristi in colui. Bel mi scegliesti
genero e successor. Se posto avessi
tu freno a sua insolenza, anzi che sprone,
ei spinta non l’avrebbe a tanto eccesso,
te scordando e Cisseo ma più sé stesso.
Ed io risponderò. Meno i tuoi sdegni
non meritò giammai la mia innocenza.
Io di Ormonte approvate avrei le fiamme?
Io sposo il soffrirei? Pria quella vita
Odio lui più che morte. Abbian tutt’altra
Scordi Aglatida; o una mortal nimica
Questi sono, o signor, gli affetti miei.
                               Tra queste braccia
vieni, o di me parte più cara, e senti,
non so se più il mio gaudio o il mio rimorso.
riconosco il mio sangue; e tu che osasti
me con l’orgoglio e con l’amor la figlia,
va’; né più mi vantar le tue vittorie.
che, s’io l’audacia tua lascio impunita,
io il regno a te, tu a me dovrai la vita.
Ingiusto, ingrato re, tua sconoscenza
fa la sciagura mia ma non l’estrema.
Da quel labbro la udii. Tu sei de’ mali
l’abisso ov’io mi perdo. Ah, principessa!
Non vo’ crederlo ancor. Forse i tuoi detti
resse timor di autorità paterna;
a dispetto del labbro il tuo bel core.
Sì, del mio core i sensi intese il padre;
ostacolo al tuo amor che un padre irato,
Vi si oppon tua perfidia. A questa ascrivi,
misero, la tua sorte. Il ciel, ch’è giusto,
vendica con la man di un padre ingrato
                                  Ah, per qual colpa?...
Que’ boschi il sanno, onde le pure uscisti
aure a contaminar di questa reggia.
Colà torna, o sleal. Là seppellisci
le tue speranze e da quel cor cancella
Di rossor mi saria tener più loco
Nella mia non l’avrai né pur dall’odio.
Il mio cor già parlò. Vattene.
                                                     O dei!
Non meno un vil che un traditor tu sei.
«Non meno un vil che un traditor tu sei».
«Io il regno a te, tu a me dovrai la vita».
Così, ingrato Cisseo? Di chi dolermi
Quai son le colpe mie? Re sconoscente,
ne’ benefizi miei. Chi serve e a farsi
giunge un re debitor, sel fa nimico.
Ah, non altra, o crudel, che il mio destino.
Miseria seguon sempre odio e disprezzo.
Avessi almen con libertà sincera
e scusato il tuo cor con quel del padre.
Sofferto avrei da te con qualche pace
sul labbro tuo troppo mi passa il core.
Coronatemi il crin, rose e ligustri.
Spente le tede e rovesciata è l’ara
dell’infausto imeneo. Si è fatta alfine
la mia vendetta. Io non sarò in amore
coi pianti miei confonderà i suoi pianti.
Godiam, cor mio. Ma tu sospiri ancora?
Che più vorresti? Intendo. In te rinasce
speme e desio. Chi sa? Già vede Ormonte
le reggie inique e le grandezze infide.
Dispetto in lui scaccerà fasto; e ancora
le natie selve e la fedele Erginda
richiameran quell’innocente affetto
ch’era un tempo sua pace e suo diletto.
                                          Sovra un’accusa,
cui rabbia e gelosia danno fomento,
Qual fede? Erginda l’ebbe. Io n’ho le prove;
e il fare un infedel non è mia gloria.
e amor si ascolterà ma forse tardi.
Non divampa più ardor, di cui non resta
cielo per sempre il desolato Ormonte.
E si perda con lui la sua memoria.
a migliore imeneo. Già n’odo i canti.
Sei ultima a saperlo? Ormonte appena
posto avrà fuor di Edessa il piè ramingo
che al tuo talamo Glaucia...
                                                  Oimè, qual novo
torrente di sciagure! A Glaucia io sposa,
                                                 E più di Ormonte?
O crudel, se m’inganni! O più crudele,
Nel fido amante il difensore avresti.
Né dover né ragion vuol ch’io il rivegga,
sinché il trovo infedel. Tu l’innocenza
n’esamina e la colpa. Odi qual parli
di Erginda e di Aglatida. A lui nel volto
il pallore, il rossor, tutti dell’alma
i movimenti osserva. A me poi riedi.
                             Cedesti alfine.
                                          Ma s’altre rechi
tacimi lui; tacimi Glaucia ancora.
Parlami sol di morte. Io l’avrò tosto
e dal timor del mal vicino oppressa.
(Quanto fec’io per tormentar me stessa!)
Fiero dover vuol che si soffra e vinca;
né si aggiunga a dolor vergogna e colpa.
                                                In odio a lei,
sì, Ormonte, anche a te stesso in odio sei.
Che mi resta a far più, se non morire?
Sovrasta al suo destin chi ’l sa soffrire.
Poss’io sperar nella mia sorte avversa
Ismene è giusta; a che temerne, o duce?
Chi ha l’odio del regnante ha quel di tutti;
e reo seco divien fin chi ’l compiange.
gran miseria a gran merto; e in tuo favore,
più di quel che dir posso, è quel che penso.
Oh, fosse ugual pietade in Aglatida!
Non ti rimorde il cor di alcuna offesa?
Se colpa è amore e fede, io reo già sono.
Amor, sì, ma incostante e fé spergiura.
                               Perché la desti ad altra.
              Conosci Erginda? A questo nome
                                           O dei! Già intendo;
e l’ire di Aglatida in parte assolvo.
Le fai ragion col confessare il torto?
                                          Ti accusa Erginda
di scambievole amor. Ne reca in prova
                                         Ah, si perdoni;
ma non si creda a disperata amante.
Del mio amor la meschina a sé già fece
ed or se ne fa vanto in sua vendetta.
osato non avrei di offrire un core
che fosse reo di spergiurato amore.
Ella si disinganni. A me la cura
                                              Sorge in me speme,
se Aglatida mi rendi. Io temo ancora
il divieto crudel. Tu vanne e dille...
quanto può fa Clearco; e il sappia Ismene.
                           Nel suo rifiuto; e Glaucia,
qual fa mantice in fiamma, ire vi accende.
Più che Glaucia e Cisseo, temo Aglatida.
contra re genitor figlia anche amante?
                                         A quali? O dio!
Mi si asconde il maggior de’ miei disastri?
                                     Ma Glaucia vanta
le vicine sue gioie. Il re l’ascolta
e può nel suo favor prometter tutto.
Ma non tutto eseguir. Su l’ara istessa
                                    Piacemi, Ormonte,
né sarai solo. Andiamo. Avrai Clearco;
e con gli etoli miei ti seguiranno
le amiche macedoniche falangi.
Questa è la via di assicurarti il caro
possesso e di punir Glaucia e Cisseo.
è il mio sovrano, è di Aglatida il padre.
il rispetto e l’amor. Vo’ da Aglatida,
più tosto che abborrito, esser compianto.
                               Ma inopportuna.
Lo faria il vincitor, nol può l’amante.
al superbo rival le sue speranze,
prova è questa di amor? Questa è virtude?
dia leggi al mio destin. Deh, principessa,
poiché avrai da quel cor, che ben lo spero,
col chiaror di mia fé l’ombre disciolte,
fa’ che intenda il gran rischio, in cui ne immerge
insidia e sconoscenza. Io quel sentiero
seguirò solo, ove sua man mi guidi.
Duce, il farò. (Più bell’amor non vidi).
Amistade ed amor, possenti affetti,
Tu sei l’ancora mia nel gran naufragio;
                                           Io pronte al cenno
terrò le amiche schiere; e nel tuo nome,
anche senza tua colpa, avrem vittoria.
Un resto di pietà, che in tante guise
da te già provocato, ancor ti serbo,
mi tragge a te. Fanne buon uso. Altrove
A sperar qui non hai che sdegni e mali.
Nel tuo istesso favor minacce incontro?
parmi di udir da un suo comando. Ah, fuggi.
la Tessaglia nimica; e il farà Glaucia?
Da queste mura, ove te ancor chiudesti,
qual vinse Ormonte; or lo vedran qual fugga?
E se dal re te ne arrecassi il cenno?
Prence, il so. Con l’idea di quel gran bene,
che a me si dee, già ti lusinghi e pasci.
Ormonte a te vicino è il tuo timore;
e ne temi a ragion. Vorrà ch’io parta
Cisseo? L’ubbidirò. Ma pria che il passo
tragga da questa reggia, odimi e trema;
Glaucia sarà la mia vittoria estrema.
Temerario! Egli crede ancora ignote
le natie sue capanne, i patri armenti.
Sì, e di aver per amico un vil bifolco
Occhio, cui fosco velo appanni il guardo,
teco sdegno garrir. Medita, ordisci
al suo nome, al suo merto insidie ed onte.
Già in me conosci il difensor di Ormonte.
Se giusto fui, perché la prima, o dei!
                                             Glaucia, si è data
pena all’ardir, non ricompensa al merto.
Ne hai tu la colpa? O un insolente orgoglio?
Ma ne mormora il volgo; e di tumulto
Certe anime feroci e del comune
applauso confidenti, un re giammai
non offenda a metà. Tutto o lor doni,
Soffrirle è un provocarle. Eccone il rischio.
Presso è il nembo a scoppiar. S’offra a’ soldati
Ormonte e nulla più. L’oggetto è sempre
del suo fasto il tuo scettro. Ah, se nol vieti,
genero nol poté, l’avrà nimico.
                                       Potresti e farlo
dovresti ancor; ma nol consiglio. All’ire
tronca il pretesto in Aglatida e a lei
                                Ma se ciò fosse
anzi irritar che disarmar gl’insulti?
Li prevenga il rimedio. Oggi si accenda
all’imeneo la chiara face. Ormonte
nulla oserà, già prevenuto; e intanto
nelle sue stanze un tuo comando il chiuda.
Ah, risolver non so. Pugnan nell’alma
                                      E quai ne avresti
Aglatida in veder sposa a un bifolco?
Ormonte, sì, pria guidò greggi al pasco...
                                       Da Erginda, a noi qui giunta
dietro l’orme di lui, spergiuro amante.
finirà di espugnar le mie già fiacche
Seguan te i miei custodi; e fa’ che inerme
sia ben guardato entro la reggia Ormonte.
Col regno e con l’amor tutto l’offersi
Va’. In tua grandezza e in mia amistà confida.
t’agiti, alma real? T’occupi meno
Ormonte vincitor. Reo di più colpe
pensalo ancora... O dio! Regniam sugli altri;
e l’ostro, che vestiamo, è debol scudo
dall’oltraggio mortal de’ colpi suoi.
Guarda di non mentir, che l’imposture
giudice re spaventa o le punisce.
Amor sostien le accuse. Io nulla temo.
Quella e di Elide son, figlia a Tersandro.
Dell’olimpico Giove egli è il custode.
                                      E troppo, in mia sventura.
Dinne la patria, i genitori, i casi.
E l’arti ancor, con cui deluse Erginda.
                                      Ne udì i vagiti,
di età a me pari e nel mio patrio albergo.
Come nel tuo? Servo a Tersandro ei nacque?
No, ma qual figlio ei l’educò bambino.
Tanto i suoi genitori eran meschini?
Fur più tosto, o signor, tanto spietati.
                 Lo sa quel bosco, ove il lasciaro.
Nel bosco sacro al maggior nume.
                                                              Appunto.
                                                Esposto e solo.
                      Di poco io varco il quarto lustro.
Era il bambino in ricchi arnesi involto?
Anzi (mentir mi giovi) in grosse lane.
De’ suoi bassi natali indizio certo.
E più certo l’avrai da’ suoi spergiuri.
Non delude le ninfe alma gentile.
Arse tra voi scambievol fiamma un tempo?
Di amarmi ei disse; io sì, l’amai da vero.
                                              E a’ doni suoi.
Il più ricco, il più caro anzi di quanto
tenesse. Ecco, o signor, l’aureo monile.
Potea meglio provarmi ei la sua fede?
Gemme di raro prezzo. Osserva, Ismene. (Levandosi)
O dei!... Vedi, o signor... Vedi qui d’Argo
l’aquila. Alcide è questo, illustri segni
e padre ad Euristeo, finor compianto.
Non ti lasci temer questa, che al manco
braccio a me pur risplende, aurea maniglia.
Egual tesoro di natura e d’arte.
                   A me rispondi. Or saria vano
E tra ruvide lane a che mentirlo?
Industria del suo amor ma sfortunata.
                                                Il brando istesso
che, non ha guari, io qui gli vidi al fianco.
Nel cui fulgido acciaro impresse stanno
del nome di Euristeo le prime note.
                             Domo è il superbo e freme,
quale avvinto leon, chiuso in sua stanza.
                                           Eccolo, o sire.
Senza me non l’avresti. In man di amico
ei lo cedé. Lo disarmò il tuo cenno.
Quello è il brando, o signor, che in man di lui (Cisseo ed Ismene lo stanno considerando)
fu già de’ tuoi nimici e del tuo regno.
Più non resta a temer. Vedi le ziffre
voi l’aveste dal dì che nel toglieste,
crudelmente pietosi. O qual del padre
Quale il tuo, mia Aglatida! Or sol v’intendo,
moti interni del sangue, in me costanti.
Caro Euristeo! Non più sospiri e pianti.
                       Il degno amico è d’Argo il prence?
Più non si tardi. A me Aglatida e Ormonte.
Tutto dobbiamo, Erginda, al tuo dolore.
Dall’alto della speme, ah, qual cadei!
Del mio ben venni in traccia e lo perdei.
dà l’ingrato Cisseo l’ultimo oltraggio.
Non so se avrai virtù da sofferirlo.
Chi mi tolse Aglatida e allor non giunse
farmi può novi insulti e andarne impune.
Vo’ che sugli occhi tuoi si stringa or ora
nodo il più bel che mai stringesse amore.
               Sposo real scelsi alla figlia.
Ogni voto vi applaude. Il tuo sol manca.
E a questo mi serbasti? A questo il fianco
del noto acciar mi disarmasti? In seno,
se qui l’avessi, il vibrerei del troppo
fortunato rival. Dammi pria morte;
e mi sarà la tua fierezza un bene.
Vien Aglatida. Ah, ch’ella abborre il duce. (Piano ad Ismene)
L’ira cessò. Te ne assicura Ismene. (Piano a Cisseo)
Figlia, a regio consorte omai congiunta,
lascio al tuo cor che in libertà qui ’l trovi.
(Povero cor!) Padre, perdona. In Glaucia
l’odio. Nol vo’ in Clearco. Egli è d’Ismene.
                                                   E in Euristeo?
Deh, più non tormentar le due bell’alme. (A Cisseo)
sì, nel fratel, nel prence argivo.
                                                         O dei!
Figlia, da me il ricevi; e quel tu sei. (Presa la mano d’Aglatida, la presenta ad Ormonte)
                                                        Io son sì oppresso
È sogno? È inganno il mio? Re. Amico. Ismene.
Dimmi germana. Anche per me un amplesso.
di saperne gli eventi. Or pio dovere
pronti ne chiama a ringraziar gli dei,
da cui solo quaggiù deriva il bene.
Tutto or avrai, Clearco, il cor d’Ismene.
Candido e fausto giorno, alfin tu vieni
senza cui ne cingean nebbie ed orrori.
Più del fulgido Apollo, a noi ti guida
l’inclita Elisa. Ella ne allegra e bea
con l’amabile aspetto e rassicura,
quello ancor che speriam. Sì, grande augusta,
felicità sta scritta. Il rivederti
racconsola gli affetti e le speranze;
sinor ti sospirò, tanto or n’esulta,
non anche appieno nel suo gaudio intende
se più sia quel che gode o quel che attende.

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