Metrica: interrogazione
454 settenari (recitativo) in Merope Venezia, Pasquali, 1744 
que’ verdi rami? E al cielo
Garzon che il quarto lustro
da che ucciso fu il nostro
dell’afflitta Messenia.
L’esser lungi in Etolia,
non si chiamò l’erede?
                          Divise
Né si pensò che un giorno
                                Distrutti
                  Già s’apre il tempio. (S’apre la porta del tempio)
Stanco, popoli, è il cielo
Che più? Placato il nume,
Udiste? Or chi nell’alma
piacer d’un premio illustre.
manca e virtude, io, sire,
già impietositi, a’ vili
Più dir non posso. Allora
Ver noi, se non m’inganno,
che il dì prefisso è giunto
Custodite il re vostro. (Alle guardie)
Come, o dio! qui non giunse
l’infausto avviso? E come
                              Intanto
lessi ne’ tuoi begli occhi,
sull’orme di Anassandro,
pria che il puro mio foco.
Non v’è re, non v’è nume
Dillo amor, dillo orgoglio;
T’odio quant’odiar puossi
Pria ch’esser tua, divelto
In che, mi chiedi? Il dica
T’intendo pur, t’intendo.
per me ancora v’è un Giove.
Ed al tuo Giove in faccia,
Lasciatemi, o custodi, (Le guardie si partono)
Merope ancor s’estingua.
                         La voce (Esce Anassandro del gabinetto)
quando il genio suo grande
ch’io ti chiami a goderne.
Eccomi. Vuoi ch’io torni
Mio re, non più. Si serva
dell’oppressa innocenza.
non m’esenti il diadema.
Ciò ch’esporrò, regina, (Trattenendo Merope)
Or d’Etolia a noi vieni?
                           Appunto.
                 «Di Messene
mie spoglie e mio retaggio.
Spoglie del figlio ucciso,
                                  Il grido
                                 E come
Di’ che tu l’uccidesti.
Io, regina, io l’uccisi?
L’odio, l’amore, il sangue,
Troppo sinistro ho il fato.
ma da’ miei pronti arcieri
Qual colpa han di tua pena
Or di’, chi tal fierezza
               Perché ammutir?
è il più sano consiglio. (Si parte)
                              Che fia?
Mio ne fu il cenno; e questo,
Tal sembra. (Piano ad Epitide)
                         Opra è de’ numi
No no, mi spoglio anch’io
c’è il reo, c’è l’innocente.
del mio re, de’ miei figli,
ch’io più temea. Spietato
                    Ferma e prima
                                   Io diedi
sordo a’ tuoi preghi. Io, servo,
tu l’ora, il letto, il seno
segnasti, in cui le piaghe...
Non più. Già sei convinta,
Che vidi? Egli è pur desso).
più volte il vidi e impresso
No, non m’inganno; è desso.
Ho spirto, ho sangue, ho vita
da offrirti ancor. Per altri
                             Sol questa
Arcieri, olà, a quel tronco (S’avanzano gli arcieri)
la sua stessa catena. (Vien legato all’albero)
l’empio sia tosto. Intenda
Qui muor l’empio e non dassi
Duolmi che ancor non l’abbia
«Merope». A me il tiranno?
Gran conforto a’ tuoi mali.
                                   E appieno
L’odo? Non moro? E taccio?
Quel figlio che tu piangi...
                  Più tal non sono
                              Ei vive
sono l’aure ch’ei spira.
Questo pianto ch’io verso...
                Se più resisti,
Ah! Va’; corri; sospendi...
                   La mia morte
Empio, va’ pur. Non sempre
Che turba è quella? Intendo,
ferma. Quegli è mio figlio.
                     Inumano!
Che ascolto! Oimè! Nell’alma
Orsù, già t’apro io stesso
                      Or non è tempo. (A Merope)
Questi delle tue colpe (Accennando Anassandro)
Gli uccisi, è ver. Pietade.

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