Metrica: interrogazione
845 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Napoli, Muzio, 1714 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
ne l’aperte sue piaghe il suo delitto.
son degne del tuo nome e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto.
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi del padre, un mio succeda,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor d’Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo. (Piano ad Alessandro)
                                                              Oh amico! (Piano ad Ernando)
ma non senza rossor, non senza pena.
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzarò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che ’l suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
Nol soffrirò. Sento che m’empie un core,
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor; ma sappi intanto
che un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che, prima che a te, fui padre al regno.
Presto, presto signor...
                                          Che v’è? Che apporti?
Gran cosa, cosa grande, anzi grandissima.
                         Erenice?
                                            Oibò! Quell’altra...
                                               Oibò! È più viva
mentito sesso e coi suoi fidi accanto.
certo mi pagherà di buon contante.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
rinfaccerà de l’amor mio le fiamme,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
                                          Che far poss’io?
E ancor quell’altra avrà li miei rifiuti,
che il nuovo amor troppo mi fa felice.
Sì, che purtroppo sono. Oh confusione! (Si ritirano in disparte)
                          Che chiedi?
                                                  Osserva là.
e quell’altra è la serva in verità).
                                   (A te sen viene).
                                                                   (Oh numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove portato ho il piede,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto e quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin d’amarti).
e gran cose t’ho a dir.
                                         Resto obligato.
                           Di segretario in grado
Non la conosco in verità. (Come sopra)
                                               (Che indegno!)
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ahi giorno fatal!) che in voi s’accese
alor che le giurasti eterno amore
io sol fui testimon del suo dolore.
ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
                                  Non mi ricordo.
Non ti sovviene? Ingrato...
                                                  A chi favelli?
A te. A te. Così m’impose il dirti
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
estinguer nel mio sangue il mio dolore».
                            E del suo rio tormento (Come sopra)
                                           Non mi rammento.
(O dal crudele io son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditore, ingrato!
dimmi se mi ravvisi o pur t’infingi.
Mi ha tradito il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
mi devi dir se mi ravvisi tu.
Parti tu ancora e non cercar di più.
Ed io ti seguirò, t’ho da parlare. (Partono)
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia caggion di pianto.
Taci Erenice, il caro ben qui giunge;
testimonio fedel del nostro amore;
brama sì di goder ma taci, o core.
                            Invitto Ernando!
                                                             (Oh vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi esentò da la reggia; io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto; Casimiro alora
fremé, si oppose, minacciò; compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
stringavi sposi un maritale amplesso.
non avrà il fatto; al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco t’abbraccio.
                                                           Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a trovar pace a te, mia vita, appresso.
(Io fui del mio morir fabro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
                            Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer d’una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugl’occhi d’Erenice un mio comando.
                              Da lei ch’adori or prendi
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà, che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace;
ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di por mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale;
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba? Oh dio,
si serve amor per castigarmi; ei gode
che mia pena ora sia il suo rigore.
Di qual fallo son reo? Risponde il core
la fé mentita e i lusinghieri accenti,
le promesse in amor vane e fallaci,
Lucinda amata e poi tradita sono
la colpa mia; taci, cor mio, deh taci!
e pur Gerilda ognor m’ha seguitato.
tu sei troppo arrabbiata e non t’adulo,
non so che far per tormela d’appresso.
che mi bisogna molto passeggiare,
e così provarò miglioramento.
Molto illustre signor, come si porta?
Come la sta vosignoria illustrissima?
Come passa, signor molto eccellente?
                                    (Io non ho niente).
se non sto al largo e veggo la verdura
                                Quest’è paura.
(Ci ha indovinato). A me paura? A me?
Rispondi a me su quel ch’io ti dirò.
che dir dovrei, perché hai tu attestato
il nome di Gerilda esserti ignoto.
In quanto al nome sol, io mi ci accordo,
poiché se mal, se mal non mi ricordo
Se in Lituania amor le promettesti.
e ten partisti poi tutto piangente,
                                       Menti.
                                                      Chi mente? (Cava la spada)
(Vo’ maledir quando ne fu parola).
                  Non c’è mi par, di’, la conosci?
camina pur e mai non ti fermare».
Qui medico non v’è né medicina.
che il dirò, che in me manca la favella.
                                      Sì che sei quella.
                                         (Mi fa pur ridere).
sarai de l’amor mio, sarai del regno.
de l’aver vinto è tuo rettaggio. Vinse
coll’armi tue, col tuo gran nome Ernando;
tu reggesti la mano, ei strinse il brando.
Venga il nunzio stranier. (Alle guardie e siede nel trono)
                                                (Chi sarà mai?
Forse è Lucinda? Ah cor! che far dovrai?)
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella che, estinto il genitor Gustavo,
le belle spiaggie, il fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Vincislao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è freggio al debil sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(O dei! Fia meglio allontanarmi).
                                                              Arresta,
dir mi riman, ti vo’ presente.
                                                       (Oh inciampo!)
Costui, signor, mente l’uffizio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra di credenza, il re l’apre e leggendola guarda minaccioso il figlio)
(L’empio si turba e impallidisce).
                                                               (Oh note!)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi?) Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue, ond’esci?
Tu cavalier? Tu prence? (Scende dal trono)
                                              A che?
                                                             Rimira. (Gli dà la lettera)
son di tua man? Li riconosci? Leggi,
leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
                         Leggesti? A qual difesa
Or ora il dissi. Un mentitore è questi.
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur n’intesi.
                                                     (Oh dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in molte parti la carta e poi la calpesta)
mentitor me dicesti? In campo chiuso
forte guerrier, per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           T’aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
vorrebbe e pur non sa crederti il core;
parto non siano un dì le tue ruine,
che de’ superbi è sempre infausto il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume.
che, se cangio l’altar, non cangio nume.
a consolarmi il cor? Dimmi, che vuoi?
Molto vorrei, se il tuo lascivo amore
Non sia contro il mio amor, chiedi, avrai.
Non è contro il tuo amor. Ernando...
                                                                  Ernando,
forse vuol presso te far più dimora?
Perché l’ami, ciò vuoi?
                                           Io no, lo bramo
come fosse il mio amore e pur non l’amo.
se non è un forte amor, ti stringe a ciò?
Giuro che non è amor. Che sia? Non so.
hai tu l’anima cinta, oppresso il core;
                                         No, non è amore.
non sia contro il mio amor, chiedi ed avrai.
Sempre mi par d’aver Gerilda innanzi
che si deve pugnar con donna imbelle.
ma la voglio ferir tra pelle e pelle. (S’incontra con Gerilda)
per farmi rattoppar certe pianelle.
                                       Un po’ bel bello.
e l’esserti d’Elisa innamorato?
se non importa, molto importa a me.
e chi di voi vittoriosa resta,
sarà mia sposa e allor farem la festa.
E tu fuori vuoi star con la tua pace?
che nessun di noi due abbia la morte.
deciderà una lotta alla francese.
Sempre si possa far simile guerra;
non v’è altro mal che dare un bagio in terra.
imponerà le leggi al perditore.
Fortezza non ci vuol, basta destrezza. (Seguitano la lotta e Gildo si leva di pianta col piè sinistro)
che in altro caso io non lo movevo.
                                    (Confuso io sono). (Seguitano la lotta e Gildo cade)
Più non resisterai a questo braccio.
la lotta alla francese e ancora Elisa.
che in fare a lotta io ti vo’ dar lezzione.
Tu puoi parlar per una settimana,
che non voglio più lotta alla francese
che lungo lungo in terra già mi stese.
prender le leggi della vincitrice.
Tutto farò ciò che il tuo labro dice.
Ascoltami. T’impongo e ti comando
che sempre che mi senti nominare
E se d’Elisa parlerò giammai,
di quella tu di’ mal ma male assai.
                                                   Ho già compreso.
Non molto andrà che d’Erenice in seno
strinsi, affrettai, cor ebbi a farlo; e ’l lodo?
il mio cor nel tuo seno, io vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
ch’ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice; altro sospiro.
Ancor ten prego! Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gl’occhi miei che il cor t’adora.
a favor d’Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
T’amai dal primo istante in cui ti vidi;
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor d’Ernando.
Dov’è virtù, dov’è amistade in terra,
dove il furor mi spinge e mi trasporta?
deggio, più che al suo labro, al suo gran core;
fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
Senza desio, senza speranza t’amo...
ma col cor d’Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio t’adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa, io solo
se ’l nieghi a le mie voci, al tuo sembiante.
Vanne. Ti credo amico e non amante.
mia beltade, io compiango i tuoi trionfi.
tua vittoria detesto, ogn’altro onore;
né ti chiedo trofei dopo il suo core.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovinezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è raggione e non vendetta.
Cancella il pentimento ogni gran colpa.
Macchia d’onor non mai si terge e spesso
                                Io, o Casimiro?
                                                              E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
che addosso non mi trovo un pelo asciutto.
che li fece il mio amor, sprezza l’ingrata?
e sarà d’altro sposa in questo dì.
Come? Sposa Erenice? Oh dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
si stringe il nodo ma con chi non so.
Così vicina è ancor la mia sciagura?
È tempo, sì, di vendicarmi, iniqua!
                    Vedi, signor...
                                                Non più,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Non parlerò. (Straggi prevedo e lutto).
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette io fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta ore di pena.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo; ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura. (Vincislao va a sedere in trono)
qual ti debba chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Dimmi, di’, Casimiro. Ignoto il volto
Amor non promettesti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta raggion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
                                      Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti?
la fede vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue,
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, all’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?) (In atto di partire, Lucinda lo trattiene)
No no, da questo luogo ad armi asciutte
                          (Corre a l’occaso il sole
e in braccio ad Erenice Ernando è atteso).
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi questo inciampo a l’amor mio). (Segue il combattimento in cui Casimiro guadagna a Lucinda la spada)
chiaro agl’occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vil, ma generoso e forte
ne le perdite mie restami il core.
non godrai lungamente, o traditore.
le lituane spade empier di stragi
senza onor, senza fede e senza regno.
mi tacci, o re; la mia ragione, il giusto
parlan su questo labro e, se tu nieghi
farò le mie vendette. Ho avvezza anch’io
la fronte a la corona, il piede al trono,
so punir, so regnar, Lucinda io sono.
Lucinda? (Scendendo dal trono)
                     Eh! Padre, un mentitore è desso,
mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda, in tali spoglie
Non sei Lucinda, no, confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene, a lui m’involo). (Parte)
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
                                            A te poc’anzi,
sire, parlò Lucinda, augusta erede
e del suo grado esser gli accenti indegni.
Or taccia il regio labro e parli solo
per implorar giustizia o almen pietade
di Lucinda infelice il pianto e ’l duolo.
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men da la tua virtude, alto regnante,
attender non potea Lucinda amante.
Sensi d’un re, non vi perverta amore
ogni pietà da me vada in oblio
e con la destra emendi il giuramento
o paghi il sangue suo del fallo il fio.
son donne grandi allor che non han gonne.
Fan da brave, da fiere e impertinenti,
sono costrette poi d’andar di sotto.
Così è stato in Lucinda nel pugnare,
così sarà in Gerilda a lungo andare.
Cosa sarà in Gerilda a lungo andare?
e fra di noi godremo eterna pace.
O bene o mal che tu ti porterai,
pietosa o cruda ancor mi troverai;
unisci ai miei voleri ancora i tuoi.
                                            Dimmi per ora,
                                           Ascolta, ascolta.
Andare in corte e accendere li lumi.
I lumi? No, che molto è presto ancora,
non far questo giudizio temerario,
che fanno i tuoi pensieri un gran divario.
No, certo non m’inganno questa volta.
T’inganni certo. Addio, men vado.
                                                               Ascolta.
sai chi son? Le candele e i candelieri.
Va’ dunque, va’; non voglio più fermarti.
So che Gerilda non ti sta più in mente.
(Il malan che mi dia). È vero, è vero. (La saluta)
Non ti vorrei, ben mio, no, disgustare.
mi rende in seno palpitante il core;
togliendomi dal sen la cara calma,
spasimi ed agonie dispensa a l’alma!
da me partì, non faccia la frittata,
Gildo, dov’è il mio figlio?
                                                Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
Gildo, chiamisi tosto il duce Ernando.
(Temo anch’io l’ire d’un amor feroce). (Parte)
e l’affanno e ’l timor; qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
quale acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa ne le vene il sangue?
prova quest’alma; e in che v’offesi, oh dei? (Appoggiandosi al tavolino si cuopre gl’occhi con la mano. Entra Casimiro con stile insanguinato)
                                           Padre... (Oh stelle!)
                                 (Ah! Che dirò?)
                                                                Rispondi.
mancan le voci; attonito rispondo).
Nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                 Questo...
prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
                                                   E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando, amico.
(Vive il rival? Voi m’ingannaste, o lumi,
                                 Io son confuso.
                                                              Ah, duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo serviggio, o sire,
così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua, lagrime chiedo e sangue;
ti vo’ giudice e padre. Ah! Rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror de l’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia ben t’è noto.
                                             A’ tuo’ grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa ove l’oggetto è pari.
piacque ’l pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
a me recar consorte il primo amplesso
egli dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, sulle mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Aimè!... Perdona
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo. Hai l’uccisor presente.
il silenzio del labro e più di tutto
de la stragge fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(O destra! O ferro!) (Si lascia cader lo stile dalla mano)
                                       (Miserabil padre!)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar ch’hai ne le vene.
di te, di me; ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è il cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplicio è giusto,
io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci!)
Custodirai ne la vicina torre
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la tua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando, un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re ben può salvare un figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno,
il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo. (Lucinda sopragiunge)
                                  (Oh dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
tal lo dichiaro e come re né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
rispetta il grado e il tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
tal lo condanno. Il grado, a cui l’inalzi,
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Vincislao vive e tu perdesti il padre.
muore il tuo sposo e ’l tuo dolor pur vive.
Questa, o regnante, questa è la tua fede?
oh due volte ingannata alma infelice!
or mi sovvien. Ch’ella s’adempia è giusto;
ma la giustizia offesa? E la mia fede?
                                               (Oh dei! Che pensa?)
                             Spenta è per me pietade.
Regina, il pianto affrena. A la promessa,
a l’onor tuo sodisferassi... Ernando.
                              Io l’ubbidia con pena.
                                  Eh, non temer, regina,
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
Ma prepara il tuo core ardito e forte
a’ nuovi assalti di variabil sorte.
                                            Ah no, regina,
sempre nel suo dover salda è la fé.
non ti turbin le gioie; ecco vicine
che d’imeneo fan strepitar le tede.
                                 E pure il cor nol crede.
nel sen de l’implacabile Erenice.
                                  E pure il cor nol dice.
che degl’amanti sei dolce conforto,
che mi conduca dei contenti al porto.
che tant’amo e sospiro, a te vengh’io,
mia speme, mio piacere e mio desio.
Lodato il ciel! Con queste vesti addosso
infine, infin mi piace più la vesta.
e scoprirò s’egli mi sia spergiuro. (Spegne li lumi che stanno sopra il tavolino e siede sopra la sedia)
morto ancor si rammenta il mio bel nome!
Non so. Un certo giovin forastiero
ferendo disse: «Per la destra mia
questo colpo Gerilda a te l’invia».
                                  In mezzo al petto.
                                     Tutta, oimè! mi bagna.
Credo che per lo fianco ancor risponda.
Vado, ben mio; ma non morire, aspetta.
                         Oh Gerilda maledetta!
Niente, niente; un pilastro m’ha bagiato. (Parte)
che ancora per Elisa ei sente amore.
e di sua infedeltà vuo’ vendicarmi. (Si cuopre il viso con il fazzoletto)
scuopriti il volto, Elisa, anima mia.
non son l’anima tua, non sono Elisa.
(Ho rabbia e pur non so tener le risa).
Se versa sangue? Vuoi ch’io scopra il volto?
Guarda, osserva crudel. (Pur ce l’ho colto).
(Qui ripiego ci vuol, mi fingo stolto).
che dai fulmini tuoi voglia splendore.
illumina e disface ogni palazzo.
                                                (Al certo è pazzo).
No no, non vo’ giocar; dico che tutte...
            Non gioco, no; sentimi due...
Quattro. Venga da ber, ch’ho guadagnato.
Vieni pur meco ch’io ti pagherò.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel freggio. Il cor ti manca
di Casimiro. Io vel porrò. Lo attendi
il tuo pallido orror sarà più grato.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
qui d’intorno t’aggiri, ombra insepolta,
tu ricevi i miei voti e tu gli ascolta.
Ernando a te consacra, alma diletta,
e sarà gloria mia la tua vendetta.
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a raggionar d’amore?
né la tua fé né l’amistà d’Ernando
non può irritarti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte
                            E s’egli è tal, l’accetto.
Disperato anch’è il mio.
                                             Tale il prometto.
                              Andiamo. Io più d’un seno
t’additerò dove infierire.
                                               Andiamo;
fia ch’Erenice a l’amor tuo dia fede.
L’opra illustre compisci, anima amante,
e già che la speranza a te vien tolta
la gloria tua, non la tua brama ascolta.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Ch’io mora? E tanto grave è il mio delitto?
Ah sì! Per me cadde il fratel; ma cadde
Volea morto il rival; n’ha colpa amore.
sei mia gran colpa. Oh d’Erenice, oh troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché v’amai; sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel m’adora.
Lucinda a me? Per qual destino, oh dei?
Secondi amor propizio i voti miei.
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia de la mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labro tuo morte non è ma vita.
                            (Caro dolor!) Custodi,
                               Che cangiamento è questo.
                              Da te che offesi...
                                                               Ingrato!
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo; del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
che non sia inganno il mio gioir?
                                                             Ti accerti
                                    Scordo già tutti,
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon, temer non dei.
Il re v’attende, io vi precedo. (Parte)
                                                       Andiamo.
Né sciolga un sì bel laccio altri che morte.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede. Impegno
ne serve all’apparato e le festeggia.
di giudice e di re sento il rigore,
e a soffrir tanti assalti il cor non basta.
tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
                                          Strane vicende,
vi figura il pensiero e non v’intende. (Parte)
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuor che un tal dono. Abbilo a grado, il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morir...
                                                    Eh lascia
pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede. (Dà un anello a Casimiro che poi lo pone alla destra di Lucinda)
                           Mio ben.
                                              Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
a l’amor tuo si è sodisfatto?
                                                   Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai. (Parte)
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re. Così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi;
se mi sei più crudel, meno mi offendi.
E tu, che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
la vita che ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far? Che dir poss’io? Veggio i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango. Oh sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno,
ch’esser può mio delitto e tuo periglio;
il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
serbi il nome di figlio a chi t’uccide,
nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante,
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua, vanne, l’incontra; all’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
dal ferro uccisa o dal dolor. Tu piangi?
Tu impallidisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
che ti chiedo in morendo. Addio, mia sposa,
                                    Tu parti?
                                                        Addio.
la pietà di quel pianto; andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui il pianto? A l’armi a l’armi.
tutto ardisci, o Lucinda, apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco, già parmi
di dar vita al mio sposo e d’abbracciarlo
fuori di ceppi... Ahi, dove son? Che parlo?
Per seguitar la finta mia pazzia
che Gerilda credesse esser io donna;
e, se vedrò ch’abbia di me pietà,
e mi farò del tutto perdonare.
Gildo, coraggio, su, portati bene.
Oh Gildo miserabile e infelice!
Tu chi sei che qua vieni, ove non lice
ad alcuno venir quando balliamo?
ch’io sento del tuo mal somma pietà.
alla voce sottile e alla gonna (Con voce finta)
tu non conosci ancor ch’io sono donna?
Se vuoi ch’io creda ciò, la speme è vana.
Nol credi? No? Tu chiama la mammana.
che fuor di me mi porti il troppo affanno
e su l’ingannator cadrà l’inganno).
                                            No, che non sono.
che m’ha abbagliato de’ tuoi lumi il chiaro.
(Oimè! Mi par che questa parli sparo).
e dammi Gildo mio per carità.
ma Gildo a ritrovar vanne tu stessa.
Hai di bisogno, poveraccia te,
di mastro Giorgio molto più che me.
perché al veder sei matta più di me.
Tu il matto solo sei, non io la matta.
per discoprir, come t’ho già scoperto,
che ingannar mi volevi, empio, barone.
e in tutto mi vedrai tutto mutato.
to’ ch’io possa morir. (Fra cent’altr’anni).
più non poss’io mangiar (veleno e tosco).
non poter bere più (dell’acqua schietta).
                                 Fido e amoroso.
Io ti perdono e tu sarai mio sposo.
Se dunque esser degg’io il tuo marito,
vo’ che prima i capitoli stendiamo
e con chiarezza noi facciamo i patti.
ognun dà fuor la mercanzia ch’ha in casa.
Tua dunque sia tutta la robba mia.
E la mia robba ancor tutta tua sia.
Tutta è cinta dal popolo feroce
la sarmatica reggia; ognun la vita
Teco fra lor passai né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
cerco vendetta e non infamia.
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi! Dove andranno, dove
misera patria e miserabil re!
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, m’agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio a la vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi gioie sognava e ne li figli
oggi devo morir. Itene e i lieti
apparati d’amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Vincislao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ingiusto.
Sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signor?
                                                            A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori
e insegnami costanza alor che mori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio;
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietà io non m’assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
tu giungi, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del principe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi io non ti deggio.
Principe, al tuo destin scampo non veggio.
                             Oh dei!
                                              Che avvenne?
                                                                          Il prence...
                                           Oh non è questo.
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato;
gl’hanno rotto li ceppi e nel tumulto
dover, pietà, legge, natura, a tutti
sodisfarò, sodisfarò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
non per viltà ma perdonai per gloria.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma, qual furor vi muove?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traetemi al supplizio o questo ferro
trafiggerammi. E tu datti alfin pace,
mio solo amor, mio sol dolor, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
tu mi amasti? Tu mi ami? Ahi fiera sorte!
E vuoi lasciar la sposa tua fedele
per incontrar con gloria tua la morte!
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto ’l mosse;
di me disponi; in me le leggi adempi,
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio ribel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque (Va sul trono)
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro delle leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re, mi troverà natura.
                                (Ancor non lo comprendo).
Qual re avesti, o Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Vincislao si cava la corona e la vuol porre al figlio)
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei.
il popolo t’acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai colla tua mano.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue publicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gl’odi privati.
Ti abbraccio, amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   Oh sorte!
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che ’l vivo abbracci.
nell’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.
Noi che farem? Cospetto del demonio!
Ancor noi concludiamo il matrimonio.

Notice: Undefined index: metrica in /home/apostolo/domains/apostolozeno.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8

Notice: Trying to access array offset on value of type null in /home/apostolo/domains/apostolozeno.it/public_html/library/opera/controllers/Metrica/queryAction.php on line 8