Metrica: interrogazione
705 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Vienna, partitura 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
ne l’aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
e di tante tue palme è nostro il frutto.
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor di Ernando. I suoi trionfi
ne chiedono un maggiore. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor. Sol per te chieggo.
                                                               O amico.
ma non senza rossor (non senza pena);
l’oggetto de’ miei voti è un bel sembiante.
                    Ernando amante?
                                                       Amor sol diede
più zelo al cor, più stimolo a la fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne amorzerò le fiamme. Ama, là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
segui, Alessandro, le vestigia; e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuorché il suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò; ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te di un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado. Il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude.
mi sia rival; ch’ e’ mi contenda e usurpi
Nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma di un re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti alor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene; e seco
rinfaccerà de l’onor suo le macchie,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e goduta beltà più non mi piace.
                                Osserverò s’è dessa.
vive il tuo sposo, invano atteso tanto
purch’altro amor non t’abbia avvinto, io sono
paga di tue discolpe e ti perdono.
Purtroppo, amico, è dessa.
                                                  In quale oggetto
                              Finger mi giovi.
                                                              O numi!
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual di a miglior clima a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto? E quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin di amarti).
                           Di segretario in grado
                                (Oh! come è scaltro!)
                                                                        Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ah! giorno fatal!) che in voi si accese
alor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente giurasti; e me presente,
Ti dovria sovvenir ch’entro sei lune
compié l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene?
                                        Non mi sovviene.
O disleal! O ingrato!...
                                          A cui favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
Ma dovunque tu vada, onde tu venga
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor? Gismondo,
tu pur non mi ravvisi? O te ne infingi?
ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
Mi ha tradita il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto. (Segue aria)
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. E già gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
a la reggia mi tolse. Io vinsi; e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro alora
fremé, si oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, presi congedo e tacqui.
                                            E poi?
                                                           Riparo
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso; e del rival germano
sarà impotente ogni furore e vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita.
Sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Cedo e consorte a te mi giuro.
                                                        Parti,
pria che il fratel qui ti sorprenda.
                                                              Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
Io fui del mio morir fabbro a me stesso. (Segue)
Pace al regno recasti e gioia a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
importuno venir non vi rattristi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
non del nostro voler. Sono gli affetti
un bene indipendente, un ben che è nostro.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra.
                                          E troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
Siati dunque comando il mio divieto.
cui né ubbidir né compiacer poss’io. (Segue aria)
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
                                        Lo sa ’l tuo core.
mentita fede, lusinghieri baci,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Eh! Taci.
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovea miglior mercede.
Non partir, Casimiro. Ei te pur chiede.
dipender io dovrò da l’altrui legge?)
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella che, estinto il genitor Gustavo,
le belle piagge e ’l fertil suol, Lucinda,
a te, che per giustizia e per virtude
non v’ha cui noto, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(Meglio è ch’io parta inosservato).
                                                               Arresta,
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’ufficio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento.
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
Che lessi? Ah! figlio, figlio. Opre son queste
degne di te? Degne del sangue, ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi.
Leggi pure a gran voce; e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       O dei!
E perché alcun de la bugiarda accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti.
mentitor mi dicesti. In campo chiuso
forte guerrier, per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
e spettatore io ne sarò.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto. (Segue aria)
già mi s’imbianca il crine e mi si aggrava,
Corto termine avvanza a la mia vita;
ma tu ’l soffri con pena; e non osando
vuoi che un cruccio mortal mi abbrevi i giorni
Indegno successor, pensi sul trono
portare il vizio. Ma gli dii son giusti
                                  A le passate colpe
tu questa aggiugni, o ciel! d’una delusa
smentirà il mio valor l’indegne accuse,
sosterrà mia innocenza e avrà propizi
ver che a Lucinda io fé giurata avessi,
saria, se pur è colpa. Degli amanti
son vani i giuramenti e spergiurato
                                              O scelerato. (Segue aria)
Non molto andrà che di Erenice in seno
strinsi, affrettai, cor ebbi a farlo e ’l lodo.
Esser misero volli e vanono è ’l pianto.
una parte del mio. Sovente io posi
il mio cor nel tuo seno; e vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
Ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
                                  Sia l’ubbidirti, o bella,
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
Ti amai nel primo instante in cui ti vidi,
tel dissi nell’estremo in cui ti perdo,
cui nel tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dove è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spigne e mi trasporta?
Non è capace il generoso Ernando
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuorché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
Senza disio, senza speranza t’amo...
ma col cor di Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio ti adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa. Io solo
se ’l nieghi a le mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante. (Segue subito Ernando)
quell’importuno e quell’ingiusto amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo trono e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, il prence erede
chiedi in moglie Erenice, il vero oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator ingiusto,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni delitto.
Macchia di onor non mai si terge; e spesso
L’onte ripara un trono offeso.
                                                       Il trono
teco mi saria scorno e non grandezza.
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice. ( Segue aria)
Mie deluse speranze, invendicato
non andrà un tal rifiuto...
                                                In traccia, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene, a me germana e di Erenice
fedele amica, il tutto intesi.
                                                   Ah! Troppo,
È tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
                    No, principe...
                                                Gismondo,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Io mi credea che di Erenice al nodo
l’amor di Casimiro; e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco.
Più feroce divien, non meno amante. ( Segue aria)
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette i’ fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi anela vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’armi al dì venturo.
                                                         Al giorno
tanto anche avanza, onde finir la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo. Ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’audacia in alma impura. (Segue subito)
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia che espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Tu non vergasti il foglio? Ignoto forse
Sposa non l’abbracciasti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorna
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice. (Segue subito)
                                       Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti,
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue,
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?)
Invan. Da questo campo ad armi asciutte
                          (Corre a l’occaso il sole
e in braccio d’Erenice Ernando è atteso).
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
No no, pugna or volesti, or pugna, or voglio.
Tolgasi questo inciampo a l’amor mio.
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile. Aggiugni a la tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
                      E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà il minor, l’aver Lucinda uccisa,
doppo tolto l’onor, torle la vita.
Padre, già ’l dissi. Un mentitore è desso.
Mentì già ’l grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda. In tali spoglie
Non sei Lucinda, no. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene e a lui m’involo).
Col celarmi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota
seppellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e raserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non d’oblio.
La notte avanza; e Casimiro, ah! solo
                               O dio! L’alma presaga
m’è di sventure e per Ernando temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
(Temo anch’io l’ire d’un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
quale acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa ne le vene il sangue?
prova quest’alma. In che vi offesi, o dei?
torbide larve... Figlio...
                                           Padre... O stelle!
                                 (Ahi! Che dirò?)
                                                                  Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, il veggo, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi ah! di quel sangue.
                                                                   Questo,
prepara pur contra il mio sen, prepara
questo... il dirò... del mio rivale è sangue,
io ne fui l’omicida. Io ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando amico.
Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi?
                                 (Io son confuso).
                                                                  Ah! Duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!)
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chieggo la tua. Lagrime chieggo e sangue.
Ti vo’ giudice e padre. Ah! Rendi al mondo,
a pro del giusto ed a terror de l’empio,
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia, ben ti è noto.
                                               A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
coglier dovea. L’ora vicina e d’ombra
ne’ tetti miei, su le mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Ahimè!... Perdona.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
Sì. Morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal de la vendetta
                                        Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’irrevocabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice. Il cor tel dica,
tel dica il guardo. Hai l’uccisor presente.
quel stupor, quel silenzio e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno).
                                                     (O destra! O ferro!)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar che hai ne le vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi l’imploro, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe; il mio supplicio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta. (Segue aria)
dispongo a sofferir mali più atroci).
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?)
                       Mio signor.
                                              Sia custodito
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti. (Segue aria)
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir già quasi è morto.
Un padre re può ben salvar un figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
                                  (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nuncio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
Tal lo dichiaro; e come re, né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
Rispetta il grado e ’l tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
Tal lo condanno. Il grado, a cui lo innalzi,
lo trova reo; nel suo delitto il trova
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Venceslao vive e tu perdesti il padre.
Muore il tuo sposo e ’l tuo rossor più vive.
Cotesta, o re, cotesta è la tua fede?
o due volte ingannata alma meschina!
or mi sovvien. Che ella si adempia è forza.
Ma la giustizia offesa? Il giuramento?
Mora il reo figlio, mora).
                                               (O dei! Che pensa!)
                                 Spenta è per me pietade?
A l’onor tuo soddisfarassi. Ernando.
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio; e fa’ che sciolto
là sia condotto ove la gioia ha in uso
di festeggiar le regie nozze.
                                                   Ah! Sire,
che nuncia io sia del lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, onde a te s’apra
                                  Eh! Non temer. Regina,
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi, Ernando? Vendicarti?
Vendicare l’amico ed Erenice?
ti voglio, Ernando. A preservar si attenda
l’erede a la corona, il figlio al padre.
diam lagrime e non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e a l’amor suo non pensi.
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Vuole il padre ch’io mora, ahi! che farò?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah! Sì. Per me cadde il fratel. Ma cadde
Volea morto il rival. Ne ha colpa amore.
se’ mia gran colpa. O di Erenice, o troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché vi amai. Sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel mi adora.
Lucinda a me? Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi;
nuncia de la mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
                        (Caro dolor). Custodi,
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato.
chieggo la pena mia, non il perdono.
non vo’ da te che l’amor tuo. Del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
Prenci, non più dimore. Il re vi attende.
l’alto voler ne intenderai.
                                               Già scordo
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon. Temer non dei.
Né sciolga un sì bel laccio altri che morte. (Segue a due)
tutta in pianto Lucinda, or tutta in festa.
Passa a lieto imeneo da feral palco
il condannato principe. E diremo
giri le umane cose instabil sorte?
Eh! D’instabilità seggio è la corte.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel pregio. Il cor vi manca
di Casimiro. Io vel porrò...
                                                  Erenice,
a te viene un amico ed un amante
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
quale a te si convien, quale ad Ernando,
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a ragionar d’amore.
né la tua fé né l’amistà di Ernando,
non dee spiacerti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte,
                            E s’egli è tal, l’accetto;
disperato è anche il mio.
                                               Tale il prometto.
                              Andiamo. Io più di un seno
ti additerò dove infierire.
                                                Andiamo.
fia che Erenice a l’amor tuo dà fede. (Segue aria a due)
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede. Impegno
ne serve a l’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
                                          Strane vicende!
Vi figura il pensiero e non v’intende.
                                   E qui ti attende il padre.
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuorché un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morir...
                                                    Eh! Lascia
Pensa solo a gioir. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                            Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
a l’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui oprar mi resta, orché la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
la vita ch’ei ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far? Che dir poss’io? Veggo i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango. O sposa,
Meco ho guerrieri; ho meco ardire; ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno;
Disperati consigli amor ti detta.
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi ti uccide.
Nieghi il nome di sposo a chi ti adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante,
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne; l’incontra; a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
Ma sappi, io pur morrò. Mi avrai ben tosto
dal ferro uccisa e dal dolor. Tu piangi?
Ti sbigottisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Crudel pietade! Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
che ti chieggo in morendo. Addio, mia sposa,
                                    Tu parti?
                                                        Addio.
la pietà di quel pianto. Andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte. (Segue aria)
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile figlio! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? A l’armi, a l’armi.
tutto ardisci, Lucinda. Apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, queste son le regie stanze.
                                                       Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che troncherà del figlio il capo, ha prima
nel sen del padre a ripassar. Che importa
da’ popoli difeso, il padre austero
custode de le leggi. Ahi! Dove andranno
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re.
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, mi agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinuncio a la vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio non placherem l’ombra diletta.
Ernando, ahi! Qual perdon!... Non so. Non posso.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora. (Segue aria)
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati di amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie, in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà, sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
i trofei del mio braccio a pro del regno.
Il Mosco debellato, il vinto Sveco
parlan per me. Non ti riccordo il dolce
vincolo di natura. Ella in te parla.
Dirti potrei che del germano ucciso
la notte è rea, più che il mio braccio. Ernando
ma rivale il credea. L’amor discolpa
Sol la maggior mia colpa è ’l tuo dolore.
se discolpe cercassi, io sarei ’ngiusto.
Sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove signore?
                                                             A morte.
Vanne ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non immiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i languori;
e insegnami costanza alor che muori. (Segue aria)
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
del figlio miserabile la pena,
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto; e ti ridono il figlio.
No. Con la tua pietà io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
mi giugni, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
Tutto promisi e tutto deggio. In onta
del mio dolor me ne sovviene, Ernando.
Di mie fatiche il guiderdon ti chieggo.
                        E che?
                                       Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi a te non deggio.
(Principe, al tuo destin scampo non veggio).
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
di acciar la destra e di costanza il petto.
già finii d’esser padre.
                                           Ah! Se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun freme. Ognun grida; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
sodisfarò, sodisfarò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re. (Segue aria)
non per viltà ma perdonai per gloria. (Segue aria)
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Doppo un fratel con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa il padre?
traetemi al supplicio; e quando ancora
sì, questo acciar trapasserammi. In pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio solo affanno, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata. (Segue aria)
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse,
Il suo grado e ’l suo amor fan le mie veci.
Di me disponi. In me le leggi adempi.
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler che regni.
far cader la tua testa o coronarla.
Mora il figlio e tu regna.
                                              Il re tu sei.
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano.
O di giusta pietà nobile esempio!
Per un figlio acquistar, lascio il diadema.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati.
Ti accolgo, amico, e tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   Sire,
la nobil salma e, per dar luogo ad altro
troppo recente è la cagion del pianto.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco. Oggi più degno
comincio a nuova vita e nuovo regno. (Segue coro)
Sì, tempo e sorte, amore e fede, invitto
ti rendano felice; e sia ’l tuo nome,
men però del tuo merto illustri, applausi,
nome d’ilarità, nome di gloria.
spezzi l’adunca falce. Immobil sieda
la fortuna al tuo piede e al cerchio avvolga
di sua instabile rota il crine errante;
e l’amore e la fé, che son de’ regni
non per timor, non da interesse astretti
ma di dover colmi e di zelo e senza
que’ bassi affetti, onde suol cinta intorno
per sua antica sciagura andar grandezza,
O voti fortunati! Ecco serena
luce a destra balena. Ecco felici
a l’impero di Carlo i giusti auspici.

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