Metrica: interrogazione
684 endecasillabi (recitativo) in Lucio Vero Venezia, Pasquali, 1744 
l’anima abbandonata. Assai donasti
al tuo genio pudico, all’ombra illustre
del tuo estinto amator né ancor tuo sposo.
Solo nel mio dolor sta il mio riposo. (Ad un cenno di Lucio Vero si allargano i rami industriosamente intrecciati e si scopre una mensa lautamente addobbata, seguendo una improvvisa illuminazione di tutta la scena)
di questo ciel fregio più raro, e a questa
lauta mensa real meco ti assidi.
al destino di Roma e agli astri infidi).
in questi di Lieo colmi cristalli
dolce ardor, dolce foco a voi presento.
                                                 Tu, dal cui labbro
canta l’altrui beltà, canta il mio ardore.
(Sa ch’è un inganno e pur ne gode il core).
Regina, a ber t’invito; e tu mi porgi
pien di greca vendemmia il nappo aurato.
                                  (Amor m’assista e il fato). (Aniceto prende il bicchiere da Vologeso e lo presenta a Lucio Vero)
ti serve di coppier. Bevi, o regina.
Troppo è l’onor; né a me tua schiava or lice
                                    No, Berenice. (Vologeso prende furioso il bicchiere di mano a Berenice e lo gitta a terra. Lucio Vero si leva dalla mensa e si avanza verso di Vologeso)
più dovevi temer. Cesare, è tosco
e sua pena divien ciò che da un mostro
liberarla dovea. T’assolve il caso
dall’odio mio. Perdei la mia vendetta.
più la sventura mia che il mio delitto.
temerarie hai le voci e grido al nome
dall’ire mie, dalle tue colpe attendi,
Qual sei? Che cerchi? Ove ti spinge un cieco
impeto di furor, genio di morte?
Uom, non so ancor se disperato o forte.
a te, a Roma nemico, altro di grande
non ho che l’odio mio; toglimi questo,
son nome ignoto, ombra insepolta i’ vivo.
meditai le vendette. A lui togliesti
né ti bastò. Nella sua sposa, in quella
ch’è sua dolce metà, più fiero insulti
alle ceneri sue. Temi i tuoi numi;
temi l’ombra real; temi il mio esempio.
Non mancan mai pene e nemici a un empio.
                                   Ferma, Aniceto.
                                                                  O dio!
In carcer cieco, a più maturo esame
ma non tutta è punita. Uom vil non puote
solo, schiavo ed inerme osar cotanto.
che ancor del colpo era mio solo il vanto.
lieta a goder. Vieni, o regina.
                                                      Augusto,
troppo ho l’alma in tumulto. A miglior tempo
                                       Vieni e t’assidi.
Lunge il dolor, questo di gioia è tempo.
                                      Niso.
                                                  Che fia?
m’hanno ad onta del cor scelta in consorte).
sia destino o ragion, stretta in ritorte).
Donna sì illustre, onde l’impero e Roma
avida è de’ tuoi sguardi.
                                              Ecco il primiero
                                           Or son felice. (Si parte)
                          In che giovar ti posso?
fa’ ch’io parlar possa un momento, e sola.
Lieve uffizio m’imponi. A’ cenni tuoi
                                       Ad ubbidirti or vado.
Tolto è il maggior de’ mali. A me si rende
ciò che piangea. La cara vita è salva.
Vive l’amato sposo e, in onta ancora
sento l’alma tranquilla e asciutto il ciglio.
son le spiagge fiorite, ameni i colli!
ti allontana dal Tebro? A che de’ venti
t’espone all’ire il genitor sovrano?
signor, de’ tuoi trionfi. A che sì a lungo
Roma invidi il suo eroe? Là fosti atteso
non dirò dal mio cor. Teco egli venne.
Pugnò coll’armi tue, co’ voti suoi,
testimonio fedel che la tua destra
emulava il poter degli occhi tuoi.
era ancora a temersi; il mio soggiorno
ed a’ Parti è terror. La man che i vinse
gli spaventa vicina; e l’Asia doma
la pace impara anco a temer di Roma.
qualunque sia l’alta cagion, tu quella
del venir nostro attendi e tu d’Aurelio,
ch’è tuo cesare e mio, le leggi ascolta.
a te vengo, o signor. Sua figlia è questa,
la cui man ti fa cesare e t’innalza
che ne interruppe il nodo. Ella è compiuta.
maturo è il tempo. Oltre del sol novello
più non lice tardar. Cesare, Lucio,
qual d’ambo i nomi a te più aggrada eleggi.
o rendi il lauro o serba il patto e reggi.
è colpa in chi è vassallo. E tempo e luogo
sceglier dovevi e favellar più cauto.
tutto all’amor di chi vien teco or dono;
ma sappi che tuo cesare anch’io sono.
(Finger mi giovi). A te, mia sposa augusta,
meglio noto il mio cor. Tu vieni intanto
de’ miei trionfi ad ammirar la gloria.
tua spettatrice insieme e tua vittoria.
Affetti di Lucilla, io vi compiango;
cesare vi tradisce. Ho sol già letto
per voi dentro a quegli occhi odio e dispetto;
                             O me felice!
                                                      O vista!
date luogo, o custodi; e che improvviso
non ci sorprenda alcun, cauti attendete.
tu in Efeso? Tu vivo? E ti rivedo?
dopo un anno di pianti e di sospiri,
                              Giove, eterna...
                                                            Un sì bel laccio.
la serie de’ tuoi casi. I miei palesi
l’affetto altrui, la mia costanza ha resi.
il destino dell’Asia a quel di Roma,
tutto piaghe anch’io giacqui. I miei più fidi
trassermi esangue e fui creduto estinto.
Fu lungo il male e periglioso. Alfine
Intesi allor te prigioniera; e quasi
fece il dolor ciò che non seppe il ferro.
Berenice cattiva e piansi ancora
                                 Ma fosti ingiusto.
Pieno di gelosia, d’ira e d’amore,
Aniceto mi resi e nella reggia
che ne’ primi anni miei fu mio diletto.
Ora son fra catene e son felice,
un congedo e un amplesso a Berenice.
è misero piacer. Se ad ispezzarle
                                               Il tuo rischio
Tenta altra via, se mi vuoi salvo. Questa
per te inutile fia, per me funesta.
                                          Costui si renda
                                       O dio! Pur breve
Addio; se puoi, mi salva, o Berenice.
Agli attesi spettacoli sol manca
Là cesare ti attende. Ecco i custodi.
servo nel tuo voler. M’apri il tuo core.
(Secondi il ciel ciò che mi detta amore).
Nacque parto e vassallo a Vologeso
quei cui spronò poc’anzi un cieco zelo
al delitto infelice. A lui dee molto
l’Armenia, il re mio padre e Berenice.
Giusta è ben la sua pena e giusta è l’ira
del tuo signor. Pur salvo il bramo.
                                                              Ei troppo,
                          Ma reo per troppo zelo.
può nel cesareo cor? Sol che tu il chiegga,
a te fia la sua vita un facil dono.
e a te serbo l’onor del suo perdono.
tu del reo, tu del misero m’impetra
                              Cedo, regina.
Non avrai sparsi inutilmente i voti.
                                        Se il cor d’augusto
ti sarà debitor del mio riposo.
A che tanta pietà? Cotanto affanno
fa voti una regina. Illustre il rende
Ma qualunque egli sia, con la sua morte
tolgasi d’un inciampo o d’un sospetto
Lucilla è la mia vita; e tutto perdo
s’ella è sposa d’altrui. L’oggetto amato
e poi, chi sa? l’uomo a sé stesso è fato.
del romano poter. Questa è l’arena,
a fronte di lioni, a petto d’orsi
lotta il reo colla morte; e de’ suoi falli
soffre il gastigo o vincitor ne ha gloria;
suo fregio e sua salute è una vittoria.
duro e crudel, genti romane, in petto,
se vi avvezza alle stragi anche il diletto?
                                              A’ giochi, augusto,
                                     Andiamo, o belle;
resti libero campo all’altrui pena. (Tutti al suon della tromba entrano per la gran porta, che poi si chiude, e vanno a prendere il loro posto nell’alto. S’apre poscia una porta minore al lato della scena e n’esce Vologeso in abito di gladiatore)
Alla pubblica vista, in vile ammanto,
dove son tratto? Io nell’arena? O stelle! (Alza gli occhi e vede Lucio Vero, poi Berenice)
cesare, i re condanni? E tu spergiura,
giudice e rea della mia morte? (O pena!)
tua compagna al supplizio. Or di tua morte
non sarà Berenice. Omai satolla,
                                        Olà, custodi...
                             Ecco la nostra morte.
                      Io prima...
                                            (Ah, che far posso?) Prendi,
Vologeso, il mio ferro e ti difendi. (Lucio Vero gitta la sua spada a Vologeso, con cui va incontro alla tigre. Accorrono ad un cenno dell’imperadore i custodi de’ giuochi che finiscono d’ucciderla. Lucio Vero scende dall’alto e poco dopo rientra per la gran porta dell’anfiteatro, seguendolo Claudio, Lucilla, Aniceto e le guardie)
l’ingorda belva e l’idol mio serbate.
                             Andiam, Claudio. Io son tradita.
                              E tu ne uscisti illeso?
E il zelo tuo quasi mi rese ingiusto.
senza rivale era felice augusto.
fosti reo del tuo rischio. Un cieco obblio
Ecco a te, Berenice, il salvo e il dono.
                                      Andiam, coteste
                                      Lascia che prima
ferro che già mi vinse, or mi difese.
La tua sola virtude illustre il rese.
                                        (E gelosia mi rode).
di più ancora vedrai nel nuovo dì.
perder impero o pace. Oggi convienmi
nella mia destra assicurar lo scettro
ma lasciar Berenice, o dio! non posso.
Troppo è l’impero, è ver, ma per mia pace
troppo il bel di quegli occhi ancor mi piace.
Claudio, che mi consigli? Il cor t’apersi.
più che all’ossequio mio, chiedi ch’io parli,
con libertà miei sensi. Un buon consiglio
se si dà con timore, il meglio tace;
se si dà con ardir, si fa periglio.
Parla né dubitar che il dir m’offenda.
Bella assai la tua fiamma io miro in fronte
splender a Berenice. E degni sono
che un monarca gli adori i suoi begli occhi.
Ma, signore, ella è sposa, ella è regina.
altro e più vasto impero il ciel ti serba.
dell’imperio di Roma, anzi del mondo.
Il consiglio è fedel ma troppo è crudo.
Pietosa è crudeltà, quando ella giova.
Deh lascia una beltà che te non cura,
una beltà ch’è d’altri e il cui possesso,
Il regno o lei; né già sperar che Roma
soffrir ti possa una straniera al fianco,
d’una ch’è del suo sangue. A tant’oltraggio
si risente e ne freme. Essa perduta
ha ben la libertà, non il coraggio.
                                    Io tento, Claudio, tento
uscir di servitù ma poi non posso.
Scuoto i miei ceppi e più ne sento il peso;
e più l’incendio cresce. Il mio cordoglio,
quanto ha più di contrasto, ha più d’orgoglio.
spiran l’aure più molli; e più giocondo
monarca invitto, a’ tuoi sponsali il mondo...
Tu sol mesto passeggi? E sol tradisce
le tue, le nostre gioie il tuo dolore?
Se perdo Berenice, io perdo il core.
perder ciò ch’è già suo? Che gli è più caro?
Cesare, a chi può tutto, il tutto lice.
                                         Taccia e ubbidisca.
                                             La fama?
                                                                 Al volgo
non lice giudicar l’opre de’ grandi.
dell’ubbidir tocca la gloria a noi.
che qui sola l’attendo. E tu, Aniceto, (Niso si parte)
consiglier del mio cor, vanne a Lucilla;
dille che un altro amor mi toglie a lei
e, se amarla potessi, io l’amerei.
s’altra beltà più che la sua mi piace,
soffra il mio amore e il mio destino in pace.
che in tal luogo, in tal ora io sol ti attenda
Certa di tua virtù, temer che devo?
Qui dove più gentil l’aura scherzando
par che ragion faccia a’ miei dolci ardori).
al cui destino ogni mio sguardo è legge,
da’ miei sponsali una che venga a parte
e del mio letto e del mio trono attende.
nodrir per Vologeso affetto e fede.
Obbligo mel comanda e amor mel chiede.
Pur se al tempo rifletti in cui lo amasti,
se a quel che ti destina un cor monarca,
è costanza se ’l lasci. Alle tue chiome
il diadema latino e a te riserbo
d’augusta insieme e di consorte il nome.
gran cose esponi e assai maggior ne tenti.
siamo, tu di sovrano ed io di serva,
a te tutto far lice, a me soffrirlo.
Ch’io t’inganni, regina, e ch’io t’offenda?
E chi non sa che sì bel giorno è scelto
parte del soglio mio, se ancor non ebbe
parte mai del mio cor. Ben da quell’ora,
da quell’ora fatale in cui ti vidi,
Cesare, io molto udii; tu molto hai detto; (Si leva)
al mio ossequio donai, non al tuo affetto.
l’orecchio empirmi, è nome vano, è colpa,
Tutto il mio cor, tutta quest’alma e tutti
gli affetti miei son suoi. Diadema e trono
dividerli non può dal caro oggetto.
s’anche fosse maggior, non deggio amarlo;
con cui darlo tu puoi, so rifiutarlo.
Un cieco amor troppo ti rende audace. (Si leva)
Virtù è talor l’audacia stessa.
                                                      Ogni altra
Più dell’ira, il tuo amor mi fa spavento.
chi può farsi ubbidir, benché ti preghi.
Non ti chiedo il tuo onor; chiedo il tuo affetto;
potrei chiederlo augusto e il voglio amante.
con la tua crudeltà. Qualche momento
dono ancora al tuo amor, dono al tuo sposo;
pende la tua grandezza e il mio riposo.
mostro crudel. Sposo, adorato sposo,
amerò, sinché viva; e se la morte
d’un affetto leal non tronca i nodi,
più casta amante e più fedel consorte?»
sposa, de’ nostri mali. Ancora in noi
e tal che meritar può gli odi suoi.
suo rimprovero e scherno. Alfin stancarlo
può sofferenza e disarmarlo ancora.
incontrai le sciagure. Una v’è alfine
che desta i miei timori e li discolpa,
il vederti d’altrui. L’empio tiranno,
ciò che per me sperai, chiede il tuo affetto;
dar fama alla mia morte e al suo diletto.
sol può farti infelice, ei s’arma invano,
crescono i mali tuoi, cresce il mio amore.
benché servo tu sia, benché depresso.
Non amai la tua sorte; amai te stesso.
                               Un fermo cor. Rinforza,
Sarò qual fui, qual più mi brami, o caro;
e mai dall’amor tuo, dalla tua sorte
non potrà dilungarmi altri che morte.
Ma cesare il potrà. Sia Vologeso
chiuso in cieca prigion. Niso, tu guida
                                             Intesi.
Se a morir ci condanni, almen permetti
                      Ho risoluto e così voglio.
un vincitor monarca o un vinto orgoglio.
vado forse a morir. Sa il cielo, o dio!
se più ti rivedrò. Questa è la sola
morte crudel, di cui temer poss’io.
Speriamo, anima mia. Non piaccia a’ numi
che moiano così fiamme sì belle,
                                     Andiamo.
                                                          Iniquo.
                                Mia cara, addio.
                                                                Tu parti?
Avea cor per morir, non per lasciarti.
              Sposa, ove vai?
                                            Dove, o consorte?
                            Ahi Vologeso!
                                                       A morte.
Se con infausto avviso, o principessa,
io ti vengo a turbar, cesare incolpa.
                                              Il dirti... O dio!
                                            Qualche momento
l’aspra necessità d’un fier tormento.
(Oimè!) Vo’ che tu parli o l’odio mio...
Questo solo io temea con l’ubbidirti.
                                               Dirti che deve
e sposar Berenice. Amor lo sforza...
Berenice sposar? Vanne. Nol credo.
Va’ né più osar d’offrirti agli occhi miei.
                   Ah, Claudio, or ch’è perduto il grado,
il titolo è di offesa e di tormento.
Così cesare vuol col rifiutarmi.
scenda ancora dal trono. Oggi, tel giuro,
oggi augusta sarai. Tutti possiedi
dell’esercito i cuori e della plebe.
Questo ingrato una volta ancor si tenti;
e ciò che amor mi toglie, amor mi renda.
Poi se le indegne fiamme ei non ammorza,
ciò che nega all’amor, ceda alla forza.
Qui mi si guidi il prigionier nemico.
                     A udir dalla tua bocca istessa
l’offesa che mi fai nel tuo rifiuto.
mi difesero i tuoi. La colpa udisti.
Sfoga pur l’odio tuo; dimmi spergiuro,
ingrato, traditor, nomi che tutti
merito l’ire e mi condanno io stesso.
No, cesare, ti assolvo; e vieto al labbro
non vo’ accrescer l’orgoglio a un infedele.
non attendea sì bel perdon; ma forse,
quando temo tradirti, allor ti servo.
io non t’amai, tu non mi amasti.
                                                            Iniquo,
io non t’amai? Che dunque feci? Io pure
sprezzai gli affetti, a te rivolsi i miei.
Ti fe’ cesare Aurelio; io diedi il voto.
Ti fe’ mio sposo il padre; io diedi il core.
nodi sì dolci; io m’attristai. Vincesti;
fu mio l’onor de’ primi applausi. Intese
Roma con sdegno i tuoi novelli amori;
che cercando difese al tuo delitto
e lasciai per seguirti, anche tradita,
la patria in abbandono e il genitore.
io non t’amai? Come puoi dirlo? In questo,
che mi rifiuti, io temo ancor d’amarti.
                                             E ancor non parti?
l’ore ti son che meco perdi. Il vedo,
con Berenice sei, non con Lucilla.
tu le parli col cor; vanne pur seco
de’ miei mali a gioir; ma dove andrai,
temi di ritrovarvi ancor Lucilla.
Pur mi lasciò. D’amante donna offesa
Viene il rival. Si ricomponga il volto.
dall’indegne ritorte il regio piede.
ciò che il cesareo cor volge in sé stesso.
                                        Siediti e ascolta.
fu di livor tra noi. Cessi, è già tempo,
l’odio comun. Fui tuo nemico, è vero,
risarcisce il mio cor l’onte del fato.
ti tolsi e scettro e libertà ti rendo.
Serviti a tuo piacer de’ doni miei
e vedrai qual io sono e qual tu sei.
Nel mio stupor de’ tuoi favori osserva,
                       Se tu v’assenti, aggiungo
peso a’ miei doni e a te ne chieggo anch’io.
Chiedi. Che non ti deve un cor ch’è grato?
(S’ei mi cede la sposa, io son beato).
tutto il mio cor. Questa a te chiedo. Io l’amo.
                                          Il so...
                                                        Ti è noto
che da’ primi anni ella mi diede il core
e ch’io le diedi il mio? Sai che poi crebbe
l’amor fra noi con la ragion, con gli anni?
ch’ella è mia sposa? E che sol può la morte
sì bei nodi troncar? Cesare, il sai?
La mia vita? Il mio cor? L’anima mia?
Berenice a me chiedi? E sai qual sia?
                                  E libertà ti rendo.
                                           Olà, ministri,
rendetemi i miei ceppi. A me si schiuda
Mi si apprestin tormenti e piaghe e quanto
ha di funesto e di crudel la morte.
                   Grandezza e libertà disprezzo.
ricevo i doni tuoi, così gli apprezzo.
Alma, ti accheta. In sì gran dì vedrai
tua Berenice o il tuo rivale estinto.
A lei si torni. Ella in sì dubbia sorte
risolva o la mia pace o l’altrui morte.
               Meglio rifletti. Il tuo rigore
                                            A Berenice?
                               A Vologeso.
                                                      Udisti?
(A sì barbaro assalto, alma, resisti).
o la sua destra o il capo altrui. Funesto
ti sembra il colpo? O lo sospendi o il vibra.
Scegli a tuo grado; il gran momento è questo.
ti vedrò esangue? E spirerai quell’alma?
Quei dolci lumi? Ite ad augusto... O dio!
Io d’altri e non più tua? Che far degg’io?
Io di Lucio consorte? Ah, Vologeso,
se a tal prezzo ti salvo, io più ti perdo.
non sarò mai. Pria Berenice e seco
                                   E morirà. Va’ tosto,
                                    Oimè! Qual gelo
m’occupa il cor? Fermati. Ascolta.
                                                              Parla.
il colpo non temea. Poiché arrestarlo
può sol la destra mia, lascia, ten prego,
ch’io parli a Vologeso anche un momento.
                                  E che temer?
                                                             Vi assento.
Tu la guida, Aniceto. E tu, regina,
né ti dia confidenza un cor che cede.
ciò che l’amor, ciò che il dover richiede.
                                          Mio augusto.
pria che termini il dì, Claudio e Lucilla.
cura d’amore e gelosia di trono;
                         Che arrechi?
                                                   Impone augusto
                                     E pria che mora il giorno,
verso Roma tu affretti il tuo ritorno.
Questo è troppo soffrir. Lucilla, è tempo
tutto il vigor. Perfido Lucio, a tanti
torti, questo anche aggiungi? E questo ancora
mi risveglia il furor, mi porge l’armi.
d’affetto o di pietà. Vo’ vendicarmi.
strider l’uscio fatal. Che miro? È dessa.
mia bell’alma e mio cor, quanto mi è caro
il poterti mirar pria di morire.
l’impeto della gioia. Anzi che morto
vengo pene a recarti e non conforto.
devo onorarti, in sì fatal momento
Sappi usarne in tuo pro. L’alta sentenza
O senza Berenice o senza vita.
perder non devi irresoluta il breve
Di re tiranno empio ministro, ascolta.
che rifiuto il suo amor, sprezzo il suo impero.
la sentenza crudel. Frema, minacci;
digli che nol pavento e che dal mio,
immagine d’orror, faccia di morte.
                    Teco morir.
                                            Troppo tu irriti...
                                 M’impose augusto
                                    E l’oseresti, iniquo?
La pena pagherai, se più resisti.
Digli così. Quanto risolsi, udisti.
il disegno crudel. Per quella fede
che ti serbai, che all’ultimo respiro
ti serberò, per quei begli occhi amati
e per cotesta man, per questi rivi
se m’ami ancor, lascia ch’io mora e vivi.
Sposo, non più. Nel tuo morir rifletti
All’iniquo tiranno, a novi mali?
A un lungo affanno? A una perpetua morte?
                                     Al mio amor.
                                                               Deh caro,
morremo uniti e porteremo entrambi
alla tomba quest’ossa, al ciel quest’alme.
Siam d’amore e di fede un raro esempio
alle venture età. La morte unisca
le nostre anime fide, i nostri cori
e sia talamo un sasso a’ casti amori.
Romani, armi stringete; ed armi io chiedo
ch’è vostro imperador perch’è mio sposo,
di natura e del mondo, innalza al grado
una schiava regina; e me ripudia,
me del sangue latin nobil germoglio.
Sugli occhi vostri il tenta; e ancor si soffre?
So che duce ei vi fu; seco de’ Parti,
trionfaste, nol nego; e forse alcuno
delitto stimerà, dopo sì illustre,
l’arme impugnar contro un guerrier sì forte,
cui solo è debitor della sua gloria.
Dopo un mondo sconfitto, a voi dovete
e se il dovete altrui, dite, o guerrieri,
Chi il vostro duce? E chi dà leggi a Roma?
Come Lucio e da chi poc’anzi ottenne
il titolo d’augusto? A lui nol diede
forse il mio genitor? Sol la mia destra
cesare nol facea? S’ei la rifiuta,
più gli riman? L’ubbidirete allora
Che i numi offende? E i giuramenti obblia?
No, romani, nol credo. Omai confido
vilipesa da lui, da lui negletta,
alla vostra virtù la mia vendetta.
Principessa, condona. È grave il torto
che da Lucio ricevi. Ei l’ire esige
da quest’anime grandi e le vendette.
più del ripudio tuo le leggi offese.
fan queste a voi. Con gl’imenei vietati
le trascura un tiranno e le calpesta.
misto il sangue stranier Roma sofferse?
più di questa sinor sacra ed intatta
passò fra noi? De’ nostri augusti ancora
chi violarla osò? Giulio pur arse
per la bella d’Egitto alta regina;
ma il Lazio non la vide; ed ella, intanto
il suo vedovo letto empié di pianto.
Claudio, Neron, mostri del Tebro e nomi
alla nostra memoria ancor funesti,
tutte le leggi e rispettar quest’una.
anche Tito avvampò; ma giunto al trono,
colle lagrime agli occhi il mesto addio.
tanto poté. Lucio primiero, in onta
la vilipende. Andiam, romani, andiamo.
Lucilla offesa e le neglette leggi
sia di freno ai tiranni e sia di esempio.
Viva Lucilla, viva e Lucio mora.
                                       E l’ha dall’ombre
nel mio poter? Tempo v’è ancora, o Niso?
                                        Quanto t’imposi
sappi eseguire. A che mi astrigni, amore,
e per domar la crudeltà d’un core?
Qui, regina, a goder di tua fierezza
ti appresta omai. Qui del tuo amor superbo,
quasi in vago teatro, ardon le faci.
degna degli occhi tuoi. Mira e disponi
a’ più barbari oggetti il cor feroce.
Sola ti lascio in libertà di pianti. (Si chiude la stanza)
Ove sono? Che miro? O dio! Qual scena
e di lutto e di orror? Qual da un tiranno
reggia crudel mi si presenta agli occhi?
si preparan le cene? A chi si adorna
l’orribile apparato? A chi fa mai
Misera Berenice, ancor nol sai?
del più barbaro ancor non m’era avvista.
ch’esser vuoi testimon de’ miei tormenti,
Che ne facesti? È morto forse? E forse
è di tua crudeltà questo il teatro?
vittima d’empietà, concedi almeno
sul caro busto. A me l’addita omai.
                                          Tosto il vedrai.
Qual funesta armonia, qual suon lugubre
mi ferisce l’udito? E il cor mi piaga?
finite di squarciar l’anima mia.
questo dono ti fa. Qui lo depongo.
Il mio uffizio adempii. Regina, addio. (Torna a chiudersi la porta)
che racchiudi? Che ascondi? O dio! Tu forse
sotto a quel nero vel, del caro sposo
la tronca testa... Ah, che in pensarlo io manco,
Tu non osi ubbidirmi? Ardisci, o lenta.
Scopri, o man; mira, o sguardo... O dio! Che miro? (Allo scoprirsi del bacino, s’ode una sinfonia allegrissima; cade l’apparato lugubre della scena che si cangia in un salone imperiale. Sul bacino trova Berenice la corona e lo scettro. Lucio Vero scende dal trono. Aniceto comparisce dal fondo della scena)
Cesare a te gl’invia. Vedi se sono
al tuo rigor dovuti e a’ torti miei.
e con essi il mio cor. Succeda alfine
cesare a Vologeso. Ama un affetto
che ti fa augusta; e se ancor forse indegno
il sovrano poter degli occhi tuoi.
                            Augusto, io tacqui e intanto
le tue voci ascoltai, vidi i tuoi doni.
m’abbia l’orror passato e il ben vicino,
t’inganni assai, t’inganni. Un sol momento
tanto non può. Questo real diadema
mi è oggetto di terror. Vedi qual prezzo
trovi nell’alma mia. Vedi, il rifiuto
e con esso il tuo amor. Solo il mio sposo
                               Troppo soffersi, ingrata.
                  Signore.
                                    A Vologeso
reca ferro e velen. Digli ch’entrambi
Berenice gl’invia. Digli che scelga
qual più gli aggrada. (Io vedrò morto alfine
l’autor dell’altrui fasto e del mio duolo).
giusti dei, l’innocenza! O dio! (Partito
è il ministro crudel). Cesare, augusto,
                                 Or non è il tempo.
                                                                    Io quella
son che ti sprezzo, a’ doni tuoi superba,
io quella son che più t’offendo.
                                                         Ingrata. (Le dà un’occhiata)
della mia crudeltà? Perché punirlo
d’un delitto non suo? Sospendi ancora
                                Voglio che mora. (Vuol partire)
l’altera Berenice. A te prostrata,
sparge pianti dal ciglio. Ella ti chiede
ancor l’ultima volta il dolce sposo.
non macchiar col suo sangue. E se a’ miei preghi,
darlo ricusi, alla tua fama il dona.
T’acquisteria sol di tiranno il nome
                                     M’hai troppo offeso.
E in me t’offro la vittima. Qual frutto
e iniquo t’amerei? Cesare, o dio!
Che più badi? Che fai? Salva il mio sposo;
per le lagrime mie, per quest’invitta
man, che ti bagno, e per gli dei custodi.
veggio un fausto sereno. I giusti preghi
t’han vinto e l’innocenza. Imponi omai...
Ah, per mio mal forse tacesti assai.
                                   Alti perigli. Han presa
Efeso i tuoi soldati e ver la reggia...
                              Claudio e Lucilla.
                                                                Come?
Tutto il popolo è in armi e ognuno grida:
«Viva, viva Lucilla e Lucio mora».
                (O amore!) Alla prigion tu, Niso,
                                  Ah, generoso augusto,
lascia ch’io l’accompagni e vada anch’io
il mio sposo a salvar, l’idolo mio.
Un cieco amor dove mi trasse? In rischio
son di perder l’impero e Berenice.
Cresce il tumulto; altra difesa a noi
più non riman, se il nostro cor ci manca.
Tu nel grave periglio, anima ardita,
o non lasciarlo almen che con la vita.
A chi rompe la fede e obblia le leggi,
non sa Roma ubbidir. Lucio, deponi
in sulla fronte, imperiali allori.
vanne più sciolto indi a trattar gli amori.
al tuo cesare parla. Ancor tal sono;
                                                   Invano
cerchi scampo dal ferro; e tuo malgrado,
                                      E morirai.
m’oda l’ingrato; e tu, infedel, mi ascolta.
Vilipesa e tradita, io ben dovrei
dar più facile orecchio e vendicarmi.
Ma ti ravvedi alfine. A tempo ancora
sei di pentirti e tel concedo io stessa.
da cui, come dal cor, tu mi scacciasti,
ti rimetto, se ’l chiedi, e ti perdono.
                Che far degg’io?
                                                Rimanda a’ Parti
perdona a Claudio; e qual ti serbo i miei,
ubbidisci alle leggi e augusto sei.
La tua bontà, più che il timor de’ mali,
Ma in tal necessità giurarti amore
parer può del timor, più che del core.
              Che dir potrò, se non che indegno
son del tuo amor? Le giuste leggi accetto.
Primo autor de’ miei falli e reo ministro,
Torni libero ai Parti il re cattivo
Claudio, al seno ti stringo; e tuo, mia sposa,
sì, tuo sempre sarò sino alla morte.
                                       O fausta sorte!
Per gli augusti sponsali il Campidoglio
                                      E mentre amiche
secondano i tuoi voti e l’aure e l’onde,
addio funesti alberghi, inique sponde.
Che più si tarda? Al lido, augusti.
                                                              Al lido.
Com’esser può ch’io già ti fossi infido?
Necessità, che più d’amore è forte,
il tuo sposo infedel rende al tuo seno.
Nel cor del re senso è l’amor che piace,
Ragion di stato i loro affetti approva.
ove vado? Ove sono? Il luogo è questo,
del decreto fatal. Misero sposo,
qui l’infame ministro, io qui presente.
Chi m’invola le vittime? Sol dopo
Forse per l’altrui man son vendicata?
Giovi il saperlo e poi morir. Con questo
ti abbraccierò nel fortunato Eliso.
Sicura esser poss’io della tua fede?
Sicuro esser poss’io del tuo perdono?
                              Ed or pentito io sono.
è tempo di rigor, tempo è di stragi.
strigner puoi quella man che fuma ancora
teco sì traditor, meco sì iniquo?
che lo trafisse. Eccone il sangue. Il mira.
Ne godi, empio, ne godi. Or va’; che badi?
nel cadavere esangue... e in quelle piaghe...
ire mal sostenute, e il duol vi opprime.
                        Ma che più piango? In vita
speme della vendetta. Amato sposo,
troppo tarda a seguirti o a vendicarti
troppo impotente. Omai quel ferro istesso,
quello che te svenò me sveni ancora.
                    Mia vita.
                                       E vivi? E il credo?
                                                   No, cara.
                                      Come?
                                                      In qual guisa?
quinci il ferro m’avea, quindi il veleno.
Questo mi scelgo e lo accostava al labbro,
d’alte grida risona e mal distinte
le porta a noi. Già cercano i custodi
dalla fuga lo scampo e sol mi veggio
dal rischio mio lena e coraggio, il tosco
gitto ad un punto, il ferro impugno, il vibro
e all’incauto Aniceto in sen lo immergo.
qui te, mio ben, da morte. Or più contento,
reo di un nuovo misfatto, a te presento.
Per gastigo di un empio il ciel ti elesse,
me sottrasse a un delitto e te alla morte.
Con voi, coppia d’amor, specchio di fede,
abbastanza fui reo. Ponete omai,
tu la mia crudeltà, tu l’amor mio.
                                     Ite; la vostra,
la mia felicità più non sospendo.
Libertà, regno, pace e ciò che caro
v’è più d’ogn’altro bene, omai vi rendo.
piacer tornate, ove vi chiama il core;
andiam più lieti, ove ci chiama amore.
Andiam più lieti, ove ci chiama amore. (Qui segue l’imbarco de’ personaggi, parte in una nave e parte in un’altra. S’ode frattanto una lieta sinfonia di stromenti, dopo la quale, partendosi appoco appoco le navi dal lido, cantano tutti)

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