Metrica: interrogazione
387 endecasillabi (recitativo) in Temistocle Venezia, Pasquali, 1744 
per noi la Grecia! Ella, con empio esiglio,
il suo liberator diede al mio regno.
Lice sperar che il suo delitto un giorno
sia la sua pena; e pieghi Atene ingrata,
al supplizio del giogo il collo altero
e del perso destin serva all’ impero.
dell’amor tuo; ma l’Asia freme, o sire,
la sua difesa. I tuoi vassalli ancora
han per la gloria tua fede e coraggio.
                           Ma non la Grecia. Dimmi,
nomi, tra noi più riveriti e illustri,
che non tentar per debellarla?
                                                        I fati
ne riserbaro ad Artaserse il vanto.
fuman le nostre piaghe; ancor superbi
van de’ nostri naufragi i flutti achei.
                               E in greca fede avrai
                                               Alma sì grande
non può tradire. I benefizi miei
le faran più abborrir la patria iniqua.
Rispetta in esso i miei vicini acquisti.
(O fortuna infedel, tu mi tradisti).
giunto è, gran re, l’ambasciador Clearco
                                           Pronto ubbidisco.
Va’, stanca in più vigilie a pro del regno
la patria terra è mal sicuro asilo,
dal crin ti svelle i meritati allori.
prima arridea. Palmide, o dio! talvolta
le mie fiamme aggradia d’un dolce sguardo.
quanto mi tolse! Il re m’osserva appena;
ch’io divenga a me stesso aggravio e pena.
oggi chiede il tuo sangue; e la tua morte
la mia fiamma egualmente e la mia sorte.
Temistocle, ecco il giorno in cui le prove
avrai dell’amor nostro. Alla tua gloria,
al tuo merto le devi. Anche nimica,
un braccio così forte e al tuo simile.
qui trovasti un asilo. Ei sia tuo regno;
tua patria ei sia. Vieni, o gran duce, e prendi,
nelle braccia, che t’apro, anche il mio core. (Lo abbraccia)
(Fremo insieme di rabbia e di livore).
il rossor mi torrai d’esserti ingrato?
e per legge e per sangue a te nimico,
re, difensor, benefattore, amico.
A tal prezzo amar deggio i mali miei;
s’io misero non era, ora il sarei.
                                  E tutto attendi.
                                                                (Oh dei!)
               Non lungi il regal cenno attende.
                                           (Spero vicende). (Artaserse va a sedere sul trono. Entra poscia Clearco accompagnato da Arsace, presenta le lettere di credenza, dopo essersi inchinato al re, e poi si ritira alquanto in disparte)
                           (Oh numi!)
                                                   (Ambasciador Clearco!)
                                           (E quegli e questi
(Infelice amor mio, sei disperato).
non ne arrossir. S’ei mi vuol reo, già puoi
per me coprirlo entro un obblio profondo.
Ciò che ascolta Artaserse, oda anco il mondo.
monarca invitto, il cui destin minore
è sol della tua fama e del tuo core,
a te la Grecia, a te Micene e Sparta
per me, suo figlio e messaggier verace,
in brevi accenti invia salute e pace.
si dia fin, non che tregua. Efeso e Rodi
sien tue; sia tua la Tracia e tua l’Eubea,
non facile conquista. Ella ti chiede
il prezzo a tanti regni. Ama ed accetta
un ben ch’è tua grandezza e tua vendetta
                  Dissi.
                               Anzi che cada il giorno,
                                           (Che intesi mai!)
                Sire.
                            A me qui reca il grave
scettro guerriero e il militare ammanto. (Arsace si parte)
                                    (Io tengo appena il pianto). (Ritorna Arsace, seguito da un paggio che sostiene un bacino col bastone da guerra e colla porpora militare)
Duci, soldati, ad alte imprese e degne
della vostra virtù, de’ nostri voti,
si dia l’impulso e ch’io vi nomi il duce,
alma di sì gran corpo. Io tal l’ho scelto,
portar le leggi, ove già stese il grido.
la sua grandezza al tuo giudizio ascriva.
                                        Io, sire!
                                                         E l’ostro
                     (O me felice!)
                                                 A te si deve,
                                 E di tua man lo adatta
                                         (Che sento!)
                                   (Oh non atteso evento!) (Cambise prende dal bacino la porpora militare e la pone addosso a Temistocle)
Mi si porga lo scettro. Or tu, gran duce,
tributo al tuo valor, più che mio dono. (Arsace col bacino ascende alla sinistra del trono e porge ad Artaserse lo scettro; Temistocle vi ascende poi dalla destra ed Artaserse gli porge lo scettro. Suonano fra tanto le trombe militari in segno d’applauso. Temistocle nel prenderlo bacia la mano al re)
                                    (E disperato io sono).
Signor, se a’ tuoi favori e se a’ miei voti
io, tuo duce, io, tuo servo, oltre i confini
porterò le tue leggi e i tuoi destini. (Artaserse scende dal trono)
Clearco... Ah no, dir volli amico; e il tacqui
                                              (Il duol m’accora).
è possibile mai? Ch’esule io sia
                                       A lei non basta.
Fuor della Grecia? E ancor del mondo?
                                                                        Il vuole.
la cui gran parte e la miglior per essa
dal sen versai, debole ancora e voto?
e dal suo disonor reso più noto?
A me dilla nimica, a me matrigna.
e mi tolse fortuna, infidi amici,
tu alla figlia Eraclea scelto in consorte,
Non più, signore. Il duro uffizio adempio
a un’antica amicizia, a un forte amore;
servo insieme alla patria ed al mio core.
                          Dammi le braccia e senti
              Padre.
                             Eraclea, tu qui nel campo?
(Al chiaror di quegli occhi ardo ed avvampo).
Lieta de’ tuoi contenti, io qui precedo
                                 E qui t’abbraccio.
                                                                   (Oh dio!
meglio all’empio destin che a quei bei lumi).
(Cara fiamma del cor, piaci e consumi).
                                       Eccomi, Arsace. (Arsace si ritira)
Figlia, col tuo amator lieta rimanti.
                                  Il so per prova anch’io.
Ecco, bella Eraclea, che a te ritorna (Eraclea non lo mira)
del duol passato e del piacer presente.
seren volgendo il vago ciglio onde ardo;
dammi, bella Eraclea, dammi uno sguardo.
                  Qual sono? Orma non tiene il viso
                                            Non ti ravviso.
                                            Quel che in Atene
                         Ma quel...
                                              Quel tu non sei.
il Clearco di Persia è suo nimico.
questi n’odia la vita. Egli, a me fido,
volea ciò ch’io volea. Questi empio e fello...
Lascia ch’io parli e poi...
                                              No, non sei quello.
Hai ragione, Eraclea. Non son Clearco;
ho l’alma, il core e l’esser mio perduto.
è l’oggetto ove aspiri? Eh, che il suo nome
della sua gloria; or la sua gloria stessa
grande il fa nella Persia e nel mio core.
                                    Come!
                                                   Artaserse
il suo sangue real nel tuo deturpa.
                      Sì, che far degg’io? Che pensi?
Ubbidire e tacere a noi conviensi.
                                    A che t’infingi?
Freme il tuo cor d’un sì vil nodo. Il volto
smente i tuoi detti e ch’io gli sciolga ei chiede.
nel mio zelo e nel braccio abbi più fede.
                                        Giammai la Persia
                                         Questa fu sorte.
Virtude e non fortuna è l’esser forte.
                                               Il re ne apprezza
                                         Ei l’alzi ancora
Quando Palmide l’ama, ei già n’è degno.
ciò che a te negherei, l’affetto mio.
tua gloria e sorte mia che dal tuo assenso
il destin della Persia e il mio dipenda.
Tutto il mio re da un cor vassallo attenda.
                                                Egli ti deve
che in Palmide ei mi deva un maggior bene.
Tuo sposo ei sia; né l’imeneo ti sembri
mi son vassalli; il farò grande e degno
fuor che il solo suo re, fuor che gli dei.
(Siete in porto, felici affetti miei).
Nel mio tacer leggi il mio core. Inchino
ne’ cenni d’Artaserse il mio destino.
Sire, de’ tuoi soldati entro del core
Fuggo da’ loro applausi e a te qui giungo.
Sediamci. (Amici or m’arridete, o fati). (Si portano tre sedie. Artaserse siede nel mezzo, Palmide alla destra e Temistocle alla sinistra)
                                         (Occhi adorati).
di tua virtù. Vo’ che tu meglio intenda
quanto t’ami e t’apprezzi il cor reale.
Ciò che ti devo è al tuo poter eguale.
che abbia scettro minor, darti potea.
Più ti deve Artaserse e già tel rende.
(Gioie eterne del cor, chi ben v’intende?)
che fu a Serse germano, a me fu zio.
Ma il minor de’ suoi vanti è il real sangue;
io t’offro la sua destra, ella il suo core.
                                         (E tua l’amore).
son fra’ re? Son fra’ numi? Ah lascia, o sire, (Si leva d’improvviso, s’inginocchia e bacia la mano ad Artaserse)
che a’ piedi tuoi sulla real tua mano
bacio di gioia e di rispetto imprima.
Sorgi. Così gli eroi virtù sublima.
l’onor d’esser tuo servo. A te si deve
Di Temistocle il core è picciol regno.
Quel che approva Artaserse, è già il più degno
lieto non son; chi ’l crederebbe? Il meglio
                 La gloria aver del meritarla.
Facciasi per tua pace; ecco ti chiedo (Fa cenno a Temistocle che di nuovo si assida e Temistocle ubbidisce)
la tua, la mia vendetta. Abbiam nimici.
È vantaggio comun la lor rovina.
Ti chiedo un benefizio e in un tel rendo.
Qual nimico domar? Qual mi conviene
                                      Quello d’Atene.
empia gente, a te ingrata, a me nimica.
Gente rea de’ tuoi mali e de’ miei sdegni.
Là, perso duce e cittadino offeso,
l’armi e i colpi rivolgi e falle, invitto,
il gastigo sentir del suo delitto.
Tutto ristringo in brevi accenti il core.
La patria al saggio è dove trova il bene.
Il retto oprare è il vero ben del saggio.
Ingiusto è forse il vendicarsi?
                                                       È vile.
La sconoscenza è più viltà.
                                                 Non ponno
o trovarmi un ingrato o farmi un empio.
                            (O destino!)
                                                     (O core, o esempio!)
                                               Io le son figlio.
                                           E il mio possiede.
                                     E a me la diede.
                                                  È mia sventura. (Artaserse parla più risoluto e Temistocle si leva)
                                         Rendimi, ingrato,
Un dono di virtù, virtù mi toglie.
                                               Il frutto e l’uso
esser dovea tua gloria e non mia colpa.
Patria! Amor! Gratitudine! Tormento!)
(Sol la perdita mia fa il suo spavento).
questo s’aggiunga, un util tempo e breve. (Si leva e seco Palmide ancora)
Vuol la Grecia il tuo sangue; io voglio il suo.
Nel momento fatal, ch’è dono mio,
il più misero insieme e il più felice.
T’amai da che ti vidi. Han que’ begli occhi
prevenuto Artaserse; e il suo comando,
Ma qual sorte è la mia? Nel punto stesso,
mi vien tolto l’onor del meritarti.
                                           Ah, che sol puote
                                         Inutil gloria,
se poi del più crudel fia la vittoria.
                                        È peggior morte
                                      Degna la patria
                                        Eterno dura
amor che il cielo impone e la natura.
                                       T’amo col giusto.
T’amerei col più vil, se reo t’amassi.
                             Morire e un cor serbarti
se pur colpa non è ch’egli osi amarti.
mette in rischio la Grecia ed il cor mio .
Dammi il tuo ferro. È d’Artaserse il cenno.
m’impose il re la tua custodia.
                                                        Addio,
Palmide. Ha risoluto il ciel ch’io pera.
                                  Vattene e spera.
ad un tratto cangiò! Stimola l’ire
come spia della Grecia al re lo infama
e vuol torgli il maligno e vita e fama.
                                                Ei qui si guidi. (Alle guardie)
                                      Vil pentimento
                                            Spesso il periglio,
che si sfida lontan, vicin si teme.
L’oro al foco s’affina, al rischio il forte.
Uom perché muor, non perché tema in morte.
                 Tutto è livor.
                                           (Reggimi, o sorte). (Arsace si ritira in disparte)
dopo la Grecia sostenuta, o duce,
a te non rimanea che la tua gloria.
Maggior sei di te stesso; e già volgari
Salamina ed Eubea, Sparta e Corcira.
all’invitta virtù del tuo rifiuto.
questo segno io dovea d’averla amata.
gratitudine, amor, premio e speranza?
Spesso il mutar consiglio è più costanza.
il ben, che le rendesti, ora le invidi.
Non lice mai l’orme seguir dell’empio.
Pospongo alla tua gloria il suo vantaggio.
E per troppa amistà sei poco saggio.
che l’amarmi a te noccia, a me non giovi.
presso al tuo re ti sia di merto.
                                                         Io dunque
ciò che meglio t’aggrada. Io farò poi
Parto. Han cor che vacilla anche gli eroi.
che sincera amistà mova i suoi detti?
Ma Cambise m’è noto; egli odia e finge.
che indizio è di viltà l’odio coperto.
                                                          Il tuo gran merto.
Vien Clearco e la figlia. Or quivi, Arsace,
mi ritiro in disparte e poi ti seguo.
da quella man ch’io più credea pietosa
anche per me vi saran ceppi; anch’ io
Me pur guida in trionfo; e fa’ che Atene
compisca in me del genitor le pene.
Io dunque il reo son de’ suoi mali? Io dunque
Tu là il trarrai, dove la patria iniqua
Ma pria di lui cadrà Clearco esangue.
No, con tal pena mia, con tal tuo rischio
Crudele, ancor la mia pietà rifiuti?
                                   Or che far posso?
e salva il genitor, s’ami la figlia. (Temistocle s’avanza nel mezzo)
E perdi il genitor, se vuoi la figlia.
                     Sì.
                             Di chi ti guida a morte
checché di noi sia decretato; e in lui
ama il voler del padre e lo rispetta.
                                            Sposa diletta.
Il tuo zelo conosco e la mia fede.
cittadin, pria che amico e pria che amante.
Ascolta il tuo dover, non il tuo amore;
e pria servi alla patria, indi al tuo core.
lascin perir tanta virtude in terra.
Bella Eraclea, fuga il dolor dal seno;
come dono del padre amami almeno.
Deh, non ti lusingar. A core aperto
e le speranze tue tolga d’inganno.
Tra lo sprezzo e l’affetto incerta è l’alma,
come del padre è la salute incerta.
il destino fatal del nostro amore.
Prova la tua innocenza e poi t’assolvo.
Ti giudico col mio, non col suo core.
                                 A te la diede allora
con chi trovo sì iniquo, essere ingiusta.
                                         E che far posso?
e salva il genitor, s’ami la figlia.
Sì, t’intendo, Eraclea. Già corre il grido
Fiera necessità ch’esser io deggia
crudele amante o cittadino iniquo!
Temistocle, Eraclea, patria, amor, fede,
Nunzio di lieti avvisi a te m’inchino.
riconosce più grato i tuoi favori.
quel del suolo natal tenero istinto?
                                              Egli poc’anzi
                                 Ei mel confermi ancora.
Tosto a noi venga. (Alle guardie)
                                    (Ira e dolor m’accora).
                                      Io sposa...
                                                           Attendo
                                             O reo mel doni.
Io della Grecia i voti, alto monarca,
già esposi. Or nulla aggiungo. Al tuo gran core
ciò che far deggia è noto. (O patria! O amore!)
nel cui dubbio destin l’Asia è tremante.
               O caro padre!
                                          O illustre amante!
a stabilir le mie speranze. Vieni
a tor me d’incertezza e te di rischio.
il più bel de’ miei doni e de’ tuoi voti.
Nel punto stesso, in cui le giuri amante
dell’empia Grecia e dell’iniqua Atene.
d’Imeneo la facella e di Bellona;
pronubi a’ tuoi contenti, a’ tuoi trofei.
Signor, pria che m’esprima, al zel, che serbo
della tua gloria, il favellar permetti.
             (Lungi da me, deboli affetti).
che onora la mia patria e non la strugge.
d’un greco hai d’uopo? E tanto l’Asia è vile?
debile tu saresti e non invitto.
e l’esito discolpa ogni delitto.
la fede e il cor de’ tuoi vassalli offendi.
è la gloria maggior del lor servaggio.
Ma penso ancor ch’ei mi ti rese amico.
Amico, è ver. Vuoi ch’oltre l’Indo e il Gange
Vuoi che l’Istro gelato e il Nilo ardente
Vedrai la mia vittoria o la mia morte.
chiedimi, o re. Chiedimi un prezzo eguale
Il più bel degli acquisti è il più bramato.
                                            E questo avrai
forse dal tuo valor, dal mio non mai.
                                                Io son confuso.
                                  Ma tu poc’anzi?...
                                                                    Allora
                                         (Ei mi derise).
                                  (Destin severo!)
quello sfuggir, questo serbar né posso.
                                            Basta un momento,
E la morte, ch’eleggi, ancor avrai. (Furioso)
ritornarti a quel nulla, ond’io ti trassi,
da quel grado abbassarti, ove io t’alzai.
Poi la morte, ch’eleggi, ancor avrai.
                            (O ria sentenza!)
                                                             (E freno il pianto!)
prima son dal mio cor che dal tuo labbro.
Questa è la colpa e la miseria mia,
Giusta è la tua sentenza; io la ricevo,
Non cerco nel mio onor la mia discolpa.
Meritati ho i miei mali; a me nimico,
le mie ritorte io stringo. Io porto il ferro
nelle viscere mie. Mi nego un bene,
lode, non che discolpa ad ogni eccesso.
questo reo, questo ingrato; e fa’ ch’io mora.
per l’onor tuo. Ti bramerò vassalli
che imitin la mia colpa e la cui fede,
gli altri irritar, come la mia t’irrita.
Non m’irrita il tuo cor, mentre io l’ammiro.
Serbai dall’ire, onde il sembiante accesi,
Temei la tua viltà, quand’io la chiesi.
di quel ben che rifiuti. Io t’amo in esso;
amo la tua costanza; amo anche Atene,
perché t’è cara, e la dichiaro amica.
Tu non sei più stranier. Vivrai nell’Asia,
Palmide sia tua sposa; aggiungo al dono
Son maggior re, quando tuo amico io sono.
                     (O sorte!)
                                          (O re maggior del trono!)
Signor, che dir poss’io? Già sento oppresso
non meno che il poter, l’uso de’ sensi.
non si tardi l’effetto. A lui la destra,
                              A te ubbidir m’è gloria. (Palmide dà la destra a Temistocle)
                         Io contenta.
                                                 Ed io beato.
nunzio ritorna e fa’ che l’odio estingua,
Tutto il mio fasto è in vagheggiar rivolto
l’immagine de’ numi in quel bel volto.
Temistocle, avrai vinto, io te ne accerto,
dopo tanti trofei l’odio d’Atene.
Questo solo piacer manca al mio bene.
                                    Più caro laccio
                                              Or sì t’abbraccio.
tanta virtù con miglior occhio; e cada
innanzi a tanto merto il tuo livore.
Sia il voler del mio re legge al mio core.
Or vegga ognun che un regnatore augusto,
più che grande e temuto, ama esser giusto.
più che grande e temuto, ama esser giusto.

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