Metrica: interrogazione
611 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Torino, Gattinara, 1721 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne della tua fama e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto.
difesa e primo amor. (Lo abbraccia)
                                         (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                         (Anzi rival mi sei).
diedi al valor di Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additti.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor. Sol per te chiedo. (Ad Alessandro)
                                                               O amico. (Ad Ernando)
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo a la fede.
Frena il volo al tuo amore e nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia; e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuorché ’l suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado. Il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
Nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che pria che a te fui padre al regno.
sono giuste; ma invano il mio Cupido
tentano ispaventar... Che veggio! Ahi vista!
Né m’inganno. Ell’è dessa, ella è Lucinda;
de l’amor mio costei sen viene e seco
rinfaccierà de l’onor suo le macchie.
Che far poss’io? Gli affetti a lei dovuti
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e goduta beltà più non mi piace.
                                         In quale oggetto
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prenci.
                                                 A te, che altrove
giammai non viddi, ove fui noto e quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin di amarti).
                           Di segretario in grado
                                Io con Lucinda! Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ah giorno fatal) che in voi si accese
allor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti; e me presente,
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
Non ti sovviene? Ingrato!...
                                                   A cui favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
ch’il saperlo mi sia cagion di pianto.
                            Invitto Ernando.
                                                             O vista!
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il fuoco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
m’esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose e minacciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
stringavi sposi maritale amplesso.
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso e del rival germano
sarà impotente ogni furore e vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco ti abbraccio.
                                                             Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
Io fui del mio morir fabbro a me stesso.
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
Se tu mel chiedi, io deggio dirlo; amore,
benché finto, daver mi punge il core.
                               Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer di una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
                   Da lei che adori, audace, or prendi
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Nell’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti; a troppo
tua baldanza s’inoltra. (Impugnando la spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba? Vuole
servirti amor per gastigar. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
ma non giova il tuo dir, povero core.
più amico ti vorrei. Dovresti in esso
ammirar la virtù, saggio guidarti
sarai così de l’amor mio, del regno.
de l’aver vinto è tuo retaggio; vinse
coll’armi tue, col tuo gran nome Ernando,
tu reggesti la mano, ei strinse il brando.
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiagge e ’l fertil suol, Lucinda,
non ci è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debil sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       O inciampo.
Costui, signor, mente l’ufficio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra di credenza. Il re leggendola guarda minaccioso il figliuolo)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi?) Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi;
leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segua il cor ciò che dettò la mano».
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       (O dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti.
                           Due volte, o Casimiro,
mentitor me dicesti. Ove t’aggrada
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon dell’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
ti vorrebe e non sa crederti il core.
non nascano per te vaste rovine,
che de’ mendaci è sempre infausto il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume.
che, se cangio l’altar, non cangio il nume.
Non molto andrà che di Erenice in seno
strinsi, affrettai; cor ebbi a farlo e ’l lodo.
il mio cor nel tuo seno. Io vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
Ei mal soggiorna in compagnia del mio;
lasciami nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice; altro sospiro.
Ancor ten priego. Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
Ti amai dal primo istante in cui ti vidi;
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spinge e mi trasporta?
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuorché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, io t’amo
Senza desio, senza speranza io t’amo...
ma col cor di Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio ti adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa. Io solo
se ’l nieghi alle mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
or tuo amante pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa. A quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Macchia di onor non mai si terge e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
stringerà il tuo rival sposa Erenice...»
vero sarà. Chi lo soscrive? Ismene. (Leggendo)
Errar costei non può. Tutto l’ingrata
apre ad essa il suo cor. Ah cruda! È tempo,
è tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
ti punirò. Troppo sforzai lo sdegno
e l’amor rispettai. Morrà l’indegno.
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è il sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo. Ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura.
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia che espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Sposa non l’abbracciasti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda ora ti dice:
torna, torna fedele ad abbracciarmi.
                                                  All’armi, all’armi. (Ponendo mano alla spada e rispingendola con impeto)
e brami piaghe? Ingrato? E vuoi svenarmi?
                                           All’armi, all’armi. (Ponendosi in guardia)
                                       Sei tu quel forte
sin dal ciel lituan teco traesti?
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?) (In atto di partire è trattenuto da Lucinda)
No no. Da questo campo ad armi asciutte
                          (Corre a l’occaso il sole
e in braccio ad Erenice Ernando è atteso).
o ti diffendi o ti traffiggo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi questo inciampo a l’amor mio). (Siegue l’abbattimento; Casimiro gitta con un colpo di mano a Lucinda la spada)
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile. Aggiugni a la tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
                      E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà ’l minor, l’aver Lucinda uccisa
dopo tolto l’onor, torle la vita.
Padre, già ’l dissi, un mentitore è desso.
Mentì già ’l grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda. In tali spoglie
Non se’ Lucinda, no. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene e a lui m’involo).
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
seppellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a cuoprir, se non d’obblio.
turbano i miei riposi? Orribil vista!
Nel sogno innoridii; mi desto e teme
qualche lor rischio il core anche vegliando.
Qui non v’è Casimiro. Oh figlio, e dove,
consegnasti a le piume? Il guardo, il passo
vendicati noi siam. Per questa mano
la vittima cadé; ma donde nasce
che non hai pace ancor, misero core?
E d’essa invece hai sol tema ed orrore?
Sparrite omai... Figlio. (Ritornando indietro resta sorpreso dal veder Casimiro)
                                            Signor... (Oh stelle!)
                                 (Ahi! Che dirò?)
                                                                  Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi ah! di quel sangue.
                                                                   Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
                                                  E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni (Venceslao gli va incontro e lo abbraccia)
                         Ernando vive? Ernando amico.
(Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi!
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!)
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua. Lagrime chiedo e sangue.
Ti vuo’ giudice e padre. Ah! Rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice; e la vendetta attendi
Qual io sia, ben ti è noto. (Si leva)
                                                A’ tuoi grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
coglier dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, su le mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Aimè... Perdona
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
Sì, morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata. (Smaniosa)
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente.
il silenzio del labro e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno). (Coprendosi gli occhi)
                                                      (O destra! O ferro!)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar ch’hai ne le vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come ne è ’l cor, fosse innocente il braccio.
Non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci!)
Gismondo, olà. Ne la vicina torre
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
                                  (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei disponga a morte.
Perdona, o re. Di Casimiro il capo
tal lo dichiaro; e come re né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
Rispetta il grado e ’l tuo rigor coreggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
Tal lo condanno. Il grado, a cui lo inalzi,
rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Venceslao vive e tu perdesti il padre.
Muore il tuo sposo e ’l tuo rossor pur vive.
Questa, o regnante, è questa la tua fede?
o due volte ingannata alma infelice!
or mi sovvien; ch’ella si adempia è giusto.
Ma la giustizia offesa? E la mia fede?
                                               O dei! Che pensa?
                                 Spenta è per me pietade?
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio e fa’ che sciolto
sia là condotto ove la gioia ha in uso
di festeggiar le regie nozze.
                                                   Ah, sire,
che nunzia io sia de l’avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, onde a te s’apra
                                 Eh non temer, regina.
Sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi, Ernando? Vendicarti?
Vendicare il tuo amico ed Erenice?
ti voglio, Ernando. A preservar si attenda
l’erede a la corona, il figlio al padre.
diam lagrime e non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e l’amor suo non pensi.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede.
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah sì! Per me cadde il fratel. Ma cadde
Volea morto il rival, ne ha colpa amore.
sei mia gran colpa. O di Erenice, o troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché vi amai. Sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel mi adora.
Ma l’uscio ferreo stride. A che ne viene
Lucinda a me? Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia de la mia morte e spettatrice.
di averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labro tuo morte non è ma vita.
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo. Del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
Andiam; non più dimore. Il re ne attende.
l’alto destin ne intenderai.
                                                  Già scordo
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon. Temer non dei.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non di amore.
del prence a la tradita ombra diletta.
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a favellar d’amore.
né la tua fé né l’amistà di Ernando
non può irritarti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte
                            E s’egli è tal, lo accetto.
                                               Tale il prometto.
                              Andiamo. Io più di un seno
                                                Andiamo.
fia ch’Erenice a l’amor tuo dà fede.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede. Impegno
ne serve a l’apparato e le festeggia.
                                   E qui ti attende il padre.
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agli imenei t’invito e ti presento
fuorché un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morire...
                                                      Eh lascia
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma (Dà un anello a Casimiro che con esso sposa Lucinda)
confermi a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
a l’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, orché la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
la vita che ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far? Che dir poss’io? Veggo i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango. O sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno;
ch’esser può mio delitto e tuo periglio;
il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
la morte tua. Vanne, l’incontra; a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
dal ferro uccisa o dal dolor. Tu piangi.
Tu impalidisci? E ’l mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
che ti chiedo in morendo. Addio, mia sposa,
                                    Tu parti?
                                                        Addio.
la pietà di quel pianto. Andrò men forte,
se più ti miro, o dolce sposa, a morte.
Sposo, tu parti? O miserabil sposo!
Più non ti rivedrò? Barbari numi!
Lagrime mie, sgorgate a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui il pianto? A l’armi, a l’armi.
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fuori de’ ceppi... Ahi dove son? Che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai, né fu chi ’l guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno, dove
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
                                  Al sol pensar io tremo,
sudo, mi aggiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio a la vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vuo’ pensar meglio ancora.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati di amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
                                        Il mio germano.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ’ngiusto.
Sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non immiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori;
figlio, mi abbraccia, addio. Vattene e muori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                                                       Signore,
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le coregge.
Presto, signor, cingi lorica ed elmo,
di acciar la destra e di costanza il core.
                                          O dei! Che avvenne?
                                                                                  Il prence...
                                            Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun grida, ognun freme; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisferò, sodisferò a me stesso;
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
non per viltà ma perdonai per gloria.
vado a morir, giusto non è ch’io viva.
                                     Viva, viva.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
Traetemi al supplizio; e quando ancora
sì, questo acciar trafiggerammi; in pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse.
Di me disponi. In me le leggi adempi.
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Né pur io son padre crudel. Non deggio
esser però giudice ingiusto. Adempi
su cui non ho poter. Muori. A tua colpa
il tuo morir te stesso e il mondo ascriva.
                                   Viva, viva. (Venceslao stupefato ascende il trono)
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scetro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Venceslao si leva la corona di capo in atto di porla su quel del figliolo)
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano. (Corona il figliolo al suono di allegra e breve sinfonia, poi, presolo per mano, discende dal trono)
Per un figlio acquistar, lascio il diadema.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati.
Ti abbraccio, amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte!
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che il vivo abbraci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubbilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco; oggi più degno
principio e nuova vita e nuovo regno. (Casimiro presa Lucinda per mano ascende sul trono. Seggono intorno a lui Venceslao e tutti)

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