Metrica: interrogazione
566 settenari (recitativo) in Venceslao Vienna, partitura 
Venceslao sempre invitto,
già ’l superbo cosacco
de l’alme più rubelle
grand’esempio e gran pena,
da più colpi trafitto,
là su l’Istro confessa
Le tue vittorie, Ernando,
del poter nostro. Hai vinto;
Vieni, onde al sen ti stringa,
                                O sempre
non dee lasciarmi ingrato.
                Temo nel prezzo
Vil non fia ciò che puote
Dirò, poiché l’imponi,
                 (Ah! Più nol soffro).
                            Ammutisci,
troppo altero vassallo.
Tu de l’amico Ernando
che non fia chi ’l sorpassi
E ch’ei tema, gli aggiugni,
Ma che un basso vapore,
che un mio servo, un Ernando
il possesso di un bene?
Vedrem ciò che far possa
l’illustre principessa...
stranieri in quella corte...
                     È morta forse?
la vidi in viril manto,
             Che far poss’io?
Gli affetti a lei dovuti
Lucinda, in quella reggia
e sempre amato e pianto.
Qual di sì lungo indugio
scusa addurrà? Mio caro,
vi affissate, o miei lumi?
l’alto onor d’inchinarti.
                              Lucindo.
                    Sì, l’erede
s’incontraro co’ suoi,
scambievol fiamma. Io seco
(Fisso mi osserva). Omai
si scrisse il sacro nodo,
si diede il casto amplesso.
Così m’impose il dirti
fa’ ch’io ’l sappia, onde fine
(A lagrimar mi astrigne).
(Che le dirò?) Signora,
Dimmi, che sperar deggio?
amore ha colpa? O ’l regno?
mi partii dal mio regno,
Vo’ saperlo; e pur temo
A l’ombra de’ tuoi lauri
                           E grande.
Ora un più lungo indugio
Ma quale è ’l tuo consiglio?
                               O dio!
Temi il mal, non il bene.
l’amor, la fede, Ernando.
Verrò cinto da l’ombre
Perché rispetti Ernando
                   (Fra sé che pensa?)
Da lei che adori, or prendi
                             Perché?
non è offesa al tuo grado,
ti trasporta il tuo sdegno.
Dentro il venturo giorno
                L’amor di Ernando
grave offesa è al tuo grado.
Tua beltade ha l’impero
Questo è ’l tuo sol comando,
                              Amore.
Questo è ’l tuo sol disio,
                    Spergiuri affetti,
Il tuo amor, la tua fede
S’introduca il messaggio.
Ubbidisco. (E sin quando
più de l’Istro e del Tebro,
principe, i passi. A quanto
Questo che al re presento
                                      O note!
                  Prendi. Rimira.
Que’ caratteri impressi
«Per quanto è di più sacro, (Legge)
signor; mentito è ’l grado,
né vergai questo foglio
testimon più non resti,
                      Casimiro,
tuo egual, che meco trassi
per mia bocca or t’invita
                                Assento
Sotto il peso degli anni
insultar l’egra salma,
e ti affretti il comando.
e stan sopra i regnanti.
                            Eh! Sire,
gli dii. Ma s’anche fosse
godrà l’amico. Io ’l nodo
nel piacer de’ tuoi lumi
                Sì, principessa,
che del tuo ben, ti lascio.
Che? Un ingiusto divieto
                    Già nel mio core
son reo. Lascia che almeno
Parli il labro e ’l confessi,
Tu scherzi; o sì amoroso
per più offender l’amico?
Per più macchiar... Ma dove,
ma d’amico e da forte.
E m’ami, alfin vuoi dirmi,
Voglio esser reo né posso.
Deh! Più credi, Erenice,
Felice incontro. Arresta,
bella Erenice, il piede.
Egli è ’l prence, l’erede
de l’impuro tuo affetto?
Vane lusinghe. Io scorgo
l’insidia è ’l pentimento.
                       Che rechi?
L’offerta di un diadema,
già sposa ad altri amplessi.
                                   È tempo...
(Sangue preveggo e lutto).
Ma in lui la grave offesa
Disprezzo il fa costante.
giunser mai con gl’incensi
raggi propizi e in questa
anche i più brevi indugi,
O tu, che ancor non veggio
t’è di Lucinda il nome?
Dunque a l’armi, o spergiuro,
campion che a darmi morte
ho la ragion de l’armi,
Su, strigni il ferro; e temi
Ben saprà questo acciaro
Sei vinto; ed è ’l tuo torto
Questo de’ tuoi misfatti
pien di scorno e di duolo
Gismondo, ov’è ’l mio figlio?
                                  Gismondo,
Che acciaro è quel? Che sangue
ne stilla ancor? Qual colpo
Che orror? Che turbamento
                  Parla.
                               Poc’anzi...
andai... Venni... Lo sdegno...
L’amor... L’una ne l’altra
                                         O dio!
                                   Ed io,
Ma nol dicesti, o figlio,
Io morto? Ho vita, ho spirto
                            (O ferro!
In qual seno t’immersi?
che il tuo dolor mi chiede.
Del pari ambo i tuoi figli
per me avvampar. Ma ’l foco
sparso era il ciel, quand’egli
Come? Morto è Alessandro?
                                 (O cieco
Quell’orror, quel pallore,
quegli occhi a terra fisi,
L’uccisor di un fratello
                     Sì. Ubbidisci.
Eccola, o re. (Già ’l core
Dunque il prence condanni?
il suo periglio è certo).
(Lungi, o teneri affetti).
Regina, il pianto affrena.
            Dal duro ufficio
                                    Or vanne
Ti si compiaccia. Andiamo.
Ma se ’l prence al mio amore
Ben ne ho dolor; ma indegno
ed or, bella, a’ tuoi piedi
tuo pianto io son contenta.
               Dal regio labbro
                                    O sorte!
Chi ’l crederia! Poc’anzi
anch’io voglio, anch’io giuro.
le stringe; e questa reggia
            Si avvanza a’ tuoi cenni
                              Venga.
Figlio, in onta a tue colpe
Tutt’altro oggi attendevi,
                                Deh! Come
m’è ’l dono tuo. Lo accetto,
                             E vita
                                 Regina,
                    In Casimiro
                           Padre.
la fé per più tradirmi?
Carnefice e’ vuol torti
empierò d’ira il regno,
Crudel, sei sposo ancora.
Anzi questo è ’l sol nome
che più mi è caro. Io meco
Va’ pur. Ti è cara, il veggo,
Sì, vivi. Il dono è questo
di dar morte a’ custodi,
                               Sì tosto
si avvilisce il tuo sdegno?
Pera anche il re ma ’l colpo
che tu ’l comandi o ’l vibri?
                                Parmi
tutta incendio e tutt’armi
veder la reggia, il figlio
Giorno, o quanto diverso
Prostrato al regio piede,
                            E senza
morto, è vero, io volea
Tutto obblio, tutto taccio;
                       E prendi in questo
l’ultimo abbracciamento.
                    Ahi pena!
                                         Ahi sorte!
Esser non posso al figlio
buon giudice e buon padre...
Per me non vegga il regno
A l’ombra di Alessandro
passan le colpe in legge;
                            Opportuno
L’avrai, quando anche fosse
rompi ogni induggio ed arma
                                      Il prence...
non affretti al periglio,
Sono infranti i suoi ceppi,
tu non vi accorri, invano
Sì sì, popoli, Ernando,
Seguitemi. Oggi il mondo
Che sarà? O del mio sposo
Dunque in onta del padre
che chieder posso. Ah! Prima
rendetemi a’ miei ceppi,
v’è chi si opponga, questo,
del mio, del vostro eccesso
Ed è vero? E lo veggio?
volontario a’ tuoi ceppi;
Ora non fia ch’io chiuda
                                Al soglio
piego umil le ginocchia.
(Cor, non anche t’intendo).
                               Conviene
con la pietà di Ernando
e assolver non ti posso.
Gioie, non mi opprimete.
pensier di nuovo affetto,
Figlio, sul trono ascendi;

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