Metrica: interrogazione
542 endecasillabi (recitativo) in Griselda Venezia, Niccolini, 1701 
Questo, o popoli, è ’l giorno, in cui le leggi
da voi prende il re vostro. A voi fa sdegno
donna avvezza a trattar rustica vanga.
Decretato è ’l ripudio; e voi ne siate
giudici e spettatori. Orché la rendo
col vostro amor quel del mio core emendo.
l’affar per cui sul primo albor del giorno
                                            Tutta quest’alma
               Ubbidisco.
                                     Il ripeter ci giovi
(Alto principio!) In vil tugurio i’ nacqui,
                                     Era il tuo ’ncarco?
                                    Il mio?
                                                    Dar leggi al mondo.
de la mia povertà vile ed abietta.
                                              E fui tua serva.
                                          Ed io nel core.
non dovea tanta fede e tanto amore).
                               Una figlia.
                                                     E tolta questa
E più non n’ebbi, o dio! notizia alcuna.
compié d’alor l’annua carriera il sole.
                                                  Io fui per essa
                                      Era tuo sangue
e versar lo potevi a tuo piacere
                                            Meno amar io
non ti potrei, se ancor versassi il mio.
                                 In sì gran tempo
ti spiacqui? Ti oltraggiai?
                                                Grazie sol n’ebbi.
Di quanto feci, io non mi pento. Il cielo
testimonio mi sia; ma pur conviene
che i miei doni ritratti. Il re talvolta
dee servire a’ vassalli e seco stesso,
per serbarne il dominio, esser tiranno.
Dove tu imperi, ogni ragion condanno.
ubbidirmi ricusa. Ella mi sgrida
che i talami reali abbia avviliti
co’ sponsai di Griselda; e non attende
da’ boschi, ove se’ nata, il suo monarca.
sposa di regio sangue al trono e al letto.
tanti lustri soffrì me per regina;
                                       Ella è gran tempo
che ricalcitra al giogo. Io già svenai
di stato a la ragion l’amata figlia.
Gli odi alquanto sopì ma non estinse.
Orché nacque Everardo, impaziente
sì bei nodi d’amor, dunque Everardo...
Son moglie, è ver, ma sono madre ancora.
Mi condona, o mio re, se troppo chiesi
forse a renderti un nome a me sì caro.
esser norma al mio affetto. Ecco mi spoglio
il diadema e lo scettro e a quella destra,
riverente il ritorno. (Dà a Gualtiero la corona e lo scettro che, prendendoli, fa deporli ad uno de’ suoi sopra d’un tavolino)
                                      (Alma, resisti).
ne le perdite ancor trovo gli acquisti.
                                           E bene, al porto...
Se mi sente Griselda, Elpino è morto. (Piano al re)
                                  Giunta è la sposa.
Giunta è la regia sposa? Addio, Griselda.
                                    Atteso io sono. (Senza più riguardarla)
                                   Troppo mi chiedi.
Se ti lascia Gualtier, ti lascio anch’io. (Fingendo partirsi, torna poscia a Griselda)
dia saggio di sé stessa. Ostri reali
vestì già senza fasto; e al primo nulla
torni senza viltà. Sol può Gualtiero
mie sciagure, imparate ad esser pene.
(Costui quanto è importun!)
                                                      Su le tue chiome
A serbartela Otone è sol bastante,
fido vassallo e cavaliere amante.
mi ritoglie un suo don. Se perde il capo
l’insegne di regina, a me, lascivo,
E soffrir puoi ch’altra ti usurpi un fregio
                                         Fregio che basta
è l’innocenza a l’alma.
                                          Io, se lo imponi,
il nome di regina e quel di moglie.
Iniquo, e lo potresti? E tal mi credi?
lontano ancor, ne l’alma mia scolpito.
dà tempre a questo ferro; ed un suo colpo
troncherà i tuoi perigli; e tu nol curi?
grandezza non si ottien, si ottien ruina.
Sinché ’l senso è vassallo, io son regina.
tra le porpore al fasto; la corona
adito non le lascia a’ miei sospiri.
avrà forse pietà del mio cordoglio.
Con sì bella speranza, io primo a l’ire
di dar figli a Gualtiero, eredi al trono.
Tal, crudel per amore, empio per fede,
de’ mali suoi nel suo possesso attendo.
Non ti posso acquistar se non ti offendo.
dirò germani miei, cari egualmente,
qui per brev’ora m’attendete. Io deggio
gire incontro a Gualtiero, al regio sposo.
                                               (O dì penoso!)
Questa che premi è la Sicilia; e quella
è l’alta reggia, ove Gualtiero attende
leggi dal ciglio tuo per darle al mondo.
                                             Io mi torrei
più volentier viver privata e lunge
da quella reggia, a me di gioie avara,
purch’io di te, tu di me fossi.
                                                      O cara.
de l’aureo scettro e del reale ammanto
ti verrà a balenar sulle pupille,
vile l’amor che per me t’arde; e cinta
non lascerai pur di Roberto il nome.
e pur tutto il possiedi. Al cielo, a’ numi
Col grado cangerai sensi e costumi.
dove meno è di rischio e più di pace.
come su l’alma mia. Sì vil non sono
che a discender dal trono io ti esortassi.
Non ti amerei, se a prezzo tal ti amassi.
Pensa che, giunta al regno e altrui consorte,
per tuo, per mio gastigo, onore e fede.
più la grandezza tua che ’l piacer mio.
                                          La tua beltade,
più che degna di me, degna è d’impero.
È mia cura ubbidir. (A Gualtiero)
                                       Bella Costanza.
                  Qual mai ti stringo? E qual nel core
tenerezza e piacer, figli d’amore?
Signor, da tua bontà l’alma sorpresa
più che ’l mio labbro, il suo tacer palesa.
                                         (Mesto è ’l germano).
                                    Mi sarai caro.
di quello scettro e di quegli ostri, o bella,
già riserbaro al tuo natal le stelle.
o di ceppo real germe ben degno.
ornamento la reggia e gioia il regno.
              Signor.
                              Fa’ che Griselda affretti
                                           Corro veloce. (Parte)
Andiam; più non s’indugi, idolo mio.
Seguo il tuo piè. (A Gualtiero) Prence. (A Roberto che se le accosta)
                                                                       Regina.
                                                                                        Addio. (Gualtiero, volgendosi improvviso a Costanza, la vede mesta e nel partire si ferma)
Perché adular la mia speranza? I miei
                                    Regge, o germano,
gli umani casi il ciel. Soffri più forte
l’alto voler né ti attristar cotanto.
farci a un vero gioir strada col pianto.
diletto de’ miei giorni. Io l’ho perduta.
Altro ben non mi resta e non mi lice
pria che termini il dì, sarai felice.
è la perdita mia che ’l dubitarne
sarebbe inganno. Al regio sguardo, ahi, troppo
Ed a chi mai non piaceria quel volto?
fecer me così amante e voi sì belle.
vuol ch’io parta Gualtier, senza che ’l miri?
No no, qui ancor l’attendo; e tu, se nulla
ti muovono a pietà le mie sciagure...
                              Recami il figlio, ond’io
ne l’ultimo congedo, in tanto duolo
su quel tenero labbro un bacio solo.
(Mi fa pietà). Per compiacerti io volo.
Parto, amato mio re, poiché mi è tolto
Già ritorno a le selve. Eccomi ancora
in quel rustico ammanto, in cui ti piacqui.
Tal mi presento a te, non perché speri
più di piacerti ancor. Fu, se mi amasti,
sia pietoso o crudel, sempre tuo sguardo.
Che? Di te mi favelli! Ed io credea
ti occupasse il pensier. La vidi, o quanto
                                          E l’amo anch’io. (Gualtiero torna a mirare il ritratto)
Ciò che piace al tuo affetto è caro al mio.
vagheggio il dardo, onde trafitto ho ’l core.
La tua gioia è conforto al mio dolore.
ne la sua la tua fronte; e in lei ravviso,
solo alquanto men crudo, il tuo bel viso.
Godrò seco felice. (Togliendole di mano il ritratto)
                                   Il ciel ti dia
ti vezzeggino intorno; e appena in tanta
de la misera tua fedel Griselda.
onde trarla a te piacque, e sol vi reca
un rifiuto di morte, un cor senz’alma.
per l’innocente figlio; e in lui perdoni
La forza, che a te fai, ti leggo in volto.
(Ceder mi converrà, se più l’ascolto).
Temo usarti pietà con mio periglio. (Elpino si ritira. Otone a parte lo afferra e li parla all’orecchio)
del mio Gualtiero; e in un sol bacio sento
rallentarsi il rigor del mio tormento.
                                          A me, Griselda, (Corre a prenderle di mano il fanciullo)
toglimi ancor. (Elpino guarda Otone)
                             Che più dimori? (Ad Elpino minacciandolo)
                                                              Invano. (Le toglie affatto il fanciullo)
che nieghi ad una madre un dolce amplesso?
Tel dica Otone. (Mostrandole Otone che si avanza)
                               Il tuo Gualtiero istesso.
giugner non mi potea nome più caro.
                             Ingrata.
                                              Ecco veloce,
a la fatal partenza il cor si appresta.
(Mio Gualtier, ti ubbidisco).
                                                     Odi; ti arresta.
                                                   Signore.
custodisci il fanciullo. A me già diede
                                             Sai la mia fede. (Parte col fanciullo)
s’ha da tentar, cor mio. Già la disegno.
Ciò che non può l’amor, vinca l’ingegno.
                                In breve spazio accolto
qui di più regni è ’l prezzo.
                                                   E ’l dì risplende
qui di luce miglior fra l’ostro e l’oro.
(Ma fra tanti non veggio il mio tesoro).
già ti udii favellar, ninfa e regina.
                                        Ed or fra’ boschi...
Veste in uffizio vil ruvide lane.
                                 Ti lascia erede.
                                      E ’l re, che tanto
piangendo i mali suoi, temo il suo esempio.
Vano timore. Ella in villano albergo
                                   Io te ne accerto.
fa l’indole real de’ tuoi natali.
È mia sventura il non saperli ancora.
E tua sorte è ’l veder che ’l re t’adora.
Con quell’amor che si conviene a sposa.
E quel di amante a cui riserbi? È questo
Genio in questa è l’amore, in quella è legge.
Più che Gualtiero, ami Roberto.
                                                           O dio!
L’amai pria col tuo core e poi col mio.
tema e rispetto. Il suo diadema inchino;
stimo il suo grado e sol Roberto adoro.
                        Ferma ad udirlo il passo.
                                                 E amor tel chiede.
la vita lascerò, dolce mio bene;
il finger crudeltà per le sue pene.
al tuo fedel Roberto anche d’un guardo
Sdegna amore il mio grado e vuol rispetto.
              Non più.
                                 Rispetta il grado e parti.
                                 Regina e moglie,
più non devo ascoltar che il re mio sposo.
(Fosse almeno Gualtier così vezzoso).
a nobil caccia il tuo signor t’invita.
Ei nel bosco real te in breve aspetta. (Parte)
                                          È vero.
                                                          Il cielo
                                            Così mia fossi.
                                                Barbari nodi.
                                        Giubila e godi.
così l’antica fiamma, il forte laccio
Di che mi dolgo? Ella è regina e sposa.
non si tenti il suo onor. Volerla amante
Mi perdona, o mia cara; e a te, mio core,
la gloria de l’amar senza speranza.
bastasse a consolar l’alma dolente,
qui spererei conforto, ove, col nome
mi ricordan diletti i tronchi istessi.
Ma che? Nel rivedervi, o patrie selve,
cresce l’affanno; e qui spietato e rio
a pascer di memorie il dolor mio.
ove il rustico letto in nude paglie
stanca m’invita a riposar per poco.
Gualtier non già ma la real grandezza,
al silenzio e a la pace il duolo avvezza. (S’incammina verso la capanna)
                                         O figlio! O dono! (Veduto Everardo, li corre incontro)
Di crudo impero esecutor qui sono.
lasci esposto a le fiere il tuo Everardo.
                                                 E cor sì duro
di tale uffizio al cenno altrui si ascriva.
Ah! Vuol l’empio destin ch’io ’l sappia e viva.
Né tutta ancor sai la tua sorte, o donna.
Non attendo da Otone altro che mali.
se’ stupida al dolore e non se’ forte).
              Signor.
                              Poiché col ferro aperta
per più strade a quell’alma avrò l’uscita,
gitta a le belve, ove più ’l bosco annotta.
Pargoletto innocente, in che peccasti?
quella che pietà chiede e umil ten priega.
A chi usò crudeltà, pietà si niega.
Quella che merta alfine amore e fede.
Col ripudio real libera torni
Anche in rustico ammanto, anche fra’ boschi,
ti bramo in moglie; e se non porto in fronte
più re per avi; e su più terre anch’io
                                          Otone, addio. (In atto di partirsi)
E ’l tuo figlio? (Otone afferra Everardo)
                             Ah! Che ancora il dolce nome
                              E la crudel sentenza
                          Solo a tal prezzo.
                                                          Il pianto?
che scorre ne le vene al tuo Everardo.
e la man disarmar del ferro ignudo.
Ubbidisci al tuo re. Svenalo, o crudo. (Griselda pensa e poi risoluta risponde e parte)
Fermati, Oton; ma so che fingi.
                                                          Elpino,
                                             A dura impresa
                               (Ingrata donna, alfine
giovi teco la forza e mia ti renda).
                       S’egli l’abborre e sprezza,
lo servo e non l’offendo. Io mentre a l’opra
raccolgo i miei, tu col real bambino
(Ma volo in corte ad avvisarne il re). (Parte)
quella ch’ora vi opprime, o mie pupille?
Sonno non è, che quando è ’l cor doglioso
non è vostro costume aver riposo. (Si asside sul letto)
o del fiero cignal scorre le selve,
io qui stanca lo attendo, ov’ei m’impose.
E col breve soggiorno illustri, al pari
                                      Ove più suona
di latrati e di gridi il monte e ’l piano,
cacciator tu ritorna al re mio sposo,
Puoi col tuo amore ingelosirlo. Parti.
non rimango, o Roberto. Anco entro a questa
Donna su letto assisa e dorme e piange. (Se le accosta)
volto ha gentil! Sento in mirarla un forte
movimento de l’alma. Entro a le vene
s’agita il sangue; il cor mi balza in petto.
                                     M’apre le braccia e al dolce amplesso
Non resisto più, no. (Corre ad abbracciarla)
                                       Diletta figlia. (Dormendo l’’abbraccia)
(Il più bel del suo volto aprì negli occhi).
                                                    (A l’aria, al volto
Troppo nel cor restò l’immago impressa).
                                        E qual destino
donna real, che tal ti credo?
                                                    Io stanca
dal seguir cacciatrice il re mio sposo,
Stanza è questa di duol, non di riposo.
le tue sciagure a consolar Costanza.
del cor, se troppo chiedo. Ove nascesti?
Dove vissi lo so, non dove nacqui.
                            M’è ignoto.
                                                   I genitori?
                                           E nulla hai certo
                            Sol che di re son figlia.
Ben ne sei degna. Ingannator mio sogno.
stringer la figlia e la rivale abbraccio).
l’uccisa figlia e ne piangea di gioia.
Ma se la uccise empio rigor di stella...
                                   Tu non se’ quella.
De’ tuoi be’ sguardi è troppo indegno, o cara,
                                      Illustre e degno
la sua gentile abitatrice il rende.
Anche qui vieni a tormentarmi, o donna?
Questo è ’l povero mio soggiorno antico.
Più non dirmi tuo re ma tuo nemico.
Se i prieghi miei del tuo favor son degni...
che più dal fianco mio costei non parta.
Ne la reggia, ne’ boschi, ovunque i’ vada,
A te serva costei? Qual sia ti è noto?
che amai per mia sciagura, alzata al trono,
perché ne fosse eterna macchia.
                                                           (Oh dio!)
reser la sua viltade e l’amor mio.
                    Ah! Più non dirlo; anche al mio labbro
venne il nome abborrito e pur lo tacque.
Sia vile; oscura sia; con forza ignota
un amor non inteso a lei mi stringe.
                          E in amistà più raro.
A maggior tolleranza il cor preparo.
volger volea con gente armata il piede,
Otone armato? Ed a qual fine, o prence?
E mora Otone, il rapitore indegno.
se rapita è Griselda? A suo talento
ne disponga la sorte, Oton la involi.
                         Così mi giova.
                                                     Ed io...
Troppo è crudele il tuo signore e ’l mio. (A Griselda. Si ritira con gli altri nell’altra interna capanna)
ti tolga altri l’onor de la mia morte.
                                            Empio, vien pure
a svenar dopo il figlio anche la madre.
Suo uccisor mi temesti; ei m’ebbe padre.
di’ ch’io vada a la tomba.
                                               E che far pensi?
Ciò che può far cor disperato o forte,
                                         Ora il vedremo.
Bella, vi aperse altre ferite amore.
                             Lasciami in pace.
                                                               Vieni
e reo non mi voler di maggior fallo.
Il minor mal, ch’io tema, è ’l tuo furore.
Su, miei fidi, eseguite; il re lo impone.
Lo impone il re? Se’ troppo fido, Otone.
È da leal vassallo il far che l’opra
Scudo tu fosti a l’innocenza, o cielo.
Corrado, a la mia reggia Oton si scorti.
Oton, si cinge inutilmente il brando.
Eccolo a’ piedi tuoi. (Fato inumano!)
                                       A la pietà le rendi
è suo solo favor la tua salvezza.
dacché ti è cara, anche Griselda apprezza.
                                                  E venga ancella,
ove visse regina, ove fu moglie.
d’un più vil ministero adempi e serba;
a l’uffizio servil l’alma superba.
a la stessa rivale e vuol ch’io l’ami.
Gualtier mi è sì crudele e pur l’adoro.
A vista de’ miei mali, entro la reggia
tutto il conforto a la miseria mia.
o Gualtiero o Costanza. I pianti affreni;
e pentita persin di que’ che ha sparsi,
senta l’aspro suo duol senza lagnarsi.
Chi mai ’ntese destino eguale al mio.
Supplice inchino il mio monarca.
                                                              Otone,
divien minore. Un reo, che niega o tace,
Il ver mi esponi e a l’ardir tuo prometti
sia quel che premi o tribunale o trono.
                              Al testimon del guardo
tace il labbro e ’l conferma.
                                                   Ove di trarla
Lungi da questi lidi, ove non fosse
                               (Che potrò dire?)
                                                                 A l’opra
                              Sorgi e in dir sincero
Dal cor, più che dal labbro, odine il vero. (Si leva)
sedea Griselda, io la mirai con altro
Dal tuo ripudio e da’ suoi mali, in seno
pietà mi nacque; e poi ne nacque amore
usò pria la lusinga, indi il rigore.
                                                     Amor fu solo
                                      S’amo in Griselda,
signore, un tuo rifiuto, e di qual fallo
col cor del suo monarca ama il vassallo.
sparso a pro del mio regno, a la tua fede
                         Diasi l’oggetto ancora.
e scorno tuo, ch’erri fra monti e boschi...
Innalza un tuo rifiuto e in lei permetti
ch’io, sposo erede, ami i tuoi primi affetti.
Vedi se t’amo. Il giuro, Otone, il giuro
ch’io mi sposi a Costanza, avrai Griselda.
O dono! O gioia! Al regio piè prostrato
che la grazia si adempia e poi la rendi.
Da l’amor di costui preser fomento
che nel mio seno il tuo ripudio estinse.
E che vive nel mio mantien la fede.
A quel talamo ancella, ove fui moglie.
Itene, e voi custodi. Impazienti
M’è affanno ogni momento e già maturi
stan ne l’ozio penando i casti amori.
il giubilo comun col tuo cordoglio.
colà frena i sospiri, anche del pianto
e termini prescrivo al tuo dolore.
Per compiacerti, il chiuderò nel core.
nel tuo core e nel mio sento il tuo affanno.
Aver vicino il ben perduto è pena.
incontra il fato e rasserena il ciglio.
Cerco al duolo rimedio e non consiglio.
                                          Ah! Tu mi desti
                                   A la fatal partita.
                                Che su’ miei lumi un altro
Che le dia sposo abbracciamenti e baci?
Sacrifizio crudel, non vo’ mirarti. (Costanza soprarriva a Roberto che in vederla si arresta)
da questa reggia, ove il tuo cor mi lasci
Tu de’ miei sguardi ancor torti il diletto?
Se’ ben empio al tuo core e ingrato al mio.
che da me può voler? Vederne i pianti?
Da l’aure i senti e ne l’arene i miri.
offensor di natura, a che mi astringi?
già mia gioia, or mia pena, ove mi guidi?
affetti del cor mio, se siete infidi).
Va’ pur, Roberto; e poiché rea mi lasci,
d’altri fia questa man, tuo questo core.
se non più lieto, almen più ratto il piede.
Gran lusinga a l’indugio è la tua fede.
Gran periglio è l’indugio a l’onor mio.
             Senza un amplesso?
                                                    Amor... (Si prendon per mano)
                                                                    Fortuna...
O per sempre ne unisci o qui m’uccidi.
E per sempre vi unisca, amanti fidi.
vieni amico a la reggia? È questa, è questa
un marito non ami? Un re non temi?
O indegni affetti! O vilipendi estremi!
                    (Qual consiglio!)
                                                     Ancor tacete?
ad ingegnoso amor non manca mai.
              Ascolta.
                               Fa’ cor.
                                               Che dir potrai?
da me l’ultimo addio prendea poc’anzi,
Ma fia d’altri la mano e suo quel core.
mi affrettava Costanza; io pur non tardo
Ma lusinga a l’indugio è la sua fede.
E i sospiri? Gli amplessi? Onesta moglie
che per lo sposo. A l’onor suo fa macchia
chi le gravi onte sue simula o tace.
Perché tu d’ira accesa? E voi, bell’alme,
                                (E dovrò dirlo?)
                                                                Esponi.
                                     Elpin mel narri.
Tu, se parli o se taci, ognor mi offendi.
Signore, il tutto in poche note intendi.
Ardon Roberto e la real tua sposa
Li minaccia, gli sgrida e a te scoprirne
Elpin, mi risparmiasti un gran rossore.
se’ fra’ boschi, o vil donna. E che? Ti trassi
di spia le parti o di ministra e serva?
Obblia qual fosti e le tue leggi osserva.
Che divida il suo cor? Ch’ami a sua voglia
                                         N’ami anche cento,
è vano il tuo travaglio; ei n’è contento.
                                              È di regina.
E se talor per altri arder la miri...
                           E se amorosa al seno
non trasgredir le leggi e servi e taci.
L’altre tue leggi adempirò qual deggio,
(Affetti del mio sposo, io non v’intendo).
                  (Pavento).
                                        Or non estingua in voi
fredda tema importuna i casti ardori.
che del tempo e del cor figli pur sono,
perdono al genio ed a l’età perdono.
Perdono io non vorrei, se offeso avessi
rea saresti, o Costanza, e tu più reo,
Proseguite ad amarvi e siate fidi.
Più cortese marito ancor non vidi.
                                    (E lo credo?)
                                                              (Udii?)
                                                                               (Sognai?)
(Maggior sorte in amor chi ’ntese mai?)
Spesso a dolce liquor misto è ’l veleno.
Spesso in mar lusinghier fremono i nembi.
                                         Con colpa amarti.
seguo l’esempio anch’io. Può ben la sorte,
far ch’io non viva più, non ch’io non t’ami.
Pensa Elpino, ripensa e non l’intende.
Non opra a caso il re che agli altri è legge;
ma la ragion de l’oprar suo non vedo.
Scaccia Griselda e la richiama. Otone
e che un altro l’abbracci ei non si offende.
Pensa Elpino, ripensa e non l’intende.
l’apparato e la pompa; il dì già stanco
ravvivate co’ lumi; e più giuliva
del suo signor senta la reggia i voti.
Legge è del mio Gualtier ch’io stessa affretti
de le tragedie mie la scena acerba.
                                                 Impaziente
La tua viltà le chiare fiamme estinse.
Per l’illustre tua sposa ardano eterne.
de la mia tolleranza i rari esempi.
qual io vil donna, in mezzo agli ostri avvezza.
                          (O virtude!)
                                                   (Il cor si spezza).
                                                      Mio sire.
                          (E non moro?)
                                                       Anima mia.
(Che pensi, o cor?) Tempo è, Corrado.
                                                                      Ah vedi
                                   In sua virtù confido.
Ma tal che far può scorno al sesso forte.
                                  Amor mi assista.
                                                                   E sorte.
di premio il tuo coraggio e n’ho pietade.
pastorella ne’ boschi o ancella in corte.
                  Del fido Oton sarai consorte.
sostegno del mio scettro, egli il più chiaro
fregio de la Sicilia. Il sangue, il merto
gli acquistan nel mio regno amor, rispetto.
dopo il suo re, può aver comune il letto.
                                         Mio re, mio nume,
mio sposo un tempo e mio diletto ancora,
legge mi feci, il sai; dillo tu stesso;
popoli, il dite voi, voi che ’l vedeste.
Mali, rischi, sciagure, onte, disprezzi,
Mi perdona, Gualtiero. È questo, è questo
libero dal tuo impero io m’ho serbato.
Tua vissi e tua morrò, sposo adorato.
(Lagrime, non uscite). Ommai risolvi,
Morte, morte, o signor. Servi, custodi,
chi avrà di voi del primo colpo? Ah sposo,
se pur cader per una man sì cara
Pur sia pena o sia dono, a te la chiedo.
Fa’ ch’io vada agli Elisi, ombra superba,
con l’onor di tua fede, e ch’ivi additi
opra già de’ tuoi lumi, or del tuo braccio.
(Non più, cor mio, non più). Sposa, ti abbraccio. (Solleva Griselda e la abbraccia)
                              Viva Griselda, viva.
del cielo e del re vostro, ommai vedete
qual regina ho a voi scielta, a me qual moglie.
tal la rende a’ vostr’occhi ed al mio core.
facile a voi perdono il vostro errore.
il pubblico delitto. Io fui che, spinto
da l’amor di Griselda, indussi il regno
più volte a l’ire. Ebber gran forza i doni
Il tuo dolor mi basta e tel concedo.
Ma tu taci, o Griselda? E lieta appena
al tuo amico destin mostri la fronte?
Forse non gli dai fede? O forse intera
di Costanza la sorte. Ella era degna
            Sposa del padre è mai la figlia?
                                         O figlia!
                                                           O madre!
Ben mel predisse il core e non lo intesi.
tutto non m’involar, Roberto amato.
Il tuo dono, o gran re, mi fa beato.
E sia Everardo il tuo, ma tardo, erede.

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