Metrica: interrogazione
514 endecasillabi (recitativo) in Griselda Venezia, Pasquali, 1744 
Questo, o popoli, è il giorno, in cui le leggi
da voi prende il re vostro. A voi fa sdegno
donna avvezza a trattar rustica vanga.
Decretato è il ripudio; e voi ne siate
giudici e spettatori. Or che la rendo
col vostro amor quel del mio core emendo.
l’affar, per cui sul primo albor del giorno
                                            Tutta quest’alma
                                         Siedi. (Si assidono)
                                                       Ubbidisco.
(Alto principio!) In vil tugurio io nacqui,
                                     Era il tuo incarco?
                                    Il mio?
                                                    Dar leggi al mondo.
della mia povertà vile ed abbietta.
                                              E fui tua serva.
                                          Ed io nel core.
non dovea tanta fede e tanto amore).
                               Una figlia.
                                                     E tolta questa
E più non n’ebbi, oh dio! notizia alcuna.
compié d’allor l’annua carriera il sole.
al mio duolo un tuo cenno.
                                                  Io fui per essa
                                      Era tuo sangue
e versar lo potevi a tuo piacere
                                            Meno amar io
non ti potrei, se ancor versassi il mio.
                                 In sì gran tempo
ti spiacqui? Ti oltraggiai?
                                                Grazie sol n’ebbi.
Di quanto feci, io non mi pento. Il cielo
testimonio mi sia; ma pur conviene
che ritratti i miei doni. Il re talvolta
dee servire a’ vassalli e seco stesso,
per serbarne il dominio, esser tiranno.
Dove tu imperi, ogni ragion condanno.
ubbidirmi ricusa. Ella mi sgrida
che i talami reali abbia avviliti
sposandomi a Griselda; e non attende
da’ boschi, ove sei nata, il suo monarca.
sposa di regio sangue al trono e al letto.
tanti lustri soffrì me per regina;
                                       Ella è gran tempo
che ricalcitra al giogo. Io già svenai
di stato alla ragion l’amata figlia.
Gli odi alquanto sopì ma non estinse.
Or che nacque Everardo, impaziente
sì bei nodi d’amor, dunque Everardo...
Son moglie, è ver, ma sono madre ancora.
Mi condona, o mio re, se troppo chiesi
forse a renderti un nome a me sì caro.
esser norma al mio affetto. Ecco mi spoglio
il diadema e lo scettro; e a quella destra,
riverente il ritorno. (Dà a Gualtiero la corona e lo scettro che, prendendoli, fa deporli ad uno de’ suoi sopra d’un tavolino)
                                      (Alma, resisti).
nelle perdite ancor trovo gli acquisti.
                                         E bene, al porto...
(Se mi sente Griselda, Elpino è morto). (Piano al re)
                                  Giunta è la sposa.
Giunta è la regia sposa? Addio, Griselda.
                                     Atteso io sono. (Senza più riguardarla)
                                   Troppo mi chiedi.
Se ti lascia Gualtier, ti lascio anch’io. (Fingendo partirsi, torna poscia a Griselda)
dia saggio di sé stessa. Ostri reali
vestì già senza fasto; e al primo nulla
torni senza viltà. Sol può Gualtiero
mie sciagure, imparate ad esser pene.
(Costui quanto è importun!)
                                                      Sulle tue chiome
A serbartela Otone è sol bastante,
fido vassallo e cavaliero amante.
mi ritoglie un suo don. Se perde il capo
l’insegne di regina, a me costante
E soffrir puoi che altra ti usurpi un fregio
                                         Fregio che basta
è l’innocenza all’alma.
                                          Io, se lo imponi,
il nome di regina e quel di moglie.
Iniquo! E lo potresti? E tal mi credi?
lontano ancor, nell’alma mia scolpito.
dà tempre a questo ferro; ed un suo colpo
troncherà i tuoi perigli; e tu nol curi?
grandezza non si ottien, si ottien rovina.
Sinché il senso è vassallo, io son regina.
tra le porpore al fasto; or la corona
adito non le lascia a’ miei sospiri.
avrà forse pietà del mio cordoglio.
dirò germani miei, cari egualmente,
qui per breve ora m’attendete. Io deggio
gire incontro a Gualtiero, al regio sposo.
                                                  (Oh dì penoso!)
Questa che premi è la Sicilia; e quella
è l’alta reggia, ove Gualtiero attende
leggi dal ciglio tuo per darle al mondo.
                                         Io mi torrei
più volentier viver privata e lunge
da quella reggia, a me di gioie avara,
purché io di te, tu di me fossi.
                                                        Oh cara!
dell’aureo scettro e del reale ammanto
ti verrà a balenar sulle pupille,
vile l’amor che per me t’arde; e cinta
non lascerai pur di Roberto il nome.
e pur tutto il possiedi. Al cielo, a’ numi
Col grado cangerai sensi e costumi.
dove meno è di rischio e più di pace.
come sull’alma mia. Sì vil non sono
che a discender dal trono io ti esortassi.
Non ti amerei, se a prezzo tal ti amassi.
Pensa che, giunta al regno e altrui consorte,
per tuo, per mio gastigo, onore e fede.
più la grandezza tua che il piacer mio.
                                          La tua beltade,
più che degna di me, degna è d’impero.
È mia cura obbedir. (A Gualtiero)
                                        Bella Costanza.
                  Qual mai ti stringo! E qual nel core
tenerezza e piacer, figli d’amore?
Signor, da tua bontà l’alma sorpresa
più che il mio labbro, il mio tacer palesa.
                                          (Mesto è il germano).
                                    Mi sarai caro.
di quello scettro e di quegli ostri, o bella,
già riserbaro al tuo natal le stelle.
oh di ceppo real germe ben degno!
ornamento la reggia e gioia il regno.
              Signor.
                              Fa’ che Griselda affretti
                                           Corro veloce. (Si parte)
Andiam; più non s’indugi, idolo mio.
Seguo il tuo piè. (A Gualtiero)
                                 Prence. (A Roberto che se le accosta)
                                                 Regina.
                                                                  Addio. (Gualtiero, volgendosi improvviso a Costanza, la vede mesta e nel partire si ferma)
Perché adular la mia speranza? I miei
                                    Regge, o Roberto,
gli umani casi il ciel. Soffri più forte
l’alto voler né ti attristar cotanto.
farci a un vero gioir strada col pianto.
diletto de’ miei giorni. Io l’ho perduta.
Altro ben non mi resta e non mi lice
Pria che termini il dì, sarai felice.
è la perdita mia che il dubitarne
sarebbe inganno. Al regio sguardo, ahi, troppo
Ed a chi mai non piaceria quel volto?
fecer me così amante e voi sì belle.
E ch’io lasci Gualtier, senza che il miri?
No no, qui ancor l’attendo; e tu, se nulla
ti movono a pietà le mie sciagure...
                              Recami il figlio, ond’io
nell’ultimo congedo, in tanto duolo
su quel tenero labbro un bacio solo.
(Mi fa pietà). Per compiacerti io volo.
Parto, amato mio re, poiché mi è tolto
dirti «amato mio sposo». Eccomi ancora
in quel rustico ammanto, in cui ti piacqui.
Tal mi presento a te, non perché speri
più di piacerti ancor. Fu, se mi amasti,
sia pietoso o crudel, sempre tuo sguardo.
Che? Di te mi favelli! Ed io credea
ti occupasse il pensier. La vidi, oh quanto
                                          E l’amo anch’io. (Gualtiero torna a mirare il ritratto)
Ciò che piace al tuo affetto è caro al mio.
vagheggio il dardo, onde trafitto ho il core.
La tua gioia è conforto al mio dolore.
nella sua la tua fronte; e in lei ravviso,
solo alquanto men crudo, il tuo bel viso.
Godrò seco felice. (Togliendole di mano il ritratto)
                                   Il ciel ti dia
ti vezzeggino intorno; e appena in tanta
della misera tua fedel Griselda.
onde trarla a te piacque; e sol vi reca
un rifiuto di morte, un cor senz’alma.
per l’innocente figlio; e in lui perdoni
La forza, che a te fai, ti leggo in volto.
(Ceder mi converrà, se più l’ascolto).
Temo usarti pietà con mio periglio. (Elpino si ritira. Otone a parte lo afferra e gli parla all’orecchio)
del mio Gualtiero; e in questo bacio sento
rallentarsi il rigor del mio tormento.
                                            A me, Griselda, (Va a prenderle di mano il fanciullo)
toglimi ancor. (Elpino guarda Otone)
                             Che più dimori? (Minacciandolo)
                                                              Invano. (Togliendole di braccio Everardo)
che contenda a una madre il dolce amplesso?
Tel dica Otone. (Mostrandole Otone che si avanza)
                               Il tuo Gualtiero istesso.
giunger non mi potea nome più caro.
                             Ingrata.
                                              Ecco veloce,
alla dura partenza il cor si appresta.
(Mio Gualtier, ti ubbidisco).
                                                     Odi; t’arresta.
                                                   Signore.
custodisci il fanciullo. A me già diede
                                             Sai la mia fede. (Si parte col fanciullo)
s’ha da tentar, cor mio. Già la disegno.
Ciò che non può l’amor, vinca l’ingegno.
                                In breve spazio accolto
qui di più regni è il prezzo.
                                                   E il dì risplende
qui di luce miglior fra l’ostro e l’oro.
(Ma fra tanti non veggo il mio tesoro).
già ti udii favellar, ninfa e regina.
                                        Ed or fra’ boschi...
Veste in uffizio vil ruvide lane.
                                 Ti lascia erede.
Con quell’amor che si conviene a sposa.
E quel di amante a cui riserbi? È questo
Genio in questo è l’amore, in quella è legge.
Più che Gualtiero, ami Roberto.
                                                           Oh dio!
L’amai pria col tuo core e poi col mio.
tema e rispetto. Il suo diadema inchino.
Stimo il suo grado e sol Roberto adoro.
Non t’affligger, Costanza. Ama Roberto.
                                                 E amor tel chiede.
la vita lascerò, dolce mio bene.
il finger crudeltà per le sue pene.
al tuo fedel Roberto anche d’un guardo
Sdegna amore il mio grado e vuol rispetto.
(Infelice amor mio, non v’è più speme).
              Non più.
                                 Rispetta il grado e parti.
                                 Regina e moglie,
più non deggio ascoltar che il re mio sposo.
(Fosse almeno Gualtier così vezzoso).
Signora, a nobil caccia il re t’invita.
                                          È vero.
                                                          Il cielo
                                            Così mia fossi.
                                                Barbari nodi.
                                        Giubila e godi.
così l’antica fiamma, il forte laccio
Di che mi dolgo? Ella è regina e sposa.
non si tenti il suo onor. Volerla amante
Mi perdona, o mia cara; e a te, Roberto,
la gloria dell’amar senza speranza.
bastasse a consolar l’alma dolente,
qui spererei conforto, ove, col nome
mi ricordan diletti i tronchi istessi.
Ma che? Nel rivedervi, o patrie selve,
cresce l’affanno; e qui spietato e rio
a pascer di memorie il dolor mio.
ove il rustico letto in nude paglie
stanca t’invita a riposar per poco;
Gualtier non già ma la real grandezza,
al silenzio e alla pace il duolo avvezza. (S’incammina verso la capanna)
                                         O figlio! O dono! (Veduto Everardo, gli corre incontro)
Di rio comando esecutor qui sono.
mi s’impone che in cibo (oh! quai bugie
lasci esposto alle fiere il tuo Everardo.
                                                 E cor sì duro
di tale uffizio al cenno altrui si ascriva.
Ah! Vuol l’empio destin ch’io il sappia e viva.
Né tutta ancor sai la tua sorte, o donna.
Non attendo da Otone altro che mali.
sei stupida al dolore e non sei forte).
              Signor.
                              Poiché col ferro aperta
per più strade a quell’alma avrò l’uscita,
gitta alle belve, ove più il bosco annotta.
Pargoletto innocente, in che peccasti?
quella che pietà implora e umil ti prega.
A chi usò crudeltà, pietà si nega.
Quella che merta alfine amore e fede.
Col ripudio real libera torni
Anche in rustico ammanto, anche fra’ boschi
ti bramo in moglie e, se non porto in fronte
più re per avi; ed in più terre anch’io
                                          Otone, addio. (Mostra di partire)
E il tuo figlio? (Otone afferra Everardo)
                             Ah! Che ancora il dolce nome
Griselda, o mora il figlio o sii mia sposa.
sì barbara empietà? Rendimi il figlio.
                                E la crudel sentenza
                          Solo a tal prezzo.
                                                          Il pianto?
che scorre nelle vene al tuo Everardo.
e la man disarmar del ferro ignudo.
Ubbidisci al tuo re. Svenalo, o crudo. (Griselda tace e pensa e poi risoluta risponde e parte)
Fermati, Oton; ma so che fingi.
                                                          Elpino,
                                             A dura impresa
                               Ingrata donna, alfine
giovi teco la forza e mia ti renda.
                       S’egli l’abborre e sprezza,
lo servo e non l’offendo. Io mentre all’opra
raccolgo i miei, tu col real bambino
(Corro veloce ad avvisarne il re). (Si parte)
quella ch’ora vi opprime, o mie pupille?
Sonno non è, che quando è il cor doglioso
non è vostro costume aver riposo. (Siede sul letto)
o del fiero cignal scorre le selve,
ch’io qui stanca l’attenda egli m’impose.
vietai. Ma amor mi segue anco entro a questo
Donna su letto assisa e dorme e piange. (Se le accosta a riguardarla)
volto ha gentil! Sento in mirarla un forte
movimento dell’alma. Entro le vene
s’agita il sangue; il cor mi balza in petto.
               M’apre le braccia; al dolce amplesso
Non resisto più, no. (Corre ad abbracciarla)
                                       Diletta figlia. (L’abbraccia dormendo)
(Il più bel del suo volto aprì negli occhi).
                                                    All’aria, al volto
(Troppo nel cor restò l’immago impressa).
                                        E qual destino
donna real, che tal ti credo?
                                                    Io stanca
dal seguir cacciatrice il re mio sposo,
Stanza è questa di duol, non di riposo.
le tue sciagure a consolar Costanza.
e le sembianze avea pur sì leggiadre
del cor, se troppo chieggo. Ove nascesti?
Dove vissi lo so, non dove nacqui.
De l’esser tuo nulla ti è certo?
                                                       Nulla,
Ben ne sei degna. Ingannator mio sogno!
strigner la figlia e la rivale abbraccio).
l’uccisa figlia e ne piangea di gioia.
Ma se la uccise empio rigor di stella...
                                   Tu non sei quella.
De’ tuoi bei sguardi è troppo indegno, o cara,
                                      Illustre e degno
la sua gentile abitatrice il rende.
Anche qui vieni a tormentarmi, o donna?
Questo è il povero mio soggiorno antico.
Più non dirmi tuo re ma tuo nemico.
Se i preghi miei del tuo favor son degni...
che più dal fianco mio costei non parta.
Nella reggia, ne’ boschi, ovunque i’ vada,
A te serva costei? Qual sia ti è noto?
che amai per mia sciagura, alzata al trono,
perché ne fosse eterna macchia.
                                                           Oh dio!
reser la sua viltade e l’amor mio.
                    Ah! Più non dirlo. Anche al mio labbro
venne il nome abborrito e pur lo tacque.
Sia vile; oscura sia; con forza ignota
un amor non inteso a lei mi stringe.
                          E in amistà più raro.
(A maggior tolleranza il cor preparo).
volger volea con gente armata il piede,
Otone armato? Ed a qual fine, o prence?
E pera Otone, il rapitore indegno.
                          Così mi giova.
                                                      Ed io...
Troppo è crudele il tuo signore e il mio. (A Griselda. Si ritira con gli altri nell’interna capanna)
ti tolga altri l’onor della mia morte.
                                            Empio, vien pure
a svenar dopo il figlio anche la madre.
Suo uccisor mi temesti; ei m’ebbe padre.
di’ ch’io vada alla tomba.
                                               E che far pensi?
Ciò che può far cor disperato o forte,
                                         Ora il vedremo.
Bella, vi aperse altre ferite amore.
                             Lasciami in pace.
                                                               Vieni
e reo non mi sforzar di maggior fallo.
Il minor mal, ch’io tema, è il tuo furore.
Su, miei fidi, eseguite. Il re l’impone.
Lo impone il re? Sei troppo fido, Otone.
È da leal vassallo il far che l’opra
Scudo tu fosti a mia innocenza, o cielo.
Corrado, alla mia reggia Oton si scorti.
Oton, si cinge inutilmente il brando.
Eccolo a’ piedi tuoi. (Fato inumano!) (Parte con Corrado e colle guardie)
                                       A me non già, le rendi
è suo solo favor la tua salvezza.
dacché ti è cara, anche Griselda apprezza.
Compisci, o sire, il tuo favor. Ritolta
                                                  E venga ancella
ove visse regina, ove fu moglie.
d’un più vil ministero adempi e serba;
all’ufficio servil l’alma superba.
alla stessa rivale e vuol ch’io l’ami.
Gualtier m’è sì crudele e pur l’adoro.
A vista de’ miei mali, entro la reggia
tutto il conforto alla miseria mia.
o Gualtiero o Costanza. I pianti affreni;
e pentita persin di quei che ha sparsi,
senta l’aspro suo duol senza lagnarsi.
Chi intese mai destino uguale al mio?
E quando fu giammai re più infelice? (Siede)
Supplice inchino il mio monarca.
                                                              Otone,
divien minore. Un reo, che nega o tace,
Il ver mi esponi e all’ardir tuo prometti
sia quel che premi o tribunale o trono.
                              Al testimon del guardo
Lungi da questi lidi, ove non fosse
                               (Che potrò dire?)
                                                                 All’opra
                              Sorgi e in dir sincero
Dal cor, più che dal labbro, odine il vero.
sedea Griselda, io la mirai con altro
Dal tuo ripudio e da’ suoi mali, in seno
pietà mi nacque; e poi ne nacque amore
usò pria la lusinga, indi il rigore.
(Che ascolto?) Ami lei dunque?
                                                           E amor fu solo
                                      S’amo in Griselda,
signore, un tuo rifiuto, e di qual fallo
col cor del suo monarca ama il vassallo.
di te, degli avi, al tante volte sparso
sangue in pro del mio regno, alla tua fede
                         Diasi l’oggetto ancora.
e scorno tuo, ch’erri fra’ monti e boschi...
Innalza un tuo rifiuto e in lei permetti
ch’io, sposo erede, ami i tuoi primi affetti.
Vedi se t’amo. Il giuro, Otone, il giuro
ch’io mi sposi a Costanza, avrai Griselda.
O dono! O gioia! Al regio piè prostrato
che la grazia si adempia e poi la rendi.
Dall’amor di costui preser fomento
ed origine ancor l’ire e i tumulti.
Ma che vive nel cor mantien mia fede.
A quel talamo ancella, ove fui moglie.
Itene, o voi custodi. Impazienti
Mi è affanno ogni momento e già maturi
stan nell’ozio penando i casti amori.
il giubilo comun col tuo cordoglio.
colà frena i sospiri. Anche del pianto
e termini prescrivo al tuo dolore.
Per compiacerti, il chiuderò nel core.
nel tuo core e nel mio sento il tuo affanno.
Aver vicino il ben perduto è pena.
incontra il fato e rasserena il ciglio.
Cerco al duolo rimedio e non consiglio.
                                Che su’ miei lumi un altro
e il frutto involi a me della mia fede?
Sacrificio crudel, non vo’ mirarti. (Costanza sopravviene e Roberto in vederla si arresta)
da questa reggia, ove il tuo cor mi lasci
Tu de’ miei sguardi ancor torti il diletto?
Sei ben empio al tuo core, ingrato al mio.
che da me può voler? Vederne i pianti?
Ascoltarne i sospiri? Oh! Se sapessi
quanto sugli occhi tuoi cresce il mio affanno.
Onor, nume tiranno, a che m’astringi?
Amor, nodo soave, ove mi guidi?
affetti del mio cor, se siete infidi).
Va’ pur, Roberto; e poiché rea mi lasci,
d’altri fia questa man, tuo questo core.
se non più lieto, almen più ratto il piede.
Gran lusinga all’indugio è la tua fede.
Gran periglio è l’indugio al dover mio.
             Senza un amplesso?
                                                    Amor... (Si prendon per mano)
                                                                    Fortuna...
O per sempre ne unisci o qui m’uccidi.
E per sempre vi unisca, amanti fidi.
vieni amico alla reggia? È questa, è questa
un marito non ami? Un re non temi?
O indegni affetti! O vilipendi estremi!
                    (Qual consiglio?)
                                                     Ancor tacete?
da me l’ultimo addio prendea poc’anzi,
Ma fia d’altri la mano e suo quel core.
mi affrettava Costanza; io pur non tardo
Ma lusinga all’indugio è la sua fede.
E i sospiri? Le brame? Onesta moglie
che per lo sposo. All’onor suo fa macchia
chi le gravi onte sue simula o tace.
Perché tu d’ira accesa? E voi, bell’alme,
                                E dovrò dirlo?
                                                            Parla.
                                     Elpin mel narri.
Tu, se parli o se taci, ognor mi offendi.
Signore, in due parole il tutto intendi.
Ardon Roberto e la real tua sposa
di scambievole fiamma; e i loro affetti
Li minaccia, gli sgrida e a te scoprirne
sei fra’ boschi, o vil donna. E che? Ti trassi
sugli affari reali? Eh! Ti rammenta
ch’altra è la regia sposa e tu sei serva.
Obblia qual fosti e le tue leggi osserva.
Che divida il suo cor? Ch’ami a sua voglia
                                         N’ami anche cento,
non ti prenderne pena; ei n’è contento.
                                              È di regina.
E se talor per altri arder la miri...
                           E se a Roberto ancora
scopra talor dell’amor suo le faci,
non trasgredir le leggi e servi e taci.
L’alte tue leggi adempierò qual deggio,
(Affetti di Gualtiero, io non v’intendo).
                  (Pavento).
                                        Eh! Non estingua in voi
fredda tema importuna i casti ardori.
che del tempo e del cor figli pur sono,
perdono al genio ed all’età perdono.
Perdono io non vorrei, se offeso avessi
rea saresti, o Costanza, e tu più reo,
Proseguite ad amarvi e siate fidi.
Più cortese marito ancor non vidi. (Si parte)
Spesso a dolce liquor misto è il veleno.
Spesso in mar lusinghier fremono i nembi.
                                         Con colpa amarti.
seguo l’esempio anch’io. Può ben la sorte,
far ch’io non viva più, non ch’io non t’ami.
l’apparato e la pompa; il dì già stanco
ravvivate co’ lumi; e più giuliva
del suo signor senta la reggia i voti.
Legge è del mio Gualtier ch’io stessa affretti
delle tragedie mie la scena acerba.
                                                 Impaziente
La tua viltà le chiare fiamme estinse.
Per l’illustre tua sposa ardano eterne.
della mia tolleranza i rari esempi.
qual io vil donna, in mezzo agli ostri avvezza.
                          (O virtude!)
                                                   (Il cor si spezza).
                                                      Mio sire.
                       E non moro?
                                                 Anima mia.
di premio il tuo coraggio. Io n’ho pietade.
pastorella ne’ boschi o ancella in corte.
                  Del fido Oton sarai consorte.
sostegno del mio scettro, egli il più chiaro
fregio della Sicilia. Il sangue, il merto
gli acquistan nel mio regno amor, rispetto;
dopo il suo re, può aver comune il letto.
                                         Mio re, mio nume,
mio sposo un tempo e mio diletto ancora,
legge mi feci, il sai. Dillo tu stesso.
Popoli, il dite voi, voi che il vedeste.
Mali, rischi, sciagure, onte, disprezzi,
Mi perdona, Gualtiero. È questo, è questo
il caro ben che solo io m’ho serbato.
Tua vissi e tua morrò, sposo adorato.
(Lagrime, non uscite). Omai risolvi.
Morte, morte, o signor. Servi, custodi,
chi avrà di voi del primo colpo? Ah! Sposo,
se pur cader per una man sì cara
Pur sia pena o sia dono, a te la chieggo.
Fa’ ch’io vada agli Elisi, ombra superba,
con l’onor di mia fede, e ch’ivi additi
opra già de’ tuoi lumi, or del tuo braccio.
(Non più, cor mio, non più). Sposa ti abbraccio. (Volgesi improvvisamente e, sollevando Griselda, l’abbraccia)
                              Viva Griselda, viva.
al cielo ed al re vostro, omai scorgete
qual regina ho a voi scelta, a me qual moglie.
tal la rende a’ vostr’occhi ed al mio core.
facile a voi perdono il vostro errore.
il pubblico delitto. Io fui che, spinto
dall’amor per Griselda, indussi il regno
più volte all’ire. Ebber gran forza i doni
Il tuo dolor mi basta e tel concedo.
Ma tu taci, o Griselda, e lieta appena
al tuo amico destin mostri la fronte.
Forse non gli dai fede? O forse intera
di Costanza la sorte. Ella era degna
            Sposa del padre è mai la figlia?
                                         O figlia!
                                                           O madre!
Ben mel predisse il core e non l’intesi.
tutto non m’involar, Roberto amato.
Il tuo dono, o gran re, mi fa beato.
E sia Everardo il tuo, ma tardo, erede.

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