Ben mi parea ch’oggi più bella e chiara
l’alba sorgesse e più de l’uso il colle
mia delizia e mio sol, gentil Narciso!
E a me parea che nube impura intorno
la primavera o ’l giorno, or che ti veggio,
mio tormento e mio orror, ninfa importuna!
del mio gran fuoco accese, aprono il seno.
sparsi del ghiaccio mio, fann’ombra al prato.
dunque ognor spargerò pianti e lamenti?
Ciò che consiglia il labbro
distruggon que’ begli occhi.
cui non di molli, effeminati amori
ma di onesto piacer nobil desio,
giunta è l’ora opportuna. Andiam là dove
di Elicona e Parnaso al ciel la chioma,
con l’umide sue braccia, il sen feconda
ove l’Asopo, ove l’Ismeno irriga
le verdi piagge e le campagne amiche;
sospirar per un labro e in ozio vano
spenderne gl’anni, onde a l’età matura
di un bugiardo piacer ne resti solo
Narciso, i passi arresta; Eco sen viene
a partir teco e le fatiche e i rischi.
Vien pur ninfa gentil, te sola io trovo
Tu cara a me, poiché d’amor non senti
le pungenti quadrella e a me non stanchi
con sospiri importuni il casto udito.
Aimè! L’esempio altrui cauta mi rende.
Vedi gli stolti amanti, il volto e gli occhi
sparsi di orror, di lacrime, le voci
da’ singulti interrotte, esempio insieme
Sol così premia i suoi vassalli amore.
quando è crudel, come tu sei, chi s’ama.
gioia non v’ha che ben pareggi il prezzo.
Più d’una ninfa, in simil cure esperta,
più d’una volta udii lieta ridirmi:
«Fortunato pastor, ninfa beata,
di cuor con cuor, d’alma con alma». O sorte
degli Elisi più dolce! Aure felici
più soavi spirate! Ove la mente
figurarsi può mai destin migliore?
Così anche premia i suoi vasalli amore.
noto il tuo cuor, di giusto sdegno acceso
l’ira inutil del labbro! A garrir teco
un mio delirio e non amor mi guida.
Non di garrir ma di partirsi è tempo.
Fuggon rapide l’ore e il dì s’avvanza.
Cuor mio, non disperar! Ci vuol costanza.
già circondan le belve; il monte e ’l piano
sente gli urli primieri; e impazienti
danno i molossi il lor latrato ai venti.
doverti amar né poter dir: «Ti adoro».
né poter dir: «Crudele, io per te muoro».
Io temo gli occhi miei, temo il mio labbro;
e per piacerti, oh dio! teco mi fingo
inimica d’amor, quando più t’amo.
seguirti ovunque vai. Posso asciugarti
su la fronte i sudori e del mio petto
far morbido guanciale a’ tuoi riposi,
stringer la mia con la tua destra; e mostri,
l’orme del suo dolor m’invia sul volto,
se ben tu non gl’intendi e non li senti,
mostri qualche pietà de’ miei tormenti.
fui felice una volta e l’infedele
pianse al mio pianto, arse al mio fuoco un tempo.
Ma qual donna non cangia e voti e cure?
La mia fede è tradita. Io son lo stesso
ma non Cidippe. O di altro bello accesa
o ad altre cure attenta, allor che incontro
o s’infinge o mi fugge o non mi mira.
Te felice, o pastor, che almen provasti
quante gioie dar possa un grato amore.
ne l’uso de’ piaceri, il tuo dolore.
nel continuo suo pianto, è per lui tolta
ogni speranza, ogni diletto e solo
de l’altrui crudeltà, del proprio duolo.
Un continuo dolor perde le forze,
si fa natura e instupidisce i sensi.
Ma più fiero ei divien quando lo scuote
un bramato piacer né mai goduto.
la memoria del ben, quando è perduto.
fia il risanar che l’inasprir le piaghe.
Tu per Cidippe ed io per Eco ardiamo.
di ambe le ninfe e di noi pure amico,
sappia ’l nostro desir, ne presti aita.
so che arride al mio amor, loda i miei voti
e ne ha tentata in mio favor la figlia.
quell’imeneo cui più d’amor congiunge
volontaria si sposa e l’edra al faggio.
Lesbin, non ben l’intendi. O quante volte
quella, che amor non vinse, ha vinto un bacio!
D’ogni beltà più fiera e più ritrosa
è un incanto il piacer. Tal l’angue appunto
a una grata armonia l’ire si scorda
né più ’l tosco letal spira dagli occhi.
Secondi il ciel il tuo desire e ’l mio.
Che non vince in amor lunga costanza!
che più volte schernì l’ire degli euri,
alfin ruina e la gelata selce
d’una rigida man scoppia in faville.
bench’abbia più di quercia e più di selce
duro e gelido il cuor, spero che a forza
di lungo amor, di salda fé, deponga
e l’antica durezza e ’l gel natio.
l’odoroso alimento unite, o voi
innocenti pastor, vergini caste. (Il coro innalza in forma di altare un rogo, in cui tutte le ninfe gettano i loro fiori. Sacrificio)
spargete il rogo acceso, onde alle stelle
in odorati nembi il fumo ascenda.
su la fiamma, che stride, io verso questo
le vendemmie cretensi, e questa verso
le leggere faville; e voi fra tanto
a l’alme dee, ninfe e pastori, il canto.
son tutti i segni; ecco, la vampa è chiara
né di tetro vapor l’aria si adombra;
balenare a sinistra e quindi al volo
batter candide piume il lieto augello.
agli ultimi deliqui il cener sacro
qual soave fragranza intorno spira?
Così ho risolto. Invan mi tenti e invano...
il tuo dovere, il grado mio? Tuo sposo
io scielsi Uranio e tu ’l contendi? Ah figlia!
Padre, de’ cenni tuoi mi faccio legge.
la natia libertà. Quand’io non voglia,
vedi audacia di figlia appena uscita
da la tenera infanzia! È quest’il frutto
de le fatiche mie? Così alla mia
venerabil canizie? E così insulti
al grado mio sacerdotal? Ti scielsi
pastor canuto ed impotente? O pure
ignobil di natali e di fortune?
A lui di biondo pelo e che a gran pena
sparge le fresche gote. A lui pur pasce
più d’un armento e più d’un campo imbionda.
A che ardita il rifiuti? A che contrasti?
Egli t’adora pur! Tu pur l’amasti!
Tutto, o padre, egli è ver. Ma più non l’amo
Olà, tutto poss’io. Chi contumace
sprezzasti genitor, giudice avrai.
sul nostro arbitrio il cielo? Il genio deve
dar legge e non la forza a’ nostri affetti.
non fia che colpa tua, che mio tormento.
terribile, importun, tu ancora tenti
la sofferenza mia? Partiti, fuggi.
da un paterno comando? È quest’il modo
più che una lunga servitù, ti affida?
Così t’insegna amor? Partiti, fuggi.
a sì deboli assalti e non sì tosto
ciò che ti niega il cuor t’impetra il padre.
Deh per l’antico ardor, ninfa, m’ascolta,
che ognor t’amò, che tu altre volte amasti!
Questo è pure quel sen, questo è quel volto.
Che follie mi rammenti? Eh che sei stolto?
Mira l’iniqua. Anche l’amor mi niega
e i giuramenti oblia. Miseri amanti!
E qual fé vi sognate in cuor di donna?
Ah Cidippe infedele! Ah sesso ingrato!
La tua pena è d’amor. Lesbin mel disse
e ’l pallor del tuo volto.
la più ingrata e sleal che viva in queste
boschereccie cappanne, albergo un tempo
d’innocenza e di fede ed or d’inganno.
ne ripetei più volte agli antri, ai boschi
men duri del suo cor, lo incise questo
meno degli occhi suoi dardo pungente,
dono de la sua man, pegno d’amore.
Non disperarti. Hai chi pietà ne sente.
benché d’amor sia poco avvezzo a l’arti,
il placar la tua ninfa, il consolarti.
il ciel per me grazie ti renda almeno.
V’è pur qualche pietà dentro a quel seno.
degl’incendi d’amor pietà tu mostri,
prendine ancor de’ miei, tanto più fieri
quanto più rara è la beltà che m’arde.
le follie degli amanti a me non fanno.
Se per Cidippe Uranio avvampa, io prendo
non per pietà ma per sottrarmi a lei
che ognor co’ pianti a frastornar sen viene
l’alta tranquilità de’ sensi miei.
non men di me fiera d’amor rubella.
Vedila. (Monstrandogli Eco)
Non men crudel che bella.
deh se in te alberga umanità, per quella
sacra amistà, che a me giurasti e ch’io
sin da’ primi anni a te serbai, per quelle
pietà m’impetra o mi vedrai fra poco
cadavere d’amor, vittima esangue,
con l’ultimo sospir, l’ultimo sangue.
A duro uffizio oggi il tuo amor m’impegna.
non perdiam tu la speme ed io le voci.
Già ’l tutto udii. Signor, che chiedi?
Alma v’è che t’adora e tu la sprezzi.
V’è cuor che per te pena e tu nol curi.
Io già sapea che la pregava invano. (A Lesbino)
Co’ miei sospiri ancor rinforza i detti. (A Narciso)
Omai, Lesbin, più t’avvicina.
Mira, spietata, in quel sembiante impressa
la tua fierezza e la sua pena. E tanta
fede ancor non ti vince? Ancor resisti?
Hai tu pietà di chi t’adora?
tanto più cara a me, quanto più fiera.
La tigre ama la tigre; e a te, che sei
piace la crudeltà, piace il rigore.
le vendette d’amor, nume possente.
ha ’l suo poter da noi. Quasi favilla,
se alimento gli dai, cresce in incendio,
se glielo togli, a pena nato è spento.
Folle garzon, pietà di te mi prende.
Non tarderà le sue vendette amore;
con un mio sguardo a te piagasse il cuore!
Non ti atterir. Come l’amor depose,
l’odio ancor deporrà. Nota ho la figlia,
cangia col nuovo dì pensieri e voglie.
confidarsi nel tempo è duro impegno.
i miei detti, i tuoi prieghi.
vidi immobil le rupi alzar la fronte.
Qual constanza ti fingi in cuor di donna?
de’ giuochi usati. Io là ti attendo. Intanto
serena il ciglio e tregua imponi al pianto.
che per Narciso arda Cidippe e questa
sia la cagion che mi disprezza e fugge.
Così un premio di fede il lampo solo
di straniera beltà spesso distrugge.
Sei tu ninfa gentil? Dove ti ascondi?
tu ad amar mi consigli? E ancor ti sembra
così vile il mio cuor? Ma qual sarebbe
degna ninfa di me, de l’amor mio?
Teco io mentir? Sai pur che grata e cara
al par di te ninfa non trovo in queste
Tu accompagni i miei passi, io seguo i tuoi
Troppo mi sembri oggi importuna. Ah senti...
Son io ben folle a contrastar co’ venti.
Si accordasse col labbro il cuore almeno. (Da sé)
lacrimosa e dolente. E qual ti turba
con sospiri interrotti e tronchi accenti
Nel volto mio leggila impressa.
In linguaggio più muto il tuo pensiero,
quanto il labbro è pietoso, il guardo è fiero.
Certo amante è costei. Certo obbliata
ha la natia fierezza e di cotanta
viltà ha rossor, non pentimento. Tace
per timor d’irritarmi e più s’attrista.
cresce sepolta e maggior forze acquista.
lascia d’importunarmi o ch’io m’involo.
forse ti chiedo amor? Chiedo che solo
Odi, o Cidippe. Uranio t’ama e langue
Tu, che non l’ami? E chi tel vieta?
Quello de’ tuoi begli occhi, ove due stelle
ruotano a’ miei disastri e tu, spietato,
tu, che non m’ami? E che tel vieta?
pupille più serene o più vivaci.
e più fiera d’un angue, o cruda ninfa,
ape che impiaghi anche col mel sul labbro.
per beltà che ti sprezza e vuoi, mal saggia,
seguir ciò che ragiona al cieco affetto,
Così sprezzarmi? E ’l soffro? E ancor non torno...
Torna, sì torna al tuo pastor fedele,
vivrà col tuo desir, col tuo piacere.
Sarà in due cuori un’alma e tu di quella
Torna, sì torna al tuo pastor fedele.
Odi, o crudel... Ma sen fuggì qual lampo.
Tirren m’attenderà. D’uopo è gl’indugi
romper omai. Più consolato io parto,
poiché, ad onta de l’ira, in voi ben vidi,
care pupille, un balenar men fiero;
e, fra le nubi ancora e le procelle,
o del cielo d’amor lucide stelle.
Su via, pastori e ninfe, insin che lieto
per le spiagge vicine erbette e fiori
va pascolando il custodito armento,
qual di voi più gli aggrada, inviti al canto.
Tirren, tempo fu già che, d’ogni cura
libero il cuor, fei risuonar quest’antri
di dolci carmi ed al mio suono arrise
dal Parnaso vicino il biondo Apollo;
qual più poss’io formar voce soave
che a terminar non vada in un sospiro!
Amor dà spirti al canto. Invan contendi.
Ecco sen viene il giovanetto Uranio,
non men di te caro a le muse.
potrai cantar de la tua ninfa i pregi.
Se non ne sdegni il paragon...
che già in dono mi diede il vecchio Aminta,
fia degno premio al vincitor. Noi tutti
i giudici sarem del canto vostro.
Cantiam, tu d’Eco, io di Cidippe il volto.
Lesbin principi, Uranio siegua; attento
Non più, cari, non più, di premio eguale
degno è l’emulo canto. Ambi vinceste;
mediterò per ambi egual mercede.
ninfe leggiadre, e qui compisca il giuoco.
Ma d’amor pria si canti e l’arco e ’l fuoco.
Troppo son lasso; a la vicina fonte (Si asside all’orlo della fonte per bere)
e la fatica e la stagion m’invita.
Che volto è quel che in mezzo a l’acque accende
e d’insolito ardor m’empie le vene?
o bellissimo volto! Io ti raviso
a l’arco de le ciglia, agli occhi ardenti.
fuggi amor che t’insulta. O dio! Qual forza
entro a que’ lumi a vagheggiar ti sforza!
tu che mi parli non intesa, lascia
che sul tuo labbro un dolce bacio imprima. (S’accosta per baciarsi nell’acque)
ti bacio e tu mi baci. Ahi l’onda iniqua
già su l’avida bocca il bacio rompe
e dolor tu ne mostri eguale al mio. (Si ritira sdegnoso)
Deh stendi il braccio ond’io ti tragga almeno
fuor dell’invida fonte e in seno al prato
meglio poi ti vagheggi. Ecco cortese! (Stende il braccio alla fonte)
Tu mi stendi il tuo braccio, io stendo il mio;
mi ti toglie di nuovo; e tu fra tanto,
che ridesti al mio riso, or piangi al pianto.
Folle! Quello son io? Già mi ravviso;
quella è la bocca mia, quelli i miei lumi.
O portento d’amore! O stolti voti!
e povero mi rende il mio possesso.
Esca e focile, accendo il fuoco e n’ardo;
scopo insieme ed arcier, piago me stesso.
O smarrita hai la fiera o ’l colpo errasti
o a te spuntossi in qualche tronco il dardo,
non può lasciarti orme di doglia in viso.
potrò più sostener degli occhi tuoi
il rimprovero e l’ira? Entro a qual bosco
nasconderommi al mio rossor? Qual pace
e queste solitudini tranquille?
tu compisci il mio duol, vibra il tuo ferro;
In questo cuor venga il tuo stral pungente,
l’antico orgoglio e la viltà presente.
Ad altri colpi il tuo bel sen si serbi;
lo stil degli occhi tuoi che piagan l’alme.
che a impetrarti io venia col dir che t’amo.
Sì t’amo, o caro. Ecco il mio error. Castiga
l’ardir del cuore e quel del labbro insieme.
invidi più la destra a’ tuoi be’ sguardi.
Eco spietata, al mio dolor tu aggiungi
la pietà che ho del tuo, pietà ch’è tarda,
poiché è tardo a scuoprirsi anche il tuo amore.
che mi accoglievi affaticato in seno
e in dolce uffizio a me tergevi amica
col bianco velo i caldi umori in viso?
Forse allor che più crudo avea il cuore
quella pietà ch’ora ti niego amante.
un delirio d’amor, mostro il più strano
Ne l’amor tuo ti son rival. Mi struggo
Fece le nostre piaghe un sol sembiante;
sol di me stesso anch’io mi trovo amante.
così dovea punir la mia fierezza
e le vendette sue far col mio volto.
Getta il folle pensiero! Ama a chi puoi
se il merta la mia fé, mira i miei lumi,
almeno entro a’ miei lumi ama te stesso.
Se non si placa amor, cangiar non posso
Addio! M’è forza abbandonar la vista
di quella fonte, ov’io bevei quel fuoco
torno a le selve e tu rimanti in pace.
Ho per rival chi adoro e son gelosa
che s’amino tra lor quel’occhi amati,
ove s’intese egual miseria? O fonte,
fonte per me fatal, tu sola e prima
cagion del mio dolor, fonte odiosa.
A te rabbia di vento, ira di nembo,
a te d’infausto augel stridulo canto
rompa i sacri silenzi e sozzi armenti
l’antico letto a’ tuoi tranquilli argenti.
Misera! Io perdo i voti e tu fra tanto
più superba ne vai del mio gran pianto.
Partirò, poiché il vuoi. Queste sian, queste
del tuo Uranio fedel l’ultime voci.
Anderò fra le rupi e dirò a’ sassi:
«Al par di voi duro ha Cidippe il cuore»;
ripetrò a le frondi: «Al par di voi
corron gonfi di pianto anche i miei lumi».
Tempo verrà che ancor dirai dolente
a l’avviso crudel de la mia morte:
«Quanto fedel, tanto infelice amante
a la tua fede, a l’amor tuo. Ricevi
questa tarda pietade, ombra adorata».
di lacrime e di fiori a sparger l’urna
e su le fredde ceneri a lagnarti.
Addio, dunque, o crudel. Ma pria ch’io vada,
de l’incostanza tua, de l’amor tuo,
testimonio fedel; prendi il tuo dardo (Dà il dardo a Cidippe ed essa attentamente lo guarda)
che in quel tempo felice a me donasti;
armi non mancheranno ond’io m’uccida,
a uccidermi, a svenarmi il dolor mio.
Ecco ch’io parto. Ingrata ninfa, addio.
Ferma Uranio. (Mostra partire e Cidippe il trattiene)
Qual rimembranza? Qual orror mi turba.
Seco ragiona. Io parto, o ninfa.
Ei m’è fedele! Io pur l’amai? Sprezzarlo
perché, infido mio cuore? In che ti offese?
Mi guarda e impallidisce. Amor m’aita.
Io ti adorai, tu mi sprezzasti, ingrato!
Ritorni Uranio onde il cacciai. Ritorni
a questo seno. Il genitor lo impone,
ritrovar tanto amore e tanta fede?
sdegno improviso a tanto amor succede?
Lascio il tuo cuor nel suo riposo.
Parti; ma pria donami un guardo almeno.
Ti movan questi pianti! Ah no, che indegna
son de la tua pietà doppo il mio fallo.
le tue vendette, Uranio, e ’l mio dolore.
dardo per me fatal, mi passo il core.
Sì partirò... Ma partirò con te.
Solo Uranio è ’l mio bene.
l’ire depongo e mi ti stringo al petto.
fra le beozie ninfe il più bel volto,
fra le beozie ninfe il cuor più fiero?
pari a la tua beltà la tua fierezza
e a la fierezza tua la pena mia.
com’esser può che tu non senta ardore,
tutta la Scizia e tutto il caspio verno;
o pur ne’ tuoi begli occhi e nel mio cuore,
tutto il suo fuoco ha consumato amore.
A la fonte, o Lesbino, anzi a la morte. (Torna a sedersi alla fonte)
Aimè! Che volto è quel? Dove son giti
de le labbra vermiglie i bei colori?
quel dolce raggio? Ov’è ’l sereno e ’l brio
Ei sé stesso vagheggia e duolsi e piange.
Come gli sviene in su le labbra il vezzo!
E gli si oscura in su la fronte il ciglio!
Ma così vil son io? Dove è l’antica
Spiriti generosi, in seno ancora
rintuzzatemi il cuor. Fuggiam... Ma dove?
Fugge il cervo ferito e seco porta
la piaga sua. Come potrò d’amore
Ah mio cuore infedel, poiché risolto
sei tu d’amare, ama chi devi almeno.
Eco ha beltade, Eco ti adora ed Eco
sia pur la fiamma tua; ne sarò pago.
dolcissima compagna, Eco, perdona.
Vorrei né posso amarti. Ah se non posso,
ne incolpa il volto mio, non il mio cuore.
Ho duol di non poterlo. Egli ti basta.
la mia morte nel volto e in sen ne sento
tutto l’orror e ’l mio destin mi chiama.
servi di tomba a la mia morte ancora. (Si getta nel fonte)
Aimè! Ferma Narciso. Oh troppo lento
Lesbin, sugl’occhi tuoi muor l’infelice,
da l’acque ingordi oppresso. Acque spietate,
più di quelle di Stige e d’Acheronte
delizia agli occhi ed ornamento al prato,
certo Narciso s’è cangiato in fiore?
Tu, che spunti dal suol, fiore adorato,
ne le tue foglie il suo dolor sta scritto
dirti potrò: «Narciso è morto»?
Morto dunque è Narciso? E ’l cielo iniquo
lasciò de la sua man l’opra più vaga?
Ma dove son l’ossa adorate? E dove
quel bellissimo volto? A me sol tocca
cangiato in fior da la pietà de’ numi
e da le sponde istesse, ond’ei già cadde,
torna sé stesso a vagheggiar ne l’acque.
de l’antica beltà l’orme primiere,
turbine irato o incauto piè ti atterri,
gli ultimi miei respiri. Aimè, perch’io
per dire i pregi tuoi, l’affanno mio?
Qual denso vel, qual fosca nube, o ninfa,
E pur ti stringo, o vita. A pena il credo,
tanta felicità che non mi fugga.
Questo sen, questo volto e qual io sono,
tutta son tua, tua sarò sempre, o caro.
O dolcissimi accenti! O gioia! O cuore,
tanto amor, tanta fede, è ’l mio tormento.
fugitive allegrezze! O morte acerba!
l’onor di questi colli, Eco e Narciso.
ne fu presente e a me piangendo il disse.
Su, i giulivi apparati, i risi, i canti
in funeste gramaglie, in nenie, in pianti.
Ecco dal cielo aperto in bianca nube,
scender a noi Narciso ed Eco, oh quanto
la primiera allegrezza e non vi turbi