Metrica: interrogazione
627 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Parma, Rosati, 1724 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo. (Ad Alessandro)
                                                              O amico. (Ad Ernando)
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; e se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che ’l suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tant’esporrò ma troppo altero sei.
vuol privar te di un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
nol soffrirò. Sento che m’empie un core,
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che, prima che a te, fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti allor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
                               Osserverò s’è dessa.
(Purtroppo, amico, è dessa). (In disparte)
                                                      In qual oggetto
                                (Finger mi giovi).
                                                                   (O numi).
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto e quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin d’amarti).
                           Di segretario in grado
                                (O come è scaltra!)
                                                                     Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
Giorno (ah giorno fatal!) che in voi si accese
alor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti; e me presente,
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
Non ti sovviene? Ingrato...
                                                  A cui favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottenner puoi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            (O son tradita o figne).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor? Gismondo,
Tu pur non mi ravvisi o te ne infigni?
ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
M’ha tradita ’l mio sposo o vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu!
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che ’l saperlo mi sia cagion di pianto.
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi assentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro alora
fremé, si oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
                                  E poi?
                                                 Riparo
n’avrà il fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore e vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                         Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco t’abbraccio.
                                                           Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo marital amplesso.
(Io fui del mio morir fabbro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che t’affligge?
importuno venir tosto non privi
del piacer d’una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi d’Erenice un mio comando.
Perch’Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che pur tu ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di dar mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio. Signor, per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                 Mia cara.
                                     Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu se’ re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
                                        Lo sa ’l tuo core.
e promesse d’amor vane e fallaci,
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovea miglior mercede.
volge il cielo i suoi lumi. Oggi si applaude
a’ trionfi d’Ernando. Il dì venturo
fia sacro a’ miei natali. Oggi al valore
ne avrà tutta la gloria il vostro amore.
de l’aver vinto è tuo rettaggio. Vinse
con l’armi tue, col tuo gran nome Ernando.
tu regesti la mano, io strinsi il brando.
ti convenia non meritarli, o duce,
fermo sostegno. Io da te l’ebbi e deggio
darti l’onor, poiché non posso il dono.
giunse a la regia tua nunzio straniero
                                   Venga.
                                                  (Ei fia Lucinda).
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiaggie e ’l fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(Oh dei! Fia meglio allontanarci).
                                                              Arresta,
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’uffizio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra essere di credenza. Il re l’apre e leggendola guarda minaccioso il figliuolo)
(Neghisi tutto a chi provar non puote).
(Che lessi!) Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue, ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi;
leggi pur a gran voce e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
                         Leggesti? A qual difesa
Or ora il dissi. Un mentitor è questi,
mentito è ’l ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       (Oh dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in molti pezzi la carta e poi la calpesta)
Mentitor me dicesti; in campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           T’aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
Non molto andrà che d’Erenice in seno
strinsi, affrettai; cor ebbi a farlo? E ’l lodo?
il mio cor nel tuo seno. Io vel lasciai,
perché quel d’Alessandro in lui trovai.
Deh nol cercar, bella Erenice, addio.
Altro temo, Erenice; altro sospiro.
Ancor ten priego. Aprimi il cor. Favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
Ti amai dal primo istante in cui ti vidi;
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spigne e mi trasporta?
deggio, più ch’al suo labbro, al suo gran core.
Fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
che non spira altri amori ’l tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
tanto di tua corona il bel fulgore,
la nera fiamma del tuo ’ngiusto amore.
No, principessa. A quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancor in te quel amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor non mai si terge; e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
                              In traccia appunto, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece ’l mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? Oh dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene, a me germana e di Erenice
la fida amica, il tutto intesi.
                                                    Ah troppo,
È tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
                      No, mio signor...
                                                      Gismondo,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Mi credea che di Erenice al nodo
quello di Casimiro e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco.
più feroce ei divien, non meno amante.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime ellette i’ fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è il sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che n’avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo. Ed or paventi?
Pugnisi pur, ne mirerò l’evento
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura. (Venceslao va a sedere nell’alto dello steccato sul trono)
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Fede non le giurasti? E dir tu ’l puoi? (Casimiro non la guarda)
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
Sieguasi il tuo furor; pugnisi. Io meco
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?)
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
Pugnisi al nuovo giorno. (Ernando intanto
andrò a punir di quella ingrata a canto).
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
Tolgasi questo inciampo all’amor mio.
di donna vincitor. Dammi la morte.
                      E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
Sia gloria tua l’aver Lucinda uccisa,
dopo il tradito onor, torle la vita.
Padre, già ’l dissi. Un mentitore è desso.
Mentì già ’l grado ed or mentisse il sesso. (Parte)
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
sepellir la mia pena e ’l mio rossore.
sul cor del figlio a tuo favore impegno;
nel nostro amor e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men da la tua virtù, giusto regnante,
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non d’oblio.
Gismondo, ov’è ’l mio figlio?
                                                      Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando i’ temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
(Tem’anch’io l’ire d’un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
qual acciar ti trafigge e qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma; e in che v’offesi, o dei? (Appoggiandosi al tavolino, si cuopre gli occhi colla mano. Entra Casimiro con stile insanguinato)
torbide larve... Figlio...
                                           Padre... (O stelle).
                                 Ahi! (Che dirò?)
                                                                  Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                 Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
Perfido, Ernando è morto.
                                                 E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
qui pronto... (Venceslao li va incontro e lo abbracia)
                          Ernando vive? Ernando amico!
(Vive il rival? Voi m’ingannaste, o lumi?
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo serviggio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua. Lagrime chiedo e sangue.
Ti vo’ giudice e padre. Ah! Rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror de l’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice; e la vendetta attendi
Qual i’ sia, ben t’è noto. (Si leva)
                                              A’ tuo’ grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea un de’ tuoi figli?
                                                     Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
aver dovea. L’ora vicina e d’ombre
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto. Io fratricida?
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente.
il silenzio del labbro e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno). (Si copre gli occhi col pannolino)
                                                      O destra! O ferro!
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a vuotar ch’hai ne le vene.
di te, di me, ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa; ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sopportar mali più atroci.
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?)
                              Sire, i tuoi cenni attendo.
Custodirai ne la vicina torre
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la tua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
Morirà Casimiro. (Lucinda sopraggiunge)
                                   (Oh dio! Purtroppo
Tu va’ mio nuncio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re. Di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
tal le mie nozze il fanno; e re non dee
Rispetta il grado e ’l tuo rigor correggi.
nel far la colpa e la sua colpa il trova
Rispetta ’l giusto e l’amor tuo correggi.
De la real promessa or mi sovviene.
a l’onor tuo soddisferassi. Ernando.
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio e fa’ che sciolto
sia là condotto ove la gioia ha in uso
di festeggiar le reggie nozze.
                                                     Ah sire,
che nunzia i’ sia del lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, ond’a te s’apra
                                  Eh non temer, regina;
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi, Ernando? Vendicarti?
Vendicare il tuo amico ed Erenice?
ti voglio, Ernando. A preservar s’attenda
l’erede a la corona, il figlio al padre,
diam lagrime, non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e l’amor suo non pensi.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra’ marmi ristretto? Io cepi al piede?
se’ mia gran colpa; o d’Erenice, o troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché v’amai. Sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel m’adora.
(Lucinda a me? Per qual destino, o dei?)
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia della mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
                        (Caro dolor!) Custodi,
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te ch’offesi.
                                                           Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo. Del primo
Tua nemica non più ma sol tua sono.
Merti il mio perdonarti il tuo perdono.
Prenci, v’attende il re, non più dimore.
Plachi l’ira del padre il nostro amore.
Non sciolga un sì bel nodo altri che morte.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
Cada traffitto il fratricida e ’l sangue
Nemesi sparga a la grand’urna intorno;
torni al cenere freddo e d’Erenice
strigna fedele ancor la destra ultrice,
la destra che ne fe’ l’alta vendetta.
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a ragionar d’amore.
né la tua fé né l’amistà d’Ernando,
non può irritarti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte
                            E s’egli è tal, l’accetto.
Disperato è anch’il mio.
                                             Tale il prometto.
                              Andiamo. I’ più d’un seno
t’additerò dove infierire.
                                               Andiamo,
andiamo, Ernando, e da una donna impara,
donna, amante, infelice e disperata,
a simular con il contrario affetto
vince il fiero destin con la virtute
e ad onta ancor di mille acerbi guai
divien fabro talor di sua salute.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede. Impegno
ne serve a l’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia,
                                          Strane vicende,
vi figura il pensiero e non v’intende.
Ah ben l’intende in questo infausto giorno
un amoroso padre e un giusto re.
                                 E qui t’attende il padre.
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuorch’un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morire...
                                                      Eh, lascia
pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede. (Dà un anello a Casimiro che poi con esso sposa Lucinda)
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
Padre con sì bel dono a me due volte
all’onor tuo s’è sodisfatto?
                                                 Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel meno m’offendi. (Piagne)
è ’l lasciarti, ben mio, non il morire.
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Eccitterò ne’ popoli lo sdegno;
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re m’è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi t’uccide,
nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante,
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra; a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
dal ferro uccisa o dal dolor... (Piagne)
                                                     Tu piagni?
la pietà di quel pianto. Andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? A l’armi a l’armi.
tutto ardisci, Lucinda. Apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e d’abbracciarlo
fuori de’ ceppi... Ahi dove sta? Che parlo?
Tutt’è cinta dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai né fu chi ’l guardo
temuto avria del lor feroce aspetto.
Erenice non già, ch’egual diletto
se questa unir la può di nodo eterno
al caro estinto suo consorte e quella
tutta ancor la riserba alla vendetta.
Sì sì. Muoia il crudele e pera il regno.
che quella del furor ch’all’alma forte
Sì, quelle son le reggie stanze.
                                                        Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno, dove
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re!
                                  A sol pensarvi i’ tremo,
sudo, m’aghiaccio. Io primo offeso, i’ primo
rinunzio a la vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e lieti
apparati d’amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è il mio destin.
                                                         Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti. Il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, i’ sarei ’ngiusto.
Sarò più reo, perché tu sii più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori;
e insegnami costanza alor che muori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
mercé d’alta virtù che m’avvalora
Ragionan di perdono a l’alma mia
la patria, il regno, la natura e ’l mio,
che, abbenché ucciso, là da l’altra riva
in sua eccelsa virtù costante e forte
meco l’assolve, ond’io, che in esso amai
quella più assai che le sue belle forme,
vesto mia mente d’un pensier conforme.
No, con la tua pietade i’ non m’assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
tu giugni, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Di principe perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia delle leggi io non ti deggio.
(Principe, al tuo destin scampo non veggio).
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
d’acciar la destra e di costanza il core.
                                      Oh dei!
                                                       Che avvenne?
                                                                                   Il prence...
già finii d’esser padre.
                                           Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun grida, ognun freme; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisferò. Soddisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
da temer resta o da sperar? Sospeso
a memorabil opra il re s’invia
e sospesa del pari è l’alma mia.
attonito m’ha reso il moto e ’l corso.
de la vostra possanza il vostro sdegno.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi move?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
mio solo amor, mio sol dolore, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
sembra più bella agli occhi tuoi la morte.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse;
di me disponi. In me le leggi adempi,
Fratricida infelice i’ morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, o Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ’ngiusto è un non voler ch’io regni. (Venceslao si leva la corona di capo in atto di porla su quello del figlio)
far cader la tua testa o coronarla.
Muoia il figlio e tu regna.
                                                Il re tu sei.
il popolo t’acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano. (Venceslao corona il figliuolo al suono di timpani e di trombe, eccetera)
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, novo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati.
T’abbraccio, amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte!
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
piagner l’estinto, anzi che ’l vivo abbracci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre t’annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco; oggi più degno
principio e nuova vita e nuovo regno.

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