Metrica: interrogazione
580 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Genova, Franchelli, 1717 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli amplessi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor di Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor; sol per te chiedo.
                                                             O amico.
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo a la fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama, là dove
non offendi il tuo prence o, se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuor che ’l suo re, fuor che gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo altero sei.
vuol privar te d’un padre e me d’un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude.
mi sia rival, che mi contenda e usurpi
nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
ch’un reo vassallo arma d’un re lo sdegno
e che, prima che a te, fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti allor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
                                Osserverò s’è dessa.
(Purtroppo è dessa, o amico).
                                                       In quale oggetto
                                (Finger mi giovi).
                                                                   (O numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove portato ho il piede,
te incontri, o eccelso prence.
                                                     A te, che altrove
giammai non viddi, ove fui noto e quando?
(Ah quasi dissi il fier destin d’amarti).
                           Di segretario in grado
                                (O come è scaltra!)
                                                                     Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
Giorno (ah giorno fatal!) che in voi s’accese
allor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti e me presente
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
                                                A chi favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel cuore,
abbia con la mia vita il mio dolore».
                            (O son tradita o finge).
parti, Lucindo, e non cercar di più.
Che io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
Taci Erenice. Il caro ben qui giunge
testimonio fedel del nostro amore;
brama sì di goder ma taci, o core.
                            Invitto Ernando.
                                                             (O vista!)
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
che ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
questi, temendo il suo rival germano,
nascose il fuoco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
m’esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, s’oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
                                  E poi?
                                                 Riparo
non avrà ’l fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso, al mio rival germano
sarà impotente ogni furore o vano.
Questo mio così tosto esser felice.
                                         Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco t’abbraccio.
                                                           Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
(Io fui del mio morir fabro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che t’affligge?
Fede, amistade, amore il cor trafigge.
                               Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer d’una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugl’occhi d’Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
                                          E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu sei re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
                                        Lo sa il tuo core.
e promesse di amor vane e fallaci,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Eh taci.
giunse alla reggia tua nunzio straniero
                                   Venga.
                                                  (Ei fia Lucinda).
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiagge, il fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(O dei! Fia meglio allontanarmi).
                                                              Arresta,
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’ufficio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento.
                                (Legge e minaccia).
                                                                      (O note!)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi?) Ah figlio, figlio, opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi;
leggi pure a gran voce e del tuo errore
dia principio alla pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
                         Leggesti? A qual difesa
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la viddi o pur ne intesi.
                                                          (O dei!)
E perché alcun della mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti.
mentitor me dicesti. In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
si rimetta l’onor de’ tuoi trionfi.
Legge sia de’ miei voti il tuo volere.
la tua innocenza a sostener ma sappi
che mancano a chi è reo forti difese,
che retaggio al fallir son le ruine
e sempre infausto è de’ superbi il fine.
m’unirà pure un imeneo felice.
Deh nol cercar, bella Erenice. Addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
Ancor ten priego. Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor t’adora.
a favor d’Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
T’amai dal primo istante in cui ti vidi,
tel dissi ne l’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor d’Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuor che di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
Che non spira altri amori il tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
mia beltade, io compiango i tuoi trionfi.
tua vittoria detesto, ogn’altro onore,
non ti chiedo trofei dopo il suo core.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e regina.
Come? Tu, Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è raggione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Machia d’onor mai non si terge; e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
                              In traccia appunto, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene a me germana e di Erenice
la fida amica il tutto intesi.
                                                   Ah troppo,
                    No, mio signor...
                                                    Gismondo,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette io fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pene.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo; ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardir in alma impura.
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Amor non promettesti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
Sieguasi il tuo furor, pugnisi, io meco
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue,
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, a l’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
(Io volgerò contro costei la spada?)
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
Pugnisi al novo giorno. (Ernando intanto
andrò a punir di quell’ingrata a canto).
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi quest’inciampo all’amor mio).
chiaro agl’occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vil, ma generoso e forte
ne le perdite mie restami il core.
non godrai longamente, o traditore.
le lituane spade empier di stragi
senza onor, senza fede e senza regno.
mi tacci, o re. La mia ragione, il giusto
parlan su questo labro e se tu nieghi
farò le mie vendette. Ho avezza anch’io
la fronte alla corona, il piede al trono,
so punir, so regnar. Lucinda io sono.
                    Eh padre, un mentitore è desso,
mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda. In tali spoglie
Non sei Lucinda, no. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene, a lui m’involo). (Via)
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
sepellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men da la tua virtude, alto regnante,
attender non potea Lucinda amante.
Sensi d’un re, non vi perverta amore.
oggi a lei stenderà la man di sposo.
opporsi a la ragion del mio comando,
col di lui sangue a’ piedi miei trafitto
le macchie laverà del suo delitto.
Gismondo, ov’è il mio figlio?
                                                      Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
e l’affanno e ’l timor; qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
qual acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma; e in che v’offesi, o dei?
                                           Padre... (Oh stelle!)
                                 (Ahi che dirò?)
                                                               Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi or di quel sangue.
                                                                 Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
Questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
                                                  E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
                                                     A’ tuoi cenni
                         Ernando vive? Ernando amico!
(Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi,
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua. Lagrime chiedo e sangue.
Ti vo’ giudice e padre. Ah rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
                                               A’ tuoi grand’avi
quel diadema che cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
                                                       Amore
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
aver dovea; l’ora vicina e d’ombre
versò da più ferite e l’alma e ’l sangue.
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?
e tosto ch’io ti miri vendicata,
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure, il capo
data ho la inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice. Il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente.
il silenzio del labbro e più di tutto
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
                                       (Miserabil padre!)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a vuotar ch’hai nelle vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la chiedo, a voi.
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
Non ho discolpe. Il mio supplicio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci.
Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?
                              Sire, i tuoi cenni attendo.
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
                                  (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento.
Rispetta il grado e ’l tuo rigor coreggi.
nel far la colpa. E la sua colpa il trova
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Misera, e in chi poss’io ripor più spene?
De la real promessa or mi sovviene.
sposo l’avrai né mancherassi a fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi, Ernando? Vendicarti?
Vendicare il tuo amico ed Erenice?
ti voglio, Ernando. A preservar si attenda
l’erede alla corona, il figlio al padre.
diam lagrime, non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e a l’amor suo non pensi.
Io di re figlio, io di più regni erede,
io tra’ marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Lucinda a me? Per qual destino, oh dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi.
nunzia della mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
                            (Caro dolor!) Custodi,
                               (Che cangiamento è questo?)
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato!
chiedo la pena mia, non il perdono.
Tua nemica non più ma sol tua sono,
merti il mio perdonarti il tuo perdono.
Prenci, v’attende il re, non più dimore.
Plachi l’ire del padre il nostro amore.
                                         A che sospiri?
Presago il cor m’è di peggior martiri.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede, impegno
ne serve all’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affretar t’invia.
vi figura il pensiero e non v’intende.
son padre ancora. Allor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuor che un tal dono, abbilo a grado, il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
                                                    Eh, lascia
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma
confermi a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
Padre, con sì bel dono a me due volte
a l’onor tuo s’è sodisfatto?
                                                 Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qua far mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi sei più crudel, meno m’offendi.
è il lasciarti, ben mio, non il morire.
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno,
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re mi è padre. Io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi t’uccide.
Nieghi il nome di sposo a chi ti adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante;
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra; a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
Ma sappi, io pur morrò dal ferro uccisa
la pietà di quel pianto. Andrò men forte
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile sposo! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? A l’armi, a l’armi.
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
ne la reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fori de’ cepi... Ahi, dove son? Che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai; né fu ch’il guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, quelle son le regie stanze.
                                                      Ernando,
                                                       Il ferro,
che dee passar nel sen del figlio, ha prima
in quel del padre a ripassar. Che importa
veder la reggia. Ahi dove andranno e dove
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
                                  Al sol pensarvi io tremo,
sudo, m’agghiaccio, io primo offeso, io primo
rinunzio alla vendetta e gitto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
a la patria, al monarca, a la tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
                          Vo’ pensar meglio ancora.
Seguiam suoi passi. Un sol rifiuto, Ernando,
alla raggione, alla virtù costante,
D’Erenice sarei più degno amante.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati d’amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Nelle tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
                             Le ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ingiusto.
Sarò più reo, perché tu sii più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cuor vi porta
degno di re che non imiti il mio
e a me sol lascia i pianti, a me i dolori
e insegnami costanza allor che mori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge!
tu giungi, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del prencipe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia delle leggi io non ti deggio.
(Prencipe, al tuo destin scampo non veggio).
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
d’acciar la destra e di costanza il core.
                                      O dei!
                                                    Che avenne?
                                                                              Il prence...
                                           Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i suoi custodi, al suol gitati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun grida, ognun freme e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, legge, pietade e sangue, a tutti
soddisferò, soddisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
da temer resta o da sperar? Sospeso
a memorabil opra il re s’invia
e sospesa del pari è l’alma mia.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi move?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traettemi al supplicio; e quando ancora
sì, questo acciar traffiggerammi; in pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio sol dolore, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
sembra più bella agli occhi tuoi la morte.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse.
Di me disponi. In me le leggi adempi.
fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro delle leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio, il condannai. La legge
padre, non re mi troverà il destino.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni.
far cader la tua testa o coronarla.
                                              Il re tu sei.
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano.
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue publicherò dal trono.
Io pure in te, novo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati,
t’accolgo amico e tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte.
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anzi che il vivo abbracci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre t’annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.

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