Torno al campo, o Romani,
la vittoria e ’l trionfo.
saran guida a’ tuoi passi
e a te, se ben mel taci, (A Rutilia)
Dal campo che ad Imbrinio,
signor, lasciasti, or ora
Se liete o infauste... Intorno
Se il tuo Fabio qui fosse...
e pria che manchi il giorno
tu ’l fratel, tu lo sposo.
Or va’, credi a’ tuoi spettri.
diè ’l pullario gli auguri.
Quinto a regger le schiere
Fabio lo vede e ’l soffre.
piegano al primo incontro.
nel folto e aprir nol posso.
Fo che a’ destrieri il morso
sia tratto. A sciolto corso
mordon l’arena. Gli altri
qual dovea, qual l’attesi.
per altra via non s’entra
de l’opre mie. Tu impulso,
e ’l trasgressor minaccia.
sassi a l’aria scagliati;
che, se ho cor per amarla,
Quella è Roma, o guerrieri,
Morte infame ad un Fabio?
sotto la scure; e un capo
Ma, se ti duol mia morte,
e, se in lui più del giusto
Qui la sella curule. (Uno de’ littori porta la sella curule e l’apparecchia nel mezzo)
Parti; e Quinto a me venga. (Siede)
O dei! Fabio, mia vita. (Si ritira col fazzoletto agli occhi, incontrandosi con Fabio)
Fabio, a quanto sol chiedo
Dimando. A che d’Imbrinio
Questi incerti o infelici,
gli auspici, i sacri riti,
son per tua colpa, o Fabio,
La vittoria mi assolve...
Quella, a cui mi condanni,
Venga ella pur. Mi è pregio
si stendesse il tuo orgoglio,
L’una e l’altra, o malvagio,
Sì, ma non tra i littori.
Seguitemi. Vedremo (Si leva dalla sedia curule che tosto vien ripigliata da un littore)
chi alzerà il primo ferro
Fosse ancora a me figlio,
e tra le verghe e ’l ceppo
lascio? Qual seguo? Lucio,
domar l’un, placar l’altro.
per te un nuovo ornamento.
Scorge il cielo s’io l’ami;
vedrollo a ciglia asciutte
in suo eccidio si ostina,
invan l’uno, invan l’altro
No; ma passa in tua mano.
mi dia la vita? O ingiusto?
Se giusto, a che gittarne
Se ingiusto, a che tentarti
non t’irritin gli sprezzi.
Me la nega la figlia? (Vedendo Marco Fabio gli va incontro)
Fa il natal vari i gradi,
Servilio, ora al tuo amore
purché giusto il decreto,
Buon pel reo che non tocca
da le tue braccia... (In atto di volerlo abbracciare ma è respinto dal padre)
quant’ho vigore in petto!)
Deh! Ferma. (Prendendola per una mano)
L’aver vinto è ’l mio fallo.
Perché a Lucio abbassarmi,
Non ti assolse il Senato;
Ma almeno oltre al sepolcro
dirò: «Fabio, mio sposo».
Ei l’assolva o ’l condanni,
con qual fasto il vedesti?
Ma non son questi i torti
per la tua gloria e vinsi.
d’esser troppo importuna.
Va’. Fabio venga. Io solo
qui l’attendo a mie piante;
fuor di mia tenda, or ora
(A che m’astringi, amore!)
(Vien Quinto. A lui si asconda
Signor, vuol mia sciagura
chi abbracciasti altre volte
Nol niego, errai; ma errando
sottometto a tua legge. (Depone sul tavolino l’elmo e la spada)
Senz’aspettarne il cenno,
Svegli schiere a tumulto;
di’ se deggia a mie piante
Ciò che a te qui mi trasse
Olà. (Al cenno di Lucio Papirio si alzano le due grand’ali del padiglione e vedesi il Campo Marzio tutto ingombrato di popolo e di soldati)
di Fabio e di mio figlio;
Nobil fregio al tuo nome,
di Roma agli occhi e a’ tuoi.
Mi sorprende il suo inganno.
Ma a favor di un tuo figlio
A sì nobile sforzo, (Trattenendolo)
Ciel, se mi desti un core
può ’l sostegno e l’onore,
Meglio al pubblico sguardo
uom proscritto non sieda.
Da un Fabio, ovunque stiasi,
Popolo, nel cui braccio (Levandosi)
che dia tutto il suo sangue
Ma sia giusto, o Quiriti,
Qual onta a’ suoi soldati?
Se pietade, o Romani, (Levandosi dal suo seggio)
che togliete a mia scure.
Dissi e ’l ridico ancora; (Avanzandosi alquanti passi verso i gradini)
Seguimi; e poi che altrove
Possiamo a’ nostri affanni
ch’io non sprezzi Servilio.
qual chi presso al naufragio
quelle che già ad Imbrinio
Taci il colpo e ’l facesti.
grandezza e ’l comun bene.
Scemarla è un perder Roma.
Eccoti il plebiscito. (Porge a Lucio Papirio il decreto del popolo romano)
Figlia, o quanto t’inganni!
di chi osserva dal suolo;
e le ginocchia abbraccio (S’inginocchia)
Prendi e rimetti al fianco
Tal per Roma si scorti (Ai littori)
il banditor: «Muor Quinto,
perché ha pugnato e vinto»,
a’ suoi grand’avi a canto
Qual ti abbracciai poc’anzi!
Tu, che ne unisti in vita,
perché sgiungerne in morte,
dammi un amplesso ancora.
con quei di Giunio e Tito.
Fabio, è ver, non mi è figlio.
Morto il fratel? Non soffre
avranno il lor supplicio;
saprà ancor sostenerla. (Scendono dall’alto delle logge i littori)
Costretto io dar perdono?
non fu più grande ed ella
Sia questo ancor maggiore
Ah! Non ritorcer gli occhi.
quella, o signor, che vedi
di unirti al Fabio sangue,
mi sorprende e m’illustra.
il pregio hai d’esser forte,