Metrica: interrogazione
500 endecasillabi (recitativo) in Il Narciso Venezia, Pasquali, 1744 
Ben mi parea ch’oggi più bella e chiara
l’alba sorgesse e più dell’uso il colle
mia delizia e mio sol, gentil Narciso.
E a me parea che nube impura intorno
la primavera o il giorno, or che ti veggo,
mio tormento e mio orror, ninfa importuna.
del mio gran foco accese, aprono il seno.
sparsi del ghiaccio mio, fann’ombra al prato.
                                     Sol perché avessi
                                         A’ lidi, a’ venti
dunque ognor spargerò pianti e lamenti?
                             Ciò che consiglia il labbro
distruggon que’ begli occhi.
                                                    O parti o ch’io...
                                              Cidippe, addio.
cui non di molli, effemminati amori
ma di onesto piacer nobil desio,
giunta è l’ora opportuna. Andiam là dove
di Elicona e Parnaso al ciel la chioma,
con l’umide sue braccia, il sen feconda
ove l’Asopo, ove l’Ismeno irriga
le verdi piagge e le campagne amiche;
sospirar per un labbro e in ozio vano
spenderne gli anni, onde all’età matura
di un bugiardo piacer ne resti solo
Narciso, i passi arresta; Eco sen viene
a partir teco e le fatiche e i rischi.
Vien pur, ninfa gentil, te sola io trovo
Tu cara a me, poiché di amor non senti
le pungenti quadrella e a me non stanchi
con sospiri importuni il casto udito.
(Oimè! L’esempio altrui cauta mi rende).
Vedi gli stolti amanti, il volto e gli occhi
sparsi di orror, di lacrime, le voci
da’ singulti interrotte, esempio insieme
Sol così premia i suoi vassalli amore.
quando è crudel, come tu sei, chi s’ama.
gioia non v’ha che ben pareggi ’l prezzo.
Più di una ninfa, in simil cure esperta,
più di una volta udii lieta ridirmi:
«Fortunato pastor, ninfa beata,
di cor con cor, d’alma con alma». O sorte
degli Elisi più dolce! Aure felici
più soavi spirate! Ove la mente
figurarsi può mai destin migliore?
Così anche premia i suoi vassalli amore.
noto il tuo cor, di giusto sdegno acceso,
l’ira inutil del labbro. A garrir teco
un mio delirio e non amor mi guida.
Non di garrir ma di partirsi è tempo.
Fuggon rapide l’ore e il dì s’avanza.
(Cor mio, non disperar. Ci vuol costanza).
già circondan le belve, il monte e il piano
sente gli urli primieri; e impazienti
danno i molossi il lor latrato ai venti.
Doverti amar né poter dir: «T’adoro».
né poter dir: «Crudele, io per te moro».
Io temo gli occhi miei, temo il mio labbro;
e per piacerti, oh dio! teco mi fingo
inimica di amor, quando più t’amo.
seguirti ovunque vai. Posso asciugarti
su la fronte i sudori e del mio petto
far morbido guanciale a’ tuoi riposi.
stringer la mia con la tua destra; e mostri,
l’orme del suo dolor m’invia sul volto,
sebben tu non gl’intendi e non gli senti,
mostri qualche pietà de’ miei tormenti.
fui felice una volta e l’infedele
pianse al mio pianto, arse al mio foco un tempo.
Ma qual donna non cangia e voti e cure?
La mia fede è tradita. Io son lo stesso
ma non Cidippe. O di altro bello accesa
o ad altre cure attenta, allorché incontro
o s’infinge o mi fugge o non mi mira.
Te felice, o pastor, che almen provasti
quante gioie dar possa un grato amore.
nell’uso de’ piaceri, il tuo dolore.
nel continuo suo pianto, è per lui tolta
ogni speranza, ogni diletto e solo
dell’altrui crudeltà, del proprio duolo.
Un continuo dolor perde le forze,
si fa natura e istupidisce i sensi.
Ma più fiero ei divien, quando lo scuote
un bramato piacer né mai goduto.
la memoria del ben, quando è perduto.
fia il risanar che l’inasprir le piaghe.
Tu per Cidippe ed io per Eco ardiamo.
d’ambe le ninfe e di noi pure amico,
sappia il nostro desir, ne presti aita.
so che arride al mio amor, loda i miei voti
e ne ha tentata in mio favor la figlia.
quell’imeneo cui più di amor congiunge
volontaria si sposa e l’edra al faggio.
Lesbin, non ben l’intendi. Oh quante volte
quella, che amor non vinse, ha vinto un bacio!
D’ogni beltà più fiera e più ritrosa
è un incanto il piacer. Tal l’angue appunto
a una grata armonia l’ire si scorda
né più il tosco letal spira dagli occhi.
Secondi ’l cielo il tuo desire e il mio.
Che non vince in amor lunga costanza?
che più volte schernì l’ire degli euri,
alfin rovina; e la gelata selce
di una rigida man scoppia in faville.
bench’abbia più di quercia e più di selce
duro e gelido il cor, spero che a forza
di lungo amor, di salda fé, deponga,
e l’antica durezza e il gel natio.
l’odoroso alimento unite, o voi,
innocenti pastor, vergini caste. (Il coro innalza in forma di altare un rogo, in cui tutte le ninfe gettano i loro fiori. Sacrifizio)
spargete il rogo acceso, onde alle stelle
in odorati nembi ’l fumo ascenda.
su la fiamma, che stride, io verso questo
le vendemmie cretensi, e questa verso
le leggere faville; e voi fra tanto
all’alme dee, ninfe e pastori, il canto.
son tutti i segni; ecco, la vampa è chiara
né di tetro vapor l’aria si adombra;
balenare a sinistra e quindi al volo
batter candide piume il lieto augello;
agli ultimi deliqui, il cener sacro
qual soave fragranza intorno spira.
Così ho risolto. Invan mi tenti e invano...
il tuo dovere, il grado mio? Tuo sposo
io scelsi Uranio e tu il contendi? Ah figlia!...
Padre, de’ cenni tuoi mi faccio legge.
la natia libertà. Quand’io non voglia,
vedi audacia di figlia, appena uscita
dalla tenera infanzia! È questo il frutto
delle fatiche mie? Così alla mia
venerabil canizie? E così insulti
al grado mio sacerdotal? Ti scelsi
pastor canuto ed impotente? O pure
ignobil di natali e di fortune?
Ha lui pur biondo pelo che a gran pena
sparge le fresche gote; a lui pur pasce
più di un armento e più d’un campo imbionda.
A che ardita il rifiuti? A che contrasti?
Egli t’adora pur; tu pur l’amasti.
Tutto, o padre, egli è ver; ma più non l’amo
Olà, tutto poss’io. Chi contumace
sprezzasti genitor, giudice avrai.
sul nostro arbitrio il cielo? Il genio deve
dar legge, e non la forza, a’ nostri affetti.
non fia che colpa tua, che mio tormento.
terribile, importun, tu ancora tenti
la sofferenza mia? Partiti, fuggi.
                               E che? Vinta mi credi
da un paterno comando? È questo il modo
più che una lunga servitù, ti affida?
Così t’insegna amor? Partiti, fuggi.
a sì deboli assalti; e non sì tosto
ciò che ti nega il cor t’impetra il padre.
Deh, per l’antico ardor, ninfa, mi ascolta;
che ognor ti amò, che tu altre volte amasti?
Questo è pure quel sen, questo è quel volto...
Che follie mi rammenti? Eh, che sei stolto.
Mira l’iniqua. Anche l’amor mi nega
e i giuramenti obblia. Miseri amanti!
E qual fé vi sognate in cor di donna?
Ah Cidippe infedele! Ah sesso ingrato!
La tua pena è d’amor. Lesbin mel disse
                                           Ardo per ninfa
la più ingrata e sleal che viva in queste
boschereccie capanne, albergo un tempo
d’innocenza e di fede ed or d’inganno.
ne ripetei più volte agli antri, a’ boschi;
men duri del suo cor, lo incise questo
meno degli occhi suoi dardo pungente,
dono della sua man, pegno di amore.
Non disperarti. Hai chi pietà ne sente.
benché di amor sia poco avvezzo all’arti,
il placar la tua ninfa, il consolarti.
il ciel per me grazie ti renda almeno.
V’è pur qualche pietà dentro quel seno.
degl’incendi di amor pietà tu mostri,
prendine ancor de’ miei, tanto più fieri
quanto più rara è la beltà che m’arde.
                            Che sarà mai?
                                                         Pietade
le follie degli amanti a me non fanno.
Se per Cidippe Uranio avvampa, io prendo
non per pietà ma per sottrarmi a lei
che ognor co’ pianti a frastornar sen viene
l’alta tranquilità de’ sensi miei.
non men di me fiera di amor rubella.
                 Oh dio!
                                  Non men crudel che bella.
deh, se in te alberga umanità, per quella
sacra amistà, che a me giurasti e ch’io
sin da’ primi anni a te serbai, per quelle
pietà m’impetra; o mi vedrai fra poco,
cadavere di amor, vittima esangue,
con l’ultimo sospir, l’ultimo sangue.
A duro uffizio oggi ’l tuo amor m’impegna.
non perdiam tu la speme ed io le voci.
              (Già il tutto udii). Signor, che chiedi?
Alma v’è che ti adora e tu la sprezzi.
V’è cor che per te pena e tu nol curi.
                  Troppo crudel!
                                               Troppo inumano!
(Io già sapea che la pregava invano). (A Lesbino)
(Co’ miei sospiri ancor rinforza i detti). (A Narciso)
Omai, Lesbin, più t’avvicina.
                                                      Ah, temo.
Mira, spietata, in quel sembiante impressa
la tua fierezza e la sua pena. E tanta
fede ancor non ti vince? Ancor resisti?
Hai tu pietà di chi t’adora?
                                                   Udisti?
tanto più cara a me, quanto più fiera.
La tigre ama la tigre; e a te, che sei
piace la crudeltà, piace il rigore.
                                          Ah temo un giorno
le vendette di amor, nume possente.
ha il suo poter da noi. Quasi favilla,
se alimento gli dai, cresce in incendio;
se glielo togli, appena nato è spento.
                                         Nulla il pavento.
Folle garzon, pietà di te mi prende.
Non tarderà le sue vendette amore.
con un mio sguardo a te piagasse il core.
Non ti atterir. Come l’amor depose,
l’odio ancor deporrà. Nota ho la figlia;
cangia col novo dì pensieri e voglie.
confidarsi nel tempo è duro impegno.
                                                A’ fieri assalti
vidi immobil le rupi alzar la fronte.
Qual costanza ti fingi in cor di donna?
de’ giochi usati. Io là ti attendo. Intanto
serena il ciglio e tregua imponi al pianto.
che per Narciso arda Cidippe e questa
sia la cagion che mi disprezza e fugge.
Così un premio di fede il lampo solo
di straniera beltà spesso distrugge.
Sei tu, ninfa gentil? Dove ti ascondi?
tu ad amar mi consigli? E ancor ti sembra
così vile il mio cor? Ma qual sarebbe
degna ninfa di me, dell’amor mio?
                                                                Io.
Teco io mentir? Sai pur che, grata e cara
al par di te, ninfa non trovo in queste
tu accompagni i miei passi, io seguo i tuoi;
Troppo mi sembri oggi importuna. Ah senti...
Son io ben folle a contrastar co’ venti.
                              Amata ninfa.
                                                        (Oh dio!
Si accordasse col labbro il core almeno).
lagrimosa e dolente; e qual ti turba
                            Oimè!
                                           Tu taci? E solo
con sospiri interrotti e tronchi accenti
             Nel volto mio leggila impressa.
                                     Amassi alfine...
            In linguaggio più muto il tuo pensiero,
quanto il labbro è pietoso, il guardo è fiero.
Certo amante è costei. Certo obbliata
ha la natia fierezza e di cotanta
viltà ha rossor, non pentimento! Tace
per timor d’irritarmi e più s’attrista.
cresce sepolta e maggior forze acquista.
                                     Ninfa, una volta
lascia d’importunarmi o ch’io m’involo.
forse ti chiedo amor? Chiedo che solo
Odi, o Cidippe. Uranio t’ama e langue,
Tu, che non l’ami? E chi tel vieta?
                                                               Il fato.
Quello de’ tuoi begli occhi, ove due stelle,
ruotano a’ miei disastri; e tu, spietato,
tu, che non m’ami? E che tel vieta?
                                                                 Il fato.
                                     Ama tu Uranio ancora.
                             Ei per te muore.
                                                             Io tutta
                                            Egli ti adora.
                                          Io quando in fronte
pupille più serene o più vivaci.
                                      Ma non mi piaci.
e più fiera di un angue, o crudel ninfa?
Ape che impiaghi anche col mel sui labbri.
per beltà, che ti sprezza, e vuoi, mal saggia,
seguir ciò che ragiona al cieco affetto,
Così sprezzarmi? E il soffro? E ancor non torno...
Torna, sì, torna al tuo pastor fedele.
vivrà col tuo desir, col tuo piacere.
Sarà in due cori un’alma; e tu di quella
                              Non più, crudele...
Torna, sì, torna al tuo pastor fedele.
                                          Ma non mi piaci.
Odi, oh crudel...  Ma sen fuggì qual lampo.
Tirren m’attenderà. D’uopo è gl’indugi
romper omai. Più consolato io parto,
poiché, ad onta dell’ira, in voi ben vidi,
care pupille, un balenar men fiero;
e, fra le nubi ancora e le procelle,
o del cielo di amor lucide stelle.
Su via, pastori e ninfe, insin che lieto
per le spiagge vicine erbette e fiori
va pascolando il custodito armento,
qual di voi più gli aggrada, inviti al canto.
Tirren, tempo fu già che, d’ogni cura
libero il cor, fei risonar quest’antri
di dolci carmi ed al mio suono arrise,
dal Parnaso vicino, il biondo Apollo;
qual più poss’io formar voce soave
che a terminar non vada in un sospiro?
Amor dà spirto al canto. Invan contendi.
Ecco, sen viene il giovanetto Uranio,
                                                       Or seco
potrai cantar della tua ninfa i pregi.
Se non ne sdegni ’l paragon...
                                                       Son pronto.
che già in dono mi diede il vecchio Aminta,
fia degno premio al vincitor. Noi tutti
i giudici sarem del canto vostro.
Cantiam, tu d’Eco, io di Cidippe il volto.
Lesbin principi, Uranio segua. Attento
Non più, cari, non più, di premio eguale
degno è l’emulo canto. Ambi vinceste.
Mediterò per ambi egual mercede.
ninfe leggiadre, e qui compisca il gioco;
ma d’amor pria si canti e l’arco e il foco.
Troppo son lasso. Alla vicina fonte (Si asside all’orlo della fonte per bere)
e la fatica e la stagion m’invita.
Che volto è quel che in mezzo all’acque accende
e d’insolito ardor m’empie le vene?
oh bellissimo volto! Io ti ravviso
all’arco delle ciglia, agli occhi ardenti.
fuggi amor che t’insulta. Oh dio, qual forza
entro a que’ lumi a vagheggiar ti sforza!
tu che mi parli non intesa, lascia
che sul tuo labbro un dolce bacio imprima. (Si accosta per baciarsi nell’acque)
ti bacio e tu mi baci. Ahi, l’onda iniqua
su l’avida mia bocca il bacio rompe
e dolor tu ne mostri eguale al mio. (Si ritira sdegnoso)
Deh stendi il braccio, ond’io ti tragga almeno
fuor dell’invida fonte e in seno al prato
meglio poi ti vagheggi. Ecco cortese, (Stende il braccio alla fonte)
tu mi stendi ’l tuo braccio, io stendo il mio;
mi ti toglie di novo; e tu frattanto,
che ridesti al mio riso, or piangi al pianto.
Folle! Quello son io; già mi ravviso;
quella è la bocca mia, quelli i miei lumi.
Oh portento d’amore! Oh stolti voti!
e povero mi rende il mio possesso.
Esca e focile, accendo il foco e n’ardo;
scopo insieme ed arcier, piago me stesso.
O smarrita hai la fiera o il colpo errasti
o a te spuntossi in qualche tronco il dardo,
non può lasciarti orme di doglia in viso.
potrò più sostener degli occhi tuoi
il rimprovero e l’ira? Entro a qual bosco
nasconderommi al mio rossor? Qual pace
e queste solitudini tranquille?
tu compisci ’l mio duol, vibra il tuo ferro;
               In questo cor venga il tuo stral pungente,
l’antico orgoglio e la viltà presente.
Ad altri colpi il tuo bel sen si serbi;
lo stil degli occhi tuoi che piagan l’alme.
che a impetrarti io venia, col dir che t’amo.
Sì, t’amo, o caro. Ecco il mio error. Castiga
l’ardir del core e quel del labbro insieme.
invidi più la destra a’ tuoi bei sguardi.
Eco spietata, al mio dolor tu aggiungi
la pietà che ho del tuo, pietà ch’è tarda,
poiché è tardo a scoprirsi anche il tuo amore.
che mi accoglievi affaticato in seno
e in dolce uffizio a me tergevi amica
col bianco velo i caldi umori in viso?
Forse allor che più crudo avea il sembiante,
quella pietà che ora ti nego amante.
                                                 Ninfa, in me vedi
un delirio di amor, mostro il più strano
Nell’amor tuo ti son rival. Mi struggo
Fece le nostre piaghe un sol sembiante;
sol di me stesso anch’io mi trovo amante.
                               Così non fosse. Amore
così dovea punir la mia fierezza
e le vendette sue far col mio volto.
Getta il folle pensiero. Ama a chi puoi
se il merta la mia fé, mira i miei lumi;
almeno entro a’ miei lumi ama te stesso.
Se non si placa amor, cangiar non posso
Addio, m’è forza abbandonar la vista
di quella fonte, ov’io bevei quel foco
torno alle selve e tu rimanti in pace.
Ho per rival chi adoro e son gelosa
che s’amino tra lor quegl’occhi amati.
Ove s’intese egual miseria? Oh fonte,
fonte per me fatal, tu sola e prima
cagion del mio dolor, fonte odiosa!
A te rabbia di vento, ira di nembo,
a te d’infausto augel stridulo canto
rompa i sacri silenzi; e sozzi armenti
l’antico letto a’ tuoi tranquilli argenti.
Misera! Io perdo i voti e tu frattanto
più superba ne vai del mio gran pianto.
Partirò, poiché il vuoi. Queste sian, queste
del tuo Uranio fedel l’ultime voci.
Anderò fra le rupi e dirò a’ sassi:
«Al par di voi duro ha Cidippe il core»;
ripeterò alle frondi: «Al par di voi
corron gonfi di pianto anche i miei lumi».
                                      E ancor non parti?
Tempo verrà che ancor dirai dolente,
all’avviso crudel della mia morte:
«Quanto fedel, tanto infelice amante
alla tua fede, all’amor tuo. Ricevi
questa tarda pietade, ombra adorata».
di lagrime e di fiori a sparger l’urna
e su le fredde ceneri a lagnarti.
                                      E ancor non parti?
Addio, dunque, o crudel; ma pria ch’io vada,
dell’incostanza tua, dell’amor tuo,
testimonio fedel; prendi ’l tuo dardo (Dà il dardo a Cidippe ed ella attentamente lo guarda)
che in quel tempo felice a me donasti;
armi non mancheranno ond’io mi uccida,
a uccidermi, a svenarmi il dolor mio.
ecco ch’io parto. Ingrata ninfa, addio. (Mostra partire e Cidippe il trattiene)
                              Che chiedi?
                                                      (Oimè, qual vista!
Qual rimembranza, qual orror mi turba!)
(Seco ragiona). Io parto, o ninfa.
                                                            Ah, ferma!
(Ei m’è fedele; io pur l’amai. Sprezzarlo
perché, infido mio core? In che ti offese?
(Mi guarda e impallidisce. Amor m’aita).
Io ti adorai, tu mi sprezzasti, ingrato.
Ritorni Uranio onde il cacciai. Ritorni
a questo seno. Il genitor lo impone,
ritrovar tanto amore e tanta fede?)
                          Ove vai?
                                             Lascia ch’io parta.
sdegno improvviso a tanto amor succede?
                                        Ah, non so come
                Lascio il tuo cor nel suo riposo.
Parti; ma pria donami un guardo almeno.
Ti movan questi pianti. Ah no, che indegna
son della tua pietà dopo il mio fallo.
le tue vendette, Uranio, e il mio dolore.
dardo per me fatal, mi passo il core.
Sì partirò... Ma partirò con te.
                           E tu l’amor ripigli?
                                          E più Narciso...
                                                 Omai la destra ...
                                     E non m’inganni!
l’ire depongo e mi ti stringo al petto.
fra le beozie ninfe il più bel volto,
fra le beozie ninfe il cor più fiero?
pari alla tua beltà la tua fierezza
e alla fierezza tua la pena mia.
com’esser può che tu non senta ardore,
tutta la Scizia e tutto il caspio verno;
o pur ne’ tuoi begli occhi e nel mio core,
tutto il suo foco ha consumato amore.
Alla fonte, o Lesbino, anzi alla morte. (Torna a sedersi alla fonte)
Oimè! Che volto è quel? Dove son giti
delle labbra vermiglie i bei colori?
quel dolce raggio? Ov’è il sereno e il brio
(Ei sé stesso vagheggia e duolsi e piange!)
(Come gli sviene in su le labbra il vezzo!
E gli si oscura in su la fronte il ciglio!)
Ma così vil son io? Dov’è l’antica
Spiriti generosi, in seno ancora
rintuzzatemi ’l cor. Fuggiam... Ma dove?
Fugge il cervo ferito e seco porta
la piaga sua. Come potrò d’amore
Ah, mio core infedel, poiché risolto
sei tu di amar, ama chi devi almeno.
Eco ha beltade, Eco ti adora ed Eco
sia pur la fiamma tua; ne sarò pago.
dolcissima compagna, Eco, perdona.
Vorrei né posso amarti. Ah, se non posso,
ne incolpa il volto mio, non il mio core.
Ho duol di non poterlo. Egli ti basti.
la mia morte nel volto e in sen ne sento
tutto l’orror e il mio destin mi chiama.
servi di tomba alla mia morte ancora. (Si getta nella fonte)
Oimè! Ferma, Narciso. Oh troppo lento
Lesbin, sugli occhi tuoi muor l’infelice,
dall’acque ingorde oppresso. Acque spietate,
più di quelle di Stige e di Acheronte.
delizia agli occhi ed ornamento al prato?
Certo Narciso s’è cangiato in fiore.
Tu, che spunti dal suol, fiore odorato,
nelle tue foglie il suo dolor sta scritto
dirti potrò: «Narciso è morto»?
                                                           È morto?
Morto dunque è Narciso? E il cielo iniquo
lasciò della sua man l’opra più vaga?
Ma dove son l’ossa adorate? E dove
quel bellissimo volto? A me sol tocca
                                          Eccolo, o bella,
cangiato in fior dalla pietà de’ numi.
E dalle sponde istesse, ond’ei già cade,
torna sé stesso a vagheggiar nell’acque.
dell’antica beltà l’orme primiere,
turbine irato o incauto piè ti atterri,
gli ultimi miei respiri. Oimè, perch’io
per dire i pregi tuoi, l’affanno mio?
Qual denso vel, qual fosca nube, o ninfa,
E pur ti stringo, o vita. Appena il credo,
                                      Parmi che il padre
tanta felicità che non mi fuga.
Questo sen, questo volto e qual io sono,
tutta son tua, tua sarò sempre, o caro.
O dolcissimi accenti! O gioia! O core,
tanto amor, tanta fede, è il mio tormento.
fugitive allegrezze! Oh morte acerba!
               Che mai sarà?
                                            Qual male arrechi?
l’onor di questi colli, Eco e Narciso.
ne fu presente e a me piangendo il disse.
Su, i giulivi apparati, i risi, i canti
in funeste gramaglie, in nenie, in pianti.
Ecco dal cielo aperto in bianca nube,
scender a noi Narciso ed Eco, oh quanto
la primiera allegrezza e non vi turbi

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