Metrica: interrogazione
555 settenari (recitativo) in Venceslao Pesaro, Gavelli, 1724 
già ’l superbo moldavo
grand’esempio e gran pena,
del poter nostro. Hai vinto;
Vieni, onde al sen ti stringa,
o forte del mio regno (Lo abbraccia)
                                O sempre
generoso Alessandro. (Si abbracciano)
non dee lasciarmi ingrato.
                Temo nel prezzo
Vil non fia ciò che puote
tutto il premio ch’io cerco
in sé racchiude un volto.
                    Ernando amante?
                 (Ah! Più nol sofro).
                            Ammutisci,
che non fia chi ’l sorpassi
E ch’ei tema, gli aggiugni,
che un mio servo, un Ernando
l’illustre principessa...
stranieri in quella corte...
                     È morta forse?
             Che far poss’io?
Misera principessa! (Si ritirano in disparte)
vi affissate, o miei lumi.
l’alto onor d’inchinarti.
                              Lucindo.
                    Sì, l’erede
s’incontraro co’ suoi,
scambievol fiamma. Io seco
si diede il casto amplesso.
fa’ ch’io ’l sappia, onde fine
All’ombra de’ tuoi lauri
                           E grande.
                  Or la dimora
Ma quale è ’l tuo consiglio?
                              O dio!
                   (Fra sé che pensa?)
Da lei che adori or prendi
                             Perché?
non è offesa al tuo grado,
ti trasporta il tuo sdegno.
Erenice offendesti. (A Casimiro)
                L’amor di Ernando
grave offesa è al tuo grado.
Questo è ’l tuo sol comando,
                                       Amore.
Questo è ’l tuo sol disio,
                    Spergiuri affetti,
fia sacro a’ miei natali.
più dell’Istro e del Tebro,
principe, i passi. A quanto
                                      (O note!)
                  Prendi e rimira.
«Per quanto ha di più sacro, (Legge)
signor. Mentito è ’l grado,
                   Casimiro,
tuo egual, che meco io trassi
per mia bocca or t’invita
                                Assento;
godrà l’amico. Io ’l nodo
                    Già nel mio core
Sia l’ubbidirti, o bella,
Parli il labbro e ’l confessi,
per più offender l’amico?
Per più macchiar?... Ma dove,
E m’ami, alfin vuoi dirmi,
Voglio esser reo né posso.
Egli è il prence e l’erede
                       Che arrechi?
L’offerta d’un diadema,
già sposa ad altri amplessi.
                                   È tempo...
                              Gismondo,
giunser mai con gl’incensi
O tu, che ancor non veggio (Casimiro sta confuso)
t’è di Lucinda e ’l nome?
Fede non le giurasti? (Casimiro non la guarda)
Dunque all’armi, spergiuro. (Dà di mano alla spada)
Su, strigni il ferro; e temi
Se’ vinto; ed è ’l tuo torto
Che sento? Ella è Lucinda? (Il re scende dal trono)
La notte avanza; e ’l prence
                               Gismondo,
Eppur cresce nel seno (Si asside al tavolino)
Che acciaro è quel? Che sangue
                  Parla.
                               Poc’anzi...
andai... Venni... L’amore...
Lo sdegno... Una nell’altra
                                         O dei! (Si leva)
                                   Ed io,
Io morto? Ho vita, ho spirto
                            (O ferro!
Signor, che il tuo potere (A’ piedi di Venceslao)
che ’l tuo dolor mi chiede.
per me avvampar. Ma ’l fuoco
sparso era il ciel, quand’egli
                              O cieco
quell’orror, quel pallore, (Additando Casimiro che sta confuso)
quel ferro ancor fumante (Casimiro si lascia cader lo stile di mano)
Parla. Le tue discolpe (A Casimiro)
                     Sì, la spada.
Eccola, o re. Già il core (Depone la spada sul tavolino)
O dal figlio e dal padre, (Piagne)
(Della real promessa (Tra sé)
            Dal duro uffizio
                                Or vanne
Ma se ’l prence al mio amore
Ben ne ho dolor; ma indegno
ed or, bella, a’ tuoi piedi
tuo pianto io son contenta.
               Dal reggio labbro
anch’io voglio, anch’io giuro.
            Si avanza a’ tuoi cenni
                              Venga.
De’ più illustri sponsali
                                Deh come
m’è ’l dono tuo. Lo accetto,
                             E vita
                                 Regina,
                    In Casimiro
                             Padre.
Anzi questo è ’l sol nome
che più mi è caro, io meco
Va’ pur; ti è cara, il veggio,
Sì, vivi. Il dono è questo
                               Sì tosto
si avvilisce il tuo sdegno?
Pera anche il re ma ’l colpo
che tu ’l comandi o ’l vibri?
                                Parmi
tutta incendio e tutt’armi
                            E senza
                       E prendi in questo
                    Ahi pena!
                                         Ahi sorte!
                    Sì, ma vanne
                            Opportuno
L’avrai, quando anche fosse
rompi ogn’indugio ed arma
Sono infranti i suoi ceppi,
Erenice, Lucinda, (Da sé passeggiando)
volontario a’ tuoi ceppi;
                                Al soglio
piego umil le ginocchia. (Casimiro ascende alcuni gradini del trono e s’inginocchia dinanzi al padre)
(Cor, non anche t’intendo).
                               Conviene

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