Metrica: interrogazione
770 endecasillabi (recitativo) in Il Teuzzone Venezia, Pasquali, 1744 
Nostro, amici, è il trionfo. Ingo, il ribello,
cadde; e la pace al nostro impero è resa.
i miei stami vitali invida parca;
l’ultimo è de’ miei dì. Più nobil fine
non poteami dal cielo esser prescritto.
Si applauda. Vissi assai, se moro invitto.
Lascia, o signor, che sulle regie piume,
posta all’esame la ferita...
                                                Eh! Cino,
morire in piedi un re sol dee. Già sento
che intorno al cor stretto è l’assedio; e appena
un avanzo di ardir vivo il sostiene.
Pensisi al regno e non più a noi.
                                                           Tal dunque
ti perdo, o dio! vedova pria che sposa?
cangerà di soggiorno e non di oggetto.
non soggetto a vicende, eterno e puro.
Piega il capo al destino e vanne in pace.
Saprò unirmi al tuo rogo, ombra seguace.
del mio figlio Teuzzon l’anima invitta.
un buon nome, un buon re. Due ne avrò meco,
la vostra fede ed il comun riposo.
del voler nostro interpetre e custode,
chiamo l’erede alla corona; accresco
titoli al sangue e alla natura applaudo. (Gli dà il testamento sigillato)
Bacio la man che a tant’onor m’innalza.
duce del campo, al cui valor tenute
di non lievi trofei son le nostr’armi,
nella tua man depongo; e tu lo rendi
a chi dovrà le leggi impor dal trono. (Gli dà il sigillo regio)
Chino a terra la fronte e bacio il dono.
Ma già vien meno il cor... Perpetua notte
mi toglie il giorno. Il favellar... mi è rotto...
chiedo... in ultimo don... la vostra fede. (Muore)
Regina, egli è ben giusto il tuo dolore.
Un momento ti toglie e regno e sposo.
Fabbro è ognun di sua sorte. Io, che già seppi
il diadema acquistar, saprò serbarlo.
                                           Egaro amico,
te, che da’ miei verd’anni e fede e sangue
al mio fianco già unì, te chiamo a parte
                                    Impaziente ascolto.
sai che per me avvampar Sivenio e Cino.
Di questo cielo i fermi poli.
                                                   Il fuoco
cercò sfera maggior. Nel re mio sposo
alzò la fiamma e dilatò la vampa.
                                Ed in un punto
vergine, sposa e vedova già sono.
asceso appena e mal gustato il trono.
mi si strappi dal sen l’alma e la vita.
se t’insidio l’onor della corona.
che ben vedea quant’io l’amassi, intatta
mi toglie al padre e mi preserva al figlio.
                           Vo’ regnar per regnar seco.
da me, non dal suo sangue. A me frattanto
servan le fiamme altrui. Cino s’inganni.
e per goder, tutto si tenti alfine,
l’amante in braccio e la corona al crine.
                           Ti ritira e taci.
legger ben puoi la comun sorte e il danno.
(Cominci da costui l’opra e l’inganno).
molto perdei. Pur se convien ne’ mali
temprar la pena e raddolcire il pianto,
sol col mio re, non mio consorte ancora,
che illustre mi rendea ma non contenta.
Oimè! Che più non lice all’amor mio
a quel di una regina alzar sé stesso.
Perdonatemi, o ceneri reali,
e tu, bell’alma, alla tua sfera eccelsa
non giunta ancor, tu mi perdona e il soffri.
l’altrui memoria e la mia fama; e sento
salirmi al volto un vivo sangue, in foco
di amore insieme e di vergogna acceso.
Dunque egli è ver che del mio fermo affetto
I miei voti seconda e tua mi giuro.
che il ciel mi diede, e non soffrir, se m’ami,
che abbietta io serva, ove regnai sovrana.
tu m’abbi sposa. A che tacer? Che pensi?
giunger non puoi che per la via del soglio.
Non ascriver, s’io tacqui, il tacer mio
a rimorso o a viltà. Facile impresa
m’è una guerra svegliar dubbia e feroce.
tentar vie più sicure o men crudeli.
Cino anche trar nelle tue parti.
                                                         Egli arde
                                  E per Teuzzon di sdegno.
E l’amor si lusinghi, o mia regina.
gli affetti simular l’anima mia.
La prim’arte in chi regna il finger sia.
Fingasi, poiché il vuoi. Tu omai con Cino
primo l’opra disponi. Offri. Prometti.
seguirò l’arti tue. Ma te, mio caro,
sposo e re abbraccerò, regina e sposa.
Signor, te appunto io qui attendea.
                                                                 Gran duce.
Poss’io scoprirmi alla tua fede?
                                                          Impegno
nel segreto il mio onor. Parla; io ti ascolto.
è periglio comun. Molti e molt’anni
noi regnammo con lui. Teuzzon, suo figlio,
ci riguardò come nimici e in noi
a gran colpa imputò l’amor del padre.
È vero; ma impotente è l’odio nostro.
la nascita e la sorte. E a noi fia d’uopo
sentir la piaga e rispettarne il ferro.
Segui i miei voti e preveniamo i mali.
                                  Allorch’è vuoto il soglio,
sai che non basta al più vicino erede
che lo confermi, in chiare note espresso,
il real testamento e che deporsi
deggia in sua mano il regio impronto. Or d’ambi
dispor possiamo e tor con arte il regno
a chi per noi tutto è livore e sdegno.
Ma come il foglio aprir? Come il reale
Consenti all’opra e ne assicuro i mezzi.
Difficile è l’impegno e più l’evento.
Tal non parrà, quando saprai l’arcano.
                                                  O dio!
                                                                Che temi?
Error che giova è necessario errore.
Ma in chi cadranno i nostri voti?
                                                             In quella
Poi farò sì che del favore eccelso
ella il premio ti renda in farti sposo.
                                               Pensa; trionfa
nel tuo illustre destin l’odio e l’amore.
Innocenza, ragion, vorrei che ancora
Ma se ora deggio in sacrificio offrirvi
l’ambizion, l’amore e la vendetta,
perdonatemi pur; mi sono a core,
più che i vostri trofei, le mie ruine
e mi siete tiranne e non regine.
Argonte, ov’è il mio sposo? Ove il mio amore?
L’hai sì vicino; e non tel dice il core?
È possibile, o cara, o mia Zelinda,
che nel maggior de’ miei dolori io stringa
                                             O sposo! O dolce
di quest’alma fedele unica speme!
che dilegui il mio affanno e il mio spavento!
Tacito duol v’è che non lascia intero
Ma che? Sei lune e sei corser dal giorno
che nel tartaro ciel restai dolente,
priva di te, mio sol conforto; ed ora
ad ogni altro pensier quel di abbracciarti.
Negar nol posso. Il genitor mi tolse
empia, immatura morte. Ah! Tu perdona
s’ora divide i suoi tributi il ciglio
tra gli uffici di amante e quei di figlio.
Del tuo duol degno è il padre.
                                                       Or sì con sacra
pompa verrà qui alla sua tomba il regno,
per onorarne il funeral primiero.
Io, se vi assenti, ad ogni sguardo ignota,
ne osserverò la strana pompa e il rito.
col pubblico voler quello del padre,
del fausto dì col tuo bel volto i rai.
                                          Eh! Teuzzone!
Perché l’ora più fausta al tuo riposo
splenda, o mio genitore, arda e consumi
figlie di puro sol, candide perle.
tributo de’ miei lumi, urna ben colma
l’amor mio ti consacra, ombra diletta.
                                           Io d’ostro...
                                                                  Io d’oro...
                                  E il sacrificio onoro.
D’arte e d’inganno ecco, regina, il tempo.
un geloso timor. Già sai ch’io fingo.
se l’aureo scettro e il bianco seno io stringo).
Cino, l’amor, con cui mi è gloria alfine
io non vorrei che interpretassi a fasto.
Ragion mi move ad accettar la destra
per esser tua. Da quel poter, cui piacque
cader, senza tua colpa, io non potrei.
Per una sorte, onde m’invidi il cielo,
la vendetta, la strage e la ruina.
O cadrò esangue o tu sarai regina.
                                  O dio! Troppo amorosa (Piano a Zidiana)
                       È tutto inganno; il sai. (Piano a Sivenio)
(Miglior sorte in amor chi provò mai?)
Più non s’indugi. Andiamo, o prence, e svelto
cada di mano al fier Teuzzon lo scettro.
                                     Anzi di amico.
                                  In amistà ti abbraccio.
(E due cori così prendo ad un laccio).
                                         Ah! Che far posso?
Donna? Sola? Straniera? In tal periglio?
Suggeritemi, o dei, forza e consiglio.
Per non solite vie tentar conviene
la sorte mia. Voi nella reggia il passo
cauti e occulti vi aprite. Ove fia d’uopo,
al vostro braccio avrò ricorso. Argonte
solo mi segua, ove m’inspiri il cielo.
E verran meco ardir, costanza e zelo.
Pria che del morto re l’alto si spieghi
serbar le prische leggi ognun qui giuri.
è del morto Troncon l’alto decreto.
«Noi della Cina imperador, Troncone,
vogliamo, e serva di destin la legge,
che dopo noi sovra il cinese impero
passi la nostra autorità sovrana
in chi n’ha la virtù. Regni Zidiana».
leggi: «Troncone». Ei stesso scrisse.
                                                                  Il padre?...
                              Ed a Zidiana, o prence,
è supremo voler ch’io porga il sacro
Ubbidisco, o regina, e adoro il cenno.
(Sono in porto i tuoi voti, alma giuliva).
scudo insieme e splendor, principi e duci,
su questo soglio, ov’io mi assido e regno,
regnò un tempo e si assise anche Lieva,
donna di spirti eccelsi e d’alma invitta.
le virtù più virili; e i re temuti
sarà il pubblico bene. A’ vostri sonni
del suo amor, di sua scelta il re mio sposo,
cercherò sol nel vostro il mio riposo.
                                         Io primo in grado
meco giurate e vassallaggio e fede.
Sieguo l’invito e l’umil bacio imprimo.
e in bacio riverente il giusto adempio.
tu pur nascesti. A giurar vieni e vieni...
di quel trono usurpato almi custodi,
che voi siete ingannati ed io tradito.
L’amor paterno? E le speranze vostre?
l’altrui perfidia. E ch’io lo soffra? E voi
protettor di ragione e d’innocenza,
meco sarà. Meco sarà virtude,
Chi del giusto è amator, segua il suo re.
                                           (O dei!)
                                                             Regina,
vacilla il tuo destin, s’egli non cade.
E il tuo primo periglio è la pietade.
Ite veloci ed eseguite il cenno.
Fermate, iniqui, e non osate a’ danni
del vostro re volger le piaghe e l’ire.
regnar felice, or non voler che il regno
quel che brami versar; né ti conviene
cercar tinta miglior nelle sue vene.
al tuo signor, senza volergli ancora
tor la vita innocente. Assai fallisti;
qualch’ira degli dei non provocata.
                         (Che volto!)
                                                 O tu ch’osi cotanto,
non so se d’ira o da follia sospinta,
che risponder non degno ad uom sì iniquo.
il poco senno e il debil sesso. A forza
le deità più sacre. Ella ad Amida
Tutto sa, tutto vede e quanto ell’opra,
quasi raggio da sol, vien di là sopra.
mai non si tenti; e in chi ne vanta i doni
si rispetti l’audacia anche del vanto.
tu del campo fedel conferma i voti.
egli tenta previeni. Indi le pompe
di questo giorno a noi sì sacro, in cui
sia tua cura dispor. La comun pace
e me stessa confido al vostro affetto.
Pria che la fé, mancherà l’alma in petto. (Si parte)
giugni addentro ne’ cori e tanto vedi,
chiaro ben sai s’altro più tema il mio
che di Teuzzon la morte e la ruina.
Regna sovra i tuoi sensi e sei regina.
Ragione imperi ed il tiranno è vinto.
                                      Sì, dove il cieco
desio di dominar regge a sua voglia.
O il tutto non intendi o il peggio taci
                         Quando gli errori in parte
assolvo il volto altrui da un gran rossore.
                              Ah! Sii pietosa, o donna,
va’, ten prego, a Teuzzon. Digli che alfine
Regni ma per me regni e l’abbia in grado.
            Renda...
                              Segui.
                                            Amor... Zidiana... Il regno...
S’intende un cor, quando sospira e tace.
Argonte, io non m’inganno. Una rivale
                                   E l’amor suo ti giova.
Non mai con pace una rival si trova.
                          La sua fede offendi
                            Io non sarei sì amante,
Ma Zidiana è matrigna e tu sei sposa.
innocenza ed amore. In traccia andiamo
del mio Teuzzon. L’incominciata frode,
saprà rendergli forse anche il suo regno.
Lieto sia, com’è giusto, il tuo disegno.
con più innocenza; e non mai dentro un core
ebbe più ingegno e più coraggio amore.
già dal vostro valor domo l’inganno;
e trofeo di virtù, veggio di fronte
cadere al fasto i mal rapiti allori.
che fa incauti il poter, vili il rimorso.
vi fo scorta al trionfo. Al vostro zelo
la ragione combatte e serve il cielo.
                                                (O dei! Zelinda?)
A vincere o a morir. Addio, mia cara.
Ferma, che se vuoi regno, io te lo arreco.
Se morte, ho core anch’io per morir teco.
sì funesti presagi a’ miei trionfi.
Debole? E contra tanti? Io non condanno
i solleciti voti, i fiacchi mezzi.
Non è ceder vendette il maturarle.
in sì grand’uopo onde poss’io?
                                                         Dal tempo.
Il tempo anzi più serve a’ miei nimici;
                                            E inerme credi
assalire un tiranno? A lui, che teme,
la più forte difesa è il suo timore.
Egli è più da temer, che alla vittoria,
se non giova la forza, usa l’inganno.
la parte, ch’è più giusta, è la più forte.
Ma una ignobile vita è sol mia morte.
Le vostre vene, o barbari nimici,
ti rimove dall’armi, almen permetti
anche i Tartari miei; pugni anche Argonte;
fida ti seguirà la tua Zelinda.
Su, mi si arrechi elmo, lorica e brando.
Per soffrir l’armi e per vibrarle in campo
o prenderlo saprò dall’amor mio.
per quel tenero sen l’armi che chiedi.
E tu, Argonte, rimanti. Il mio destino
non è ben certo e alla mia sposa troppo
Temi il suo amore; e se nel cielo è forse
la riconduci al padre e la consola.
E mi credi sì vil che alla tua tomba
Lascia i tristi presagi e dammi, o cara,
                                           (Il cor si spezza).
cieli, se v’è pietà, l’ultimo amplesso.
No, mio ben, nol sarà. Tu resta, io vado,
tu a combatter co’ voti ed io con l’armi.
O tornerò con la corona in fronte,
o di questa già scarco inutil soma,
verrò a prender l’addio dal tuo bel volto.
                                   Ne’ dubbi casi
sempre affligge il timore e spesso inganna.
mi si affollano orrori. Udir già parmi
Miro l’ire, le stragi e miro, o dio!...
Tutto piaghe languir l’idolo mio.
Con amor sì pudico e sì fedele,
giusto ciel, come sei tento crudele?
Teuzzon vuol armi ed ire. All’ire. All’armi.
di piacere al crudel, l’esser crudele.
Ferro se gli presenti, odio e vendetta.
Gli sia pena la morte e sembri dono.
Teuzzon cercate. In lui volgete i colpi.
Piagatelo; uccidetelo... Ah! No, tanto
ch’io giunga a dirgli ingrato; ed ei mi senta.
piace più del mio scettro e del mio core
                            Libera parla; esponi
com’ei ti ricevé. Che fe’? Che disse?
Non tacer ciò che serva ad irritarmi.
                     Vuol armi ed ire. All’ire. All’armi.
Non ascolta ragion sdegno ch’è cieco;
il tuo sia da regina. Odimi e poi
                                     Tuoi detti attendo.
(Giovi il mentir). Per tuo comando in traccia
ch’era accesa la mischia; e il vidi, ahi! tinto
non so se del suo sangue o dell’altrui.
Come potea vergine imbelle aprirsi
fra le stragi il sentier? Parlar di amore
ove Marte fremea? Misero prence!
Cinto il lasciai da cento ferri e cento,
oggetto di pietade e di spavento.
propizio è il cielo. Or sei regina. Hai vinto.
                                Morto egli è forse?
                                                                    Ei vive;
ma volte in lui l’armi, le forze e l’ire
gli tolgon le difese e non l’ardire.
Cadrà, se tardi... Ah!... Nol soffrir...
                                                                 (Vi sento,
va’, riedi al campo, i cenni miei vi reca.
ch’ei prigioniero al mio poter si renda.
                                         E non amore? (Piano a Zidiana)
Tu l’arcano ne sai. Salva il mio core.
qual pietà per Teuzzon? Qual turbamento?
Nella sua morte il tuo dolor pavento.
                             Ed in mercé ne avrai
Fan sempre i gran favori un grande ingrato.
Non è mai sconoscente il generoso.
Ad un timido amor tu fai lusinga.
ceda l’alma orgogliosa a’ miei desiri?
Vuoi ch’io libera parli e senza inganno?
non è facil trofeo. Zelinda il tiene,
diè nel tartaro ciel fede di sposa.
E sprezzata sarò per altra amante?
Non disperar. Lo vinceranno i tuoi
favori eccelsi e il suo destin presente.
Tutto può amor di vita e amor di trono.
(S’ei mi tradisce, ah! che di morte io sono).
a’ tuoi guerrieri in sulla man feroce
la morte di Teuzzon. L’hai prigioniero.
Ma troppo importa il far ch’ei cada estinto
È in balia del mio amore il suo destino.
e dall’odio il difendi e dalla frode.
Mercé al vostro valor, che sulla fronte
mi fermò la corona, oggi alla mia
felicità nulla più manca, o duci.
Mancavi ancor la miglior gemma. E questa,
                          Che?
                                      Di Teuzzon la testa.
                          Tu impallidisci? E temi?
Fregio della vittoria è la clemenza.
toglier ci può della vittoria il frutto.
                                                      Si dee
la sua vita temer, la sua sciagura.
Vi assento anch’io ma si maturi il colpo.
Nuoce all’opra talor lungo consiglio
ed il lento riguardo è un gran periglio.
mora Teuzzon; ma giusta sembri al regno
pongansi omai; legge le pesi e dia
la sentenza fatal ragion, non odio.
Giudici voi ne siate; e il gran decreto
poi la destra real segni e soscriva.
                                         (E amato ei viva).
Tutto abbiam vinto, amico; e pur non posso
Dei regnar, dei goder; e hai cor sì vile?
Aver ci basti un innocente oppresso;
ricade nell’autor. Siamo in un mezzo
che o perir ci conviene o compir l’opra.
In noi l’odio cadrà, l’infamia in noi.
come fiamma senz’esca, odio impotente;
e la colpa felice anche è innocente.
Ecco il prence. Suoi giudici sediamo.
Non mancano al poter giammai pretesti.
Ogni nostro delitto è già suo fallo;
e non abbia riguardi un reo vassallo.
                                                 Iniquo,
ti dia sovra di me la mia sciagura.
Sono il tuo re; tal mi rispetta; e siedo.
                               Tal siedi e parli,
perché ti è ignoto ancor che reo ten vieni
Voi miei giudici? Voi? Due bassi e vili
vapori della terra osan cotanto?
giudicato io sarò? Qual legge umana,
Altro giudice un re non ha che il cielo.
Chi dare il può questo poter ci diede.
                    È usurpatrice.
                                                È tua regina
giustifichi per tema un tradimento?
Rimprovero crudele, al cor ti sento.
Contender seco è un avvilire il grado.
segnar le accuse, le difese e gli atti
                                      Mi accingo all’opra.
sono infrante le leggi. A’ voti estremi
del genitor disubbidisti. Il sacro
giuramento a sprezzar cieca ti mosse
Ribel l’armi impugnasti e i nostri acciari
fuman per te di civil sangue ancora.
Tu ne reca, se n’hai, le tue discolpe.
render ragione a tribunal sì iniquo.
E mancan le difese a reo che tace.
il giusto irrevocabile decreto.
che orror faccia alla terra, infamia al regno.
                                          Scrivasi, Egaro,
(Giudicata così muor l’innocenza).
Duci, soldati, popoli, a voi parlo;
a voi mi appello della legge iniqua,
spurio aborto d’inganno e di livore.
giudice lui, né il suo giudizio approvo,
l’anima siete e di chi l’empie il braccio,
siate il giudice mio. Ragion vi rendo
di mia innocenza e poi giustizia attendo.
Tu segna ancor l’alto decreto.
                                                      O numi!
                                        Tacciasi. A reo
più non lice produr vane discolpe.
si riconduca alla prigion primiera.
Poco là dureran le tue ritorte,
che a disciorle verrà, verrà la morte.
a sterile virtude utile colpa.
Voi siete, regno e amor, la mia discolpa. (Scrive e poi parte)
Alla regina or vado, onde al decreto
si dia l’ultimo assenso e poi son lieto.
S’egli fia l’amor mio, sarà innocente.
Senza la tua pietà, morto il compiango.
Pietà si chiede? Ei me ne dia l’esempio.
            Qui è Sivenio.
                                        (Scellerato ed empio).
                                            Convien punirlo.
che sia pubblica e grave al par del fallo.
                                (Traditor vassallo!)
dia la destra real l’alto consenso.
                                       Dov’è il tuo amore?
Già stabilì ciò che far deggia il core. (A Zelinda)
                                                  (Odo e non moro?)
Imprimerollo e per Teuzzon saranno
i caratteri miei note di sangue.
ed è grandezza mia ch’egli sen mora).
             Già scrivesti?
                                        Non è tempo ancora. (Depone la sentenza sul tavolino)
il foglio segnerò. Chi siede in trono
questa aver puote autorità su’ rei.
                   Va’. Già intendesti i sensi miei.
M’ama Sivenio e tollerarlo è forza.
E Cino ancora è fra’ delusi amanti.
                                           (E a me saperlo).
Qui mi si guidi, e ne sia scorta Egaro,
per le vie più segrete il reo prigione.
arbitro di sua vita e di sua morte.
(Oimè! Perduto ho il caro ben).
                                                           Che pensi?
                             Regina, eccoti ’l prence.
Seco mi lascia; e ad ogni passo intanto
si divieti l’ingresso... O dei! Ti arresta,
                                                 E fino a quando
spettacolo e trionfo a’ miei nimici?
più di giustizia. A tuo sollevo io stendo
la stessa man da cui ti credi oppresso.
Né mi lascia temer salda costanza;
né mi lascia sperar rigida stella.
al tuo, ch’ora è mio trono, il ciel ti chiama.
                                 Non ti sia grave, o prence,
                         (Che sarà mai?)
                                                         (Ma donde
                                           Tuoi detti attendo.
il linguaggio del cor negli occhi miei.
                               Mira più attento
e intenderai che d’amor peno e moro.
E che il morto tuo sposo è tuo martoro.
Morto il mio sposo? Ah! No, ch’egli in te vive
e lo vedo e gli parlo e ancor l’adoro.
Sì, ancor l’adoro ma più bel, ma degno
giovane, amabil, fiero e qual tu sei.
Stelle! Numi! Che ascolto? Ah! Ti scordasti
che a me fu genitor chi a te fu sposo?
E amando in te ciò che di lui ci resta,
in che, dimmi, l’offendo? È tanto eccesso
chi del padre fu sposa e non mai moglie?
usa altri sensi o alla prigion men riedo.
Sì, altri sensi userò ma quegli, ingrato,
che mi detta il dolor d’un tuo disprezzo.
Su, conosci, o crudel, dopo il mio amore,
ho ragione, ho poter sulla tua vita.
qual mano irriti e qual amor disprezzi.
(L’alma i suoi mali a tollerar si avvezzi). (Si leva e va al tavolino dove legge la sentenza sottovoce. Zelinda si lascia vedere sull’uscio del gabinetto)
Or mi sovvien. Zelinda è che mi rende
difficile trofeo quel cor che bramo.
Lessi. Si vuol mia morte... (Ah! Qui Zelinda!) (Teuzzone torna a sedere e alzando gli occhi vede Zelinda)
nome a compir la capital sentenza.
là dove pieghi il tuo voler. Risolvi.
Qui te stesso condanna o qui ti assolvi.
                            Cari soavi accenti,
uscite pur di quel bel labbro e in seno
Sei pur ritroso. O dio! Perché rubella
                                        Che disse il labbro,
e non è questo un dir ch’io speri, o caro?
Eh! Ch’io gli accenti allora a te volgea,
a te, cor di quest’alma, o mia Zelinda.
E parli a chi non t’ode? (Zelinda gli fa cenno che taccia)
                                             Io l’ho presente. (Zelinda si ritira)
               La bella idea mi sta nel core.
(L’idolo mio quasi tradisti, o amore).
Non giunge a tanto il tuo poter.
                                                          Lo faccia,
se nol puote il mio amore, il tuo periglio.
Mai per viltade io non sarò spergiuro.
Ne sarà prezzo il trono mio...
                                                      Lo abborro.
                          Più la mia fé mi è cara.
questo momento alla pietà si doni.
Fa’ tu la tua sentenza. O morte o soglio.
Torno a’ miei ceppi e tu soscrivi il foglio.
Ti ubbidirò, spietato, e su quel foglio
scriverò le vendette... (Va al tavolino)
                                          Ove ti porta
                        Dove? E mel chiedi? L’ire
ei proverà di una beltà schernita. (Scrive)
(Scampo non veggio più per la sua vita).
Segnato è il foglio. Ei morirà.
                                                       Regina,
               Ei mi sprezzò.
                                           Ma al primo assalto
vuoi che ti ceda un cor? Nuovi ne tenta.
Espormi al disonor d’altro rifiuto?
Fa’ che a Teuzzon mi si conceda il passo;
                                               Tanto prometti?
nella prigion diasi a costei l’ingresso.
                                   Ogni pietà si esigli.
Sieno ancor co’ suoi giorni i miei recisi.
                                          (Ahi! Che promisi?)
Seguiamla, amor. Nella prigion si vada
del suo fato e del mio gli ultimi voti.
Oh! S’egli infine alla mia fé si rende?
Troppo io sono infelice, ei troppo altero.
pronto verrò. Ma che far pensi?
                                                           Al fato
Voler seco perir non è un salvarlo.
Peggior morte saria viver senz’esso.
la sua metà più cara e torna al padre.
Ch’io torni al padre? E mel consiglia Argonte?
Se un codardo desio di fragil vita
va’, lascia questo ciel; torna onde uscisti.
colà restò sol per seguir la sorte
Teco sarò fino al respiro estremo,
che il rischio tuo, non la mia morte io temo.
al carcere fatal, giovi usar seco
l’arte. Un credulo amor si disinganni
e dell’evento abbia la cura il cielo.
             Vergine saggia.
                                           Errai. Dovea
                             Bene a me incerto.
                                                                 In breve
un sangue accrescerà chiaro e innocente
i diletti all’amore, i fregi agli ostri.
I detti tuoi mi fan confuso e lieto.
qual col mio labbro a te favelli il vero.
godrà un rival di tue fatiche il frutto;
sol l’infamia e il rimorso e l’onta e il lutto.
Come? O dei! Qual rival? Cino infelice!
Più non dirò. Vanne; a Sivenio il chiedi,
più dell’inganno tuo che del suo amore.
                               (Povero core!)
Cieli! Ch’io il creda? E sarà vero? Ei giunge.
felicità. Segnò Zidiana il foglio.
odio egli è solo? O ne ha gran parte amore?
non è ciò ch’è mio acquisto, un letto, un soglio?
(Morrà Teuzzon, di che ho timor?) Sì, parlo
già mio possesso il talamo ed il trono.
promise al mio valor la tua regina.
ceder solo poss’io le mie speranze;
né de’ miei scherni altero andrai.
                                                              Cotesti
impeti dono a un disperato affetto;
e all’antica amistà l’ire perdono.
Che perdon? Che amistà? Su, qui decida
chi di scettro e di amor più degno sia.
Principi, onde tant’ire? E qual furore
               La tua beltà ci fe’ rivali.
                                       E questo ferro...
Tanto sugli occhi miei? Più di rispetto
alla vostra sovrana. (Ahi! Che far deggio?)
la mia ragion nel tuo piacer rimetto.
                      Or di’ con qual mercé ti piacque
ricompensar della mia fede il zelo.
Conferma a lui che tua bontà compagno
teco mi elesse ad impor leggi al mondo.
Dirò... Cino... Sivenio... (Io mi confondo).
La mia felicità che più sospendi?
(Mal fermo ancora è il mio destin. Costoro
Nessun s’irriti. Arte mi giovi e ingegno).
Sivenio, è vero, a te promisi affetti.
                      Datevi pace. Io qui spergiura
pari è il grado, la gloria, il zelo, il merto.
deggio gli affetti miei. Del par gli avrete.
Dite. Lice ad un re, che in Cina imperi,
                                 Uso il concede.
                                                              All’uso
                                      De’ regnanti
Or chi ha tra voi l’alto poter?
                                                      Zidiana.
                                   Regna e può farlo.
In pari grado, in pari amor, ben tosto
                               Il sei.
                                            Del par sarete...
                Segui.
                              Che mai?
                                                  Già m’intendete.
                                      (Fingasi). Amico,
all’arbitrio real mi accheto e applaudo.
di un legittimo re, saprà anche meglio
un ingiusto rival toglier di vita). (Si parte)
O speranze deluse! O fé schernita!
delle tue colpe. È tempo ancor. Risorgi,
abbattuta virtù, né più s’indugi.
Teuzzon non anche è morto. Ho forze, ho prove
e ripara l’error, torna innocente.
di regio tralce, io d’alto impero erede,
si offrian beni, piaceri, onori e glorie,
morir deggio innocente? E da’ miei stessi
Perdite illustri! Ampie sciagure! In voi
pur non degno impiegar gli ultimi affetti.
li dono a te. Voi difendete, o numi,
ciò che vive di me nel suo bel core,
dall’altrui crudeltà, dal suo dolore.
(A che mi astringi, amor?) Teuzzone, io vengo...
Zelinda... O numi!... Ed è pur ver che ancora
e ti miri e ti abbracci, anima mia?
Tua più non mi chiamar. Questa si ceda
sospirata fortuna ad altra amante;
o si ceda piuttosto alla tua vita.
Vivi e benché di altrui, vivi felice.
d’essermi fido ne’ respiri estremi.
Ma te ne assolvo. Un gran timor tel chiede.
Nulla pavento più che la tua fede.
Caro mio ben, quanto più m’ami infido,
tanto meriti più ch’io sia fedele.
che non ha sul mio cor tutto il potere.
Perdonami un error ch’è gloria mia.
Se non son di Zelinda, io vo’ morire.
Oimè! Viver potresti e non tradirmi.
                                                Zidiana
nasce il tuo rischio e il suo furor. Se amarla
Finger? No, s’è viltà, manco all’onore,
Questo non posso e quel non deggio.
                                                                   Il dei,
se non morir più tardi e con più scorno?
ma più dell’onor mio non posso amarti.
la mia pietà. Già dal tuo esempio apprendo
com’esser forte o disperata. Addio.
ma sol non cada. Alla rival feroce
una vittima accresca anche Zelinda.
arbitro resta, io lo sarò del mio.
L’onor tu ascolta; io l’amor seguo. Addio.
                     (O dei!)
                                       Sdegna più lunghi indugi
il destin di Teuzzone e l’amor mio.
sugli occhi suoi. Poi me ne accerti anch’egli.
                                 Tu abbassi i lumi? E chiude
tronco sospir gli accenti? Intendo, intendo.
vana è la tua pietà, vano il mio amore.
Mel dice il tuo silenzio ed il mio core.
Tempo non v’è. Qui morte o vita...
                                                               E morte,
                                 Anima mia, sii forte.
Perfido, ingrato, ciò che chiedi avrai.
                        Regina...
                                           Alla sua pena
tosto si guidi il reo. Dove la reggia
tronco... Ah, Teuzzon, per la tua vita ancora
salvati; il puoi. Le furie mie disarma.
E ten prega per me la tua Zelinda.
premio dell’amor tuo, quella ti resti
che l’altrui frode a me dal crin divelse.
tanta pietà, vanne, ten prego, vanne
con l’avviso fatal della mia morte.
col rimembrar la pura fé che meco
viene alla tomba; ed in quel punto istesso,
questo per me le arreca ultimo amplesso.
quella pietà a incontrar che ti è dovuta.
Non più pianto, non più. Sangue mi chiede
crudel regina, ed a Teuzzon Zelinda.
                                  Nel mio dolor, nel mio
furor la riconosci. In me finisca,
Qui l’odio tuo sarà più giusto. Dammi,
La tua rival, la tua nimica io sono.
a qual fé si appoggiar le tue speranze.
Tu quella sei che inspira il ciel? Tu quella?...
l’empie tue frodi all’amor mio tradito;
e nel tuo sen nol lascerò impunito.
Piacemi l’odio tuo. Sfogalo appieno,
sfogalo, e te ne assolvo, in questo seno.
Resta pur qui fra l’ombre e custodisci
Io parto a maturarle; e debitrice
parto a la mia rival di un gran diletto.
Armiam, tu d’ira, io di fermezza il petto.
Chi sa, stelle, chi sa che di mie vene
l’umor non basti ad ammorzar quell’ire
che minacciano oltraggio all’ama mia.
ottien da voi la mia pietade e il pianto!
sotto il manto ferin di vil giumenta
il suo immenso poter chiuse e coperse,
                             Al sacrifizio illustre
stien le vittime pronte e pronto il ferro.
(D’ingiustizia e di amor fiero trofeo).
Tu leggerai la sua condanna, o Cino.
E l’empio si stordisca al suo destino.
si fissa in voi senza terrore il guardo.
Per meritar pietade, invan sei forte.
Ma con che spaventarti avrà la morte.
L’empietà e la virtù pugnar qui denno. (Si parte)
Popoli, al reo Teuzzon v’è un reo maggiore
di saper sovrumano, osò poc’anzi
Il sacrilego, l’empio ecco in costei.
che di vindice Astrea cadan le pene.
Che sento!... Oimè!... Zelinda...
                                                          Amato bene. (Si abbracciano)
                                       Perfido! Ah, Cinesi,
temasi in sì bel sangue il rischio vostro.
Questa è Zelinda; sì, Zelinda è questa,
del tartaro monarca inclita figlia.
qui errò; qui si condanna; e mora anch’essa.
                        (Dura legge!)
                                                   Or tutta cede
la mia costanza. Io ti vedrò morire?
Ed io sarò cagion della tua morte?
                                   Non più dimore.
Solo, deh, morir fammi e te ne assolvo.
Tutte in me stanca l’ire e tel perdono.
No no, morrete entrambi. È tal la legge.
Ministri, olà. (Incomincia ad avanzarsi la macchina, su cui si vedrà una gran giumenta d’oro, ornata di fiori)
                           Né v’è pietade?
                                                          Almeno (A Zidiana)
sotto il taglio crudel vittima esangue.
prima l’avido acciaro entro il mio petto.
(Taci, pietà; taci, importuno affetto).
o regina, il favor. Tu morrai primo.
E tu raccogli il mio sospiro estremo,
                          Ministri, e che si tarda?
la sentenza fatal leggasi, o duce.
                      N’apro il regio impronto. Or voi
popoli qui raccolti, udite, udite.
Poi cada l’empio ed il fellon punite. (Legge)
voglion che dopo noi regni Teuzzone.
Il nostro erede ei solo fia. Troncone».
                Che?
                            (Son tradita).
                                                       O dei!
                                                                     (Che ascolto!)
dell’estinto regnante è il voto estremo.
l’alta sua man le fide note. Il guardo
giudice qui ne sia. Ciascun qui legga.
Teuzzone è il vostro re. Base l’inganno
fu dell’altrui grandezza. Un fatal foglio
in uso del suo grado il re già diede,
quasi perir fe’ l’innocenza. A voi
(Che farò? Son perduto). (Fugge)
                                                (Io fuggo il rischio). (Egaro lo segue)
               Regni Teuzzon, mora Zidiana.
Fermati, Argonte; ira si affreni. A voi
basti, o fidi, ch’io viva; e non mi serva
il cadavere altrui di grado al trono.
Faccia le mie vendette il mio perdono.
                                      Anima eccelsa. (Egaro ritorna)
Sivenio sol prigion si arresti. Il cieco
furor, che il guida, in lui temer conviene.
Più non si tema. Or ora, ed io lo vidi,
più disperato che pentito, il ferro
nel sen s’immerse e ritrovò a sé stesso
E la sua morte è sicurezza al regno.
la mia felicità ch’ella mi opprime.
Ma tu ne sei prima e gran parte, o sposa.
                              Quanto ti deggio, o Cino!
Maggior premio ne avrai dalla tua fede.

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