Vincislao sempre invitto,
grand’esempio e gran pena,
Le tue vittorie, Ernando,
del poter nostro; hai vinto
vieni, onde al sen ti stringa, (L’abbraccia)
amico duce. (S’abbracciano)
non dee lasciarmi ingrato.
Vil non fia ciò che puote
tutto il premio ch’io cerco
in sé racchiude un volto.
che non fia chi ’l sorpassi
E ch’ei tema, gl’aggiungi,
che un mio servo, un Ernando
allor che stanno in vita.
vi affissate, o miei lumi?)
(Il mio Gildo v’è ancora).
l’alto onor d’inchinarti.
Gildo? (Da parte tra loro)
scambievol fiamma; io seco
Ed ancor fai del sordo? (Come sopra)
fa’ ch’io ’l sappia, onde possa
dimmi, che sperar deggio?
e seco è il duce, il solo
Ma qual è il tuo consiglio?
Pria che risorga il giorno
Temi il mal, non il bene.
l’amor, la fede, Ernando.
non è offesa al tuo grado,
grande offesa è al tuo grado.
Questo è ’l tuo sol comando
Questo è il tuo sol desio
non c’è alcun buco in corte
ma poi circa al suo aspetto
Di’ ciò che vuoi ch’io dica
Gerilda, oh dio, non più.
Figlio, nel forte Ernando
Anche la gloria, o padre,
più dell’Istro e del Tebro,
principe, i passi, a quanto
Questo che al re presento
«Per quanto ha di più sacro, (Legge)
tuo egual, che meco io trassi
per mia bocca or t’invita
con me ti sdegni a torto,
che tu rimanghi uccisa...
E se, ch’il ciel non voglia,
(sia detto in fondo al mare)
in terra ucciso io resto,
senti che punto è questo;
Vanne ch’or or vedrai (In disparte)
godrà l’amico; io ’l nodo
son reo, lascia che almeno
Sia l’ubbidirti, o bella,
parli il labro e ’l confessi,
E m’ami, alfin vuoi dirmi,
voglio esser reo né posso.
S’è ver che m’ami Ernando,
Fuor del mio sposo, ogn’altra
Felice incontro! Arresta,
egli è il prence e l’erede
chiedi in moglie Erenice?
ch’io ti volea, t’ho giunto.
giunser mai con gl’incensi
raggi propizi e in questa
anche i più brevi indugi,
O tu, che ancor non veggio
t’è di Lucinda e ’l nome?
Fede non le giurasti? (Casimiro non la guarda)
Dunque all’armi, spergiuro. (Dà di mano alla spada)
campion che a darmi morte
Su, stringi il ferro e temi
ma se infido e incostante
no no, ch’io non comporto;
Oh sorte! Più che altrove
Quello ch’io faccio il fo
credo ben ch’abbi addosso
Oh via, lasciam le burle.
perché, se un dì ti pare,
A lui vado veloce. (Parte)
E pur cresce nel seno (Scende vicino al tavolino)
Che acciaro è quel? Che sangue
ne stilla ancor? Qual colpo
Che orror, che turbamento
andai... Venni... L’amore...
Lo sdegno... (Una ne l’altra
Gran timido è un gran reo.
Ma nol dicesti, o figlio,
Io morto? Ho vita, ho spirto
Signor, che il tuo potere (S’inginocchia a’ piedi di Vincislao)
che il tuo dolor mi chiede.
Senza offenderti, o sire,
Del pari ambo i tuoi figli
per me avvampar; ma il foco
sparso era il ciel, quand’egli
la mia, non la tua causa.
quell’orror, quel pallore, (Aditando Casimiro che sta confuso)
quegl’occhi a terra fissi,
Già cedo al nuovo affanno.
Eccola, o re; già il core
il suo periglio è certo).
Questa è, o re, la tua fede?
Regina, il pianto affrena;
Dal duro offizio, o Ernando,
Ti si compiaccia. Andiamo.
Ma se il prence al mio amore
io qui portato ho il piede.
Ah inumano! (Fingendo la voce)
Aimè! Che questa è l’anima
che qui son stata uccisa.
Elisa? Oimè! Chi è stato (Gli si accosta)
In mezzo al petto. Oh dio!
Eccomi qua col lume, (Con un candeliere in mano)
Il malan che ti dia. (Si scopre il volto e Gildo resta immobile con il lume in mano guardandola)
Giove, non pensar già (A Gerilda)
Ben ne ho dolor; ma indegno
ed or, bella, a’ tuoi piedi
tuo pianto io son contenta,
Il re ci attende, andiamo,
li stringe; e questa reggia
Ahi! Che mentre nel petto
Figlio, in onta a tue colpe
Tutto altro oggi attendevi,
m’è il dono tuo, lo accetto
che far? Che dir poss’io,
Crudel, sei sposo ancora;
Anzi questo è ’l sol nome
che più m’è caro; io meco
Va’ pur; ti è cara, il veggio,
si avvilisce il tuo sdegno?
Pera anche il re ma ’l colpo
che tu ’l comandi o ’l vibri?
tutta incendio e tutt’armi
Io dar perdono? Ernando...
che costui non m’inganni;
S’io t’inganno, mia bella,
già il mio cor s’apparecchia
Che patti? Io mi rimetto.
d’andar a spasso, al gioco,
Giorno, oh quanto diverso
Prostrato al regio piede,
Per me non vegga il regno
L’avrai, quando anco fusse
Presto, signore, all’armi.
Erenice, Lucinda, (Da sé passeggiando)
ch’io chieder posso. Ah! Prima
volontario a’ tuoi ceppi,
piego umil le ginocchia. (Casimiro ascende al grado del trono e s’inginocchia innanzi al padre)
(Non anche, o cor, t’intendo).
e assolver non ti posso. (Corona il figlio)
(Gioie, non m’opprimete).