son anco eretti a Siracusa i muri?
Cresce l’opra al lavoro e in miglior guisa
ciò che strusse il furor, l’arte ripara.
Molto deve il re nostro alla tua fede.
Seguo l’esempio tuo, che in pro del regno
non risparmiasti né sudor né sangue.
Ma la giusta mercede altri m’invola.
cadde Lentino e Tauromina e Nasso;
Dionisio le leggi a più gran regno.
È ver; ma di tant’opre ove ne resta
Meride e Selinunte han statue e marmi;
nel regio affetto il primo grado; e solo...
vi avrò maggiori. Chi a cader comincia
nel lubrico e nell’erto, è già caduto.
Mai sì turbato il tuo gran cor non vidi.
Né di turbarmi ebbi cagion più giusta.
nell’amor di Ericlea mi son rivali.
n’abbia l’amor, nol so. Certo l’un s’ama;
l’altro si soffre; e lo sprezzato io sono.
tornano entrambi a Siracusa.
chiederanno le nozze a me dovute
col prevenirlo. Il re, da te richiesta,
qual potrà ricusarla? O a te negata,
Sempre è buon consigliere un vero amico.
e se al tuo merto ricompense eguali
non avrà il genitor, le avrà la figlia. (Mostrando Areta che sopravviene )
Le avrà ma quanto esige il suo dovere.
E al mio misero amor nulla di spene?
Può risponder la figlia al fido amico;
all’audace amator risponda il padre.
lo assolve il voto mio. Spera. Io difendo (A Nicandro )
la ragion del tuo amor. Non sempre Areta
ti sarà ingiusta. Espugneran quell’alma
la tua fede e il tuo merto o un mio comando.
nascer da impero o da servil timore,
né diletto ei saria né saria amore.
Figlia, tu gli occhi abbassi e stai dolente?
Del mio destin la dura legge intendo.
Di Nicandro l’amor tanto ti è greve?
Veder che tu l’approvi è il mio dolore.
Egli in corte ha favor. Di Siracusa
commesse a lui son la custodia e l’armi.
A costo ancor della mia pace? Ah padre!
Orsù, ti accheta. Non temer ch’io stenda
sovra il tuo cor l’autorità del cenno.
che ad accorta beltà non costa molto
l’arte del labbro e la bugia del ciglio.
Quale? Sincerità fa pochi amici,
molti accortezza; e le fortune han corso
dove l’applauso popolar le spinge.
Non i molti, cred’io, ma i veri amici
Meride un sol ne vanta in Selinunte;
e questo eleggerei, pria che la folta,
che ti circonda, instabil turba e lieve.
Più non t’escan dal labbro i due funesti
nomi odiosi. In solo udirli il sangue
spandersi al viso, indi serrarsi al core.
In loro ho due nimici, ho due rivali.
Né Timocrate è vil né tua beltade.
non è ancora il destin che ti vuol grande.
Tien per me arcani un padre?
Vanne. Qui attendo il re. Lusinghi intanto
idea d’alta fortuna i tuoi pensieri.
Per più languir, non m’insegnar ch’io speri.
Tra’ più felici numerar ben posso,
Timocrate, un tal giorno. Erice è doma;
Reggio è distrutta. All’uno e all’altro lido
e qui ben tosto i due guerrieri invitti
riceveran ne’ miei reali amplessi
il primo, sì, ma non il solo onore
e guiderdone a lor virtù dovuto.
né detraggo né invidio. Abbian la lode;
Sol dona a me che con la figlia io possa
lungi trar dalla reggia i brevi giorni
qual fei de’ molti, in tuo servigio e gloria.
Di qual torbido meschi il mio sereno?
Tu partir con Areta? E allor partire
ch’io, giunto al sommo della mia grandezza,
No. Togliti dal cor brama sì ingiusta.
e ti offusca ragion. Misera sorte
di chi pena in balia d’odio e livore!
Vinci anche i tuoi ma quei che chiudi in seno.
Oggetto esser tu puoi d’invidia a tutti.
Nessuno a te. Non ti si tace arcano.
Più che darti non ho. Resta il mio soglio.
lasciane la conquista. Al regio amore
che il dispiacer di un rio civil furore.
Mio re, qual arduo chiedi e sanguinoso
Quant’arduo più, più n’avrai lode e merto.
Tu gl’insulti ne sai, tu l’onte, i mali.
Odio provoca ad odio e torto a torto.
Quanti tradir dopo ingannevol pace!
Ti farò sicurtà dell’altrui fede.
Vuoi l’ire estinte? La cagion ne togli.
Chi tra’ miei cari la fomenta e pasce?
La beltà di Ericlea. Deh! Questa, o sire,
che già fu mia vittoria, or sia mia spoglia.
Meride l’ama o Selinunte?
Come in rivalità dura amistade?
Odio fa in lor ciò che non puote amore
e, s’io nol fossi, essi sarien nimici.
Se a te compiaccio, ecco le altrui querele.
Nessun si può lagnar di un ben perduto,
A me venga Ericlea. Tu qui in disparte
tutti dell’alma in sacrifizio accetta.
(Comincio dall’amor la mia vendetta).
All’onor del tuo cenno, ecco la tua
Di prigioniera e d’infelice il nome
perché darti, Ericlea? Nella mia reggia
quell’onor ti si rese, in cui potessi
i tuoi casi obbliar, non il tuo grado.
È ver; nimico al padre, io gli fei guerra
Gli tolsi il regno; ma destin dell’armi
esser potea ch’io vi perdessi il mio.
e fortuna ne ha colpa. Io le correggo
per quanto è in mio poter. Nulla mi giova.
Priva di libertà, priva d’impero,
tu, qual de’ cibi fa palato infermo,
o non gradisci i doni o non li curi.
Su, tolgasi a’ lamenti ogni pretesto.
Libera sii. Di Tauromina e Nasso,
retaggio avito, a salir vanne il soglio.
Al dono illustre un maggior dono aggiungo,
e Timocrate ei fia. Qual mai più degno
e re e consorte a te dar posso e al regno?
Ospite, cui si appresti in regia stanza
assirio letto, e poi si trovi a canto
belva feroce o minaccevol angue,
lauta mensa imbandita, alfin si vegga
venefica cicuta o rio nappello,
sì non riman da freddo orror sorpreso,
qual io, signor, per cui crudel diviene
la stessa tua beneficenza. A foggia
di schiava eleggerei, pria tronco il crine,
i ceppi al piede e la mannaia al collo,
Troppo ti lasci trasportar da sdegno.
Troppo? Chi fu che il genitor mi uccise?
Chi uccise i miei? Chi empié d’incendi e stragi
le vie di Tauromina? Ah! Mai nol veggo
la piaga al core e alla memoria il danno.
Tutti i tuoi mali l’amor suo ripara.
Solo per lui patria ti rendo e regno.
Fuori di Siracusa, a te richiesi
solo per tormi all’odioso aspetto.
Meglio pensa, Ericlea. Chi re consiglia...
Preghi o comandi un re, del par l’offende
Misera esser poss’io, vile non mai.
La sofferenza mia ti fa ostinata.
Parla al giusto signor la mia costanza;
parlerebbe all’iniquo il mio disprezzo.
Vedi che sol ti prego e ti consiglio,
quando usar forza e comandar potrei.
E se forza tu usassi, allor direi:
scoglio pria cederà che a te l’altera.
Altre fiere ammansai. Sol tu ricusa
le nozze di Ericlea, s’altri le chiede.
Invan le chiederà. Ti do mia fede.
Non ridano, s’io piango, i miei rivali. (In atto di partire)
a tante risse impor silenzio e fine.
(Lo avranno, sì, ma sull’altrui ruine).
cinganvi queste braccia, a cui lo scettro
rassicuraste, e questo sen vi stringa,
cui di gioia colmaste, anime invitte.
le tue schiere, o signor, te lunge ancora
seguono il loro corso e han legge e moto
dalla man che lor diede il primo impulso.
Pur se alcuno in tua gloria aver dee parte,
Selinunte egli fia. Sanlo i rubelli,
da lui sconfitti. Il sa l’iniquo Iceta,
se già terror di Siracusa, or busto
e cadavere informe. Erice ed Ibla
senza lui non cadean. Vinta ogni guerra,
ei ti fe’ amico o tributario o servo
quanto l’onda sicana abbraccia e serra.
l’amor; ma tace il merto. Ogni altro pregio
ne’ suoi, qual nel maggiore il minor lume,
si oscura e perde. Egli sul mare opposto
fugò le bruzie antenne; e della preda
parte ne assorbì l’onda e parte il foco.
per forza d’acque dal trinacrio lido,
salir sue torri stupefatta il vide;
né le valse in suo scampo arte o difesa.
Sbigottito il vicino a lui la destra
Di palma in palma ei tal volò, non corse.
(Sulle labbra di entrambi arte è la lode).
ha in ognuno di voi chi lo pareggia,
senz’aver chi lo vinca. In voi contende
il piacer d’esser vinto ed il timore
che non vi deggio? E pur mi è forza ancora
chiedervi novi lauri. Un fier nimico,
turbator de’ miei sonni, a vincer resta.
E qual? L’Ausonio forse o il Peno infido?
E v’ha chi ardisca provocar tuoi sdegni?
che nella reggia mia, tra’ miei più cari,
in Timocrate e in voi. Deh! Poiché tanto
feste per me, con degno sforzo ancora
Timocrate già il vinse. Al generoso
un atto di virtù non val gran pena.
e non tien bassi affetti alma gentile.
Ubbidisco, o signor. L’ossequio mio
non cerca altra ragion che il tuo comando.
Col labbro dell’amico il mio rispose.
Men dal vostro valor non attendea.
(A qual viltà son io costretto?)
e se fia che alla fede alcun pria manchi,
l’offesa io prenderò sovra me stesso.
Lo dan le braccia e lo rigetta il core). (Si parte)
Chi ’l suo dovere adempie
Non dee vostra virtù lasciarmi ingrato.
Ristringansi, o signor, tutti i miei voti
nel piacer dell’amico. Egli arde amante
per lei divampa Selinunte ancora.
all’altar di amistà consacro e sveno.
Non son di te men generoso e forte.
dono da tua bontà, stringi il bel nodo
e Selinunte ad Ericlea sia sposo.
Qual prego ingiusto? Egli al suo cor fa forza.
Rendi questa giustizia al suo valore
e la cara Ericlea dona al suo amore.
o si cangi il desio. Ciò che l’un chiede
l’altro distrugge. A me, che al par vi onoro,
tolto è l’arbitrio. Il consolarne un solo
e un ben ceduto, e ricusato insieme,
avrei rossor che vostro premio or fosse.
Ve ne attende un maggior. Spegnete intanto
le languide scintille; il bramo e il chieggo;
e può dal cor di generoso amante
sperar ciò che ha l’amico, anche il regnante.
Meride ingiusto, a che rifiuti ancora
dalla man di un amico un ben sì caro?
Quel ben, che mi abbandoni, è pur tuo voto.
Il perder Ericlea ti saria morte.
Cederla a te poss’io senza un sospiro.
Muti e più ardenti ha i suoi sospiri il core.
Credei di amarla primo e amarla solo.
Il tuo amor mi prevenne; e allora il mio
ripresi, il condannai, gli diedi esiglio.
Il feci, il feci anch’io. Ma che? All’altero
sdegni accrebbe il contrasto e il fe’ più fiero.
Tu confessi di amarla. Io te la cedo.
No. Tua rimanga. Amar io posso Areta,
più d’una volta mi son giunti al viso,
a farmi testimon della sua fiamma.
Non ha prezzo Ericlea né tu ami Areta.
Meride, queste gare alfin saranno
e tua perdita e mia. Del nostro amore
sia giudice colei che in noi l’ha desto.
Sì, a lei si vada; ed a comun riposo,
ella sia che tra noi scelga lo sposo.
S’amo più di un bel volto un vero amico,
In quello e in questo il tuo gran nume onoro
e, sia brama o amistà, sei sempre amore.
Te sol cedo a te stesso; e là ti seguo,
Pur confesso il mio fral; talor mi volgo
a mirar ciò che lascio; e allor che il miro,
mi si sveglia tristezza e ne sospiro.
Chete fonti, fresche ombre, aure soavi,
a voi dirò; ma nol ridite al padre,
che il padre è a lui nimico. Al re nol dite,
Non lo sappia Ericlea, ch’ella più altera
di un suo ne andrebbe a me rapito amante.
Ma se avvien mai che qui d’intorno il passo
ditelo pur ma in mormorio sommesso,
ch’altri nol senta; e Selinunte è desso.
Se i tuoi dolci pensieri a turbar viene
non creder già che ardir mi porga e spene
o favor di comando. Io tutte affido
le mie speranze al tuo bel cor che vede
la mia pena, il mio ossequio e la mia fede.
(Lusingarlo degg’io? L’impone il padre;
O pietosa o crudele, almen rispondi.
Risponderò; ma vuoi lusinghe? O chiedi
L’inganno mi dorria più che il disprezzo.
E sincera ti parlo. Uso a tue piaghe
un rimedio crudel, per risanarle.
Mite le irriteria. Sappi, o Nicandro,
che a rendermi infedel non val tuo merto
né altrui possanza; e se piacer vuoi farmi,
per tuo riposo e mio lascia d’amarmi.
Sta in arbitrio del cor romperne i nodi?
E in mio poter sta il disamar chi adoro?
e spaventa il mio amor. Dimmi il rivale.
A te direi ciò che a lui stesso io tacqui?
(Oh! Se il giungo a scoprir). Tal premio avranno?...
Ti par picciolo premio un disinganno?
Se sul labbro di tutte il cor parlasse,
men vi saria di amanti e d’infelici.
Quel de’ traditi è il numero maggiore.
Levane la lusinga e la speranza,
picciol regno e duol breve è quel d’amore.
Taci. Ecco il padre; e s’ei richiede
qual ti parlai, digli amorosa e grata.
ti giuro odio e vendetta; e i furor miei
misero ti farian più che non sei.
Al tuo consiglio, o fido amico, io deggio
Meride non l’avrà né Selinunte.
Mesto è l’amor; ma lieto è l’odio; e posso
più soffrire il mio mal che l’altrui bene.
Ciò che manca al trionfo, avrai dal merto.
E dal reale, aggiungi, alto comando.
A beltà par decoro amar costretta
giustificar la brama; e n’hai l’esempio. (Mostrando Areta)
Dacché n’ebbe il tuo cenno, il gel n’è sciolto
Figlia non ubbidì con più virtude.
Per soverchio piacer stupidi ho i sensi.
dillo, tu il sai, sincerità di core.
Ma dal pallido tuo fosco sembiante
non ben traspare ilarità di amante.
e varcarlo convienmi o naufragarvi.
Che far posso in tuo pro?
quanto ha d’odio col padre, ama la figlia.
Non ascolta ragion. Già ne dispero.
altra sorgente han le ripulse. Ell’ama
non perché trovi in lui merto e valore
ma perché amando lui mi fa dispetto;
e l’ama per furor, non per amore.
Questo a te chieggo appunto.
Ho a cor, più che non pensi, il chiuso arcano.
Fia il saperlo mia pace e mia vendetta.
E se Meride ei fosse o Selinunte?
Qualunque sia, vittima prima ei cada,
Per poi stenderle al ferro.
di Timocrate i voti. Al più alto segno
egli ha spinto il suo orgoglio.
Con insolente ardir tentando un nodo,
il cui solo pensier m’empie d’orrore,
e armando a spaventarmi il regal braccio,
quasi che con la forza amor si esiga.
Questo soffrir poss’io da un cor nimico
Rei forse nel tuo cor son padre e figlia.
degna di miglior padre. Io ti son giusta.
Amo la tua virtù, s’odio il tuo sangue,
e non confondo il reo con l’innocente.
Meride tu non ami o Selinunte?
Chi per due già paventa, un ne confessa.
Ama pur Selinunte. Il tuo bel foco
e all’amica Ericlea mal lo tacesti.
Ma s’io Meride amassi, ah! che diresti?
Pensane ciò che vuoi, quand’io lo taccio.
Eh! Siam ambe, Ericlea, di amor nel laccio.
che si fa? Che si tarda? Il mal presente
è pena del letargo in cui languiste.
maggiore e vicin rischio; e sotto il ferro
di un amante fedel cada l’iniquo.
col bel nome sul labbro. Ah! Fate, o dei,
ch’egli sia mio riposo, io sua mercede.
viene la nostra gloria e il nostro amore.
Giudice tu ne sii. Pieghi il tuo voto,
Se con l’amor vuoi bilanciarne il peso,
arde puro, arde immenso e in pari fiamma.
Maggior foco invan cerchi e maggior luce.
Ma se gloria e virtude a te fia guida,
eccoti in Selinunte il solo oggetto,
degno della tua stima e del tuo affetto.
e sceglie amor gli sposi. Applausi e lauri
fan più illustre l’amante e non più caro.
Ove si tratta di un piacer degli occhi,
e Meride sia tuo. Se nol facessi,
gloria ne avrebbe scorno e pena amore.
Qual d’amar nova foggia è mai cotesta?
Goder, quando si perde il bene amato?
E oggetto del disio farne un rifiuto?
Aman così gli eroi? Così distrugge
la legge di amistà quelle di amore?
Non le strugge amistà, le affina e purga.
per te l’utile fo, per lui l’onesto;
e nell’uno e nell’altro ho il mio piacere.
L’util mio? Non lo vo’ da chi mi sprezza.
Il tuo piacer? Lo nego a chi mi oltraggia.
Ben ti adiri e il rinfacci; in tua vendetta
serviti del mio dono e in accettarlo
diventa, conceduta, ora un gastigo.
un rival ne trionfa. Il re gli applaude;
e se voi non troncate il laccio indegno,
tratta voi mi vedrete all’ara infausta,
che resta a chi dispera ogni salute.
Il prezzo io ne sarò. Principi, è questa
Pronto è il ferro alla man.
In qual sangue le ammorzo?
Senza la morte sua nessun mi speri.
Dite, cotesto è amor? Cotesto è ardire?
Seguir ciò che ragion detta e consiglia.
Sacro nodo di pace a lui ne strinse.
a noi caro e dovuto, il re ne privi?
In arbitrio del re sono i favori;
dalla fede real, non son più suoi.
Tutto all’onor daremo e all’amistade?
Non sono, o dio! non sono
della cara Ericlea stupido a’ mali.
Non le giova un dolor che la compianga;
da noi vuole un amor che la soccorra.
Son teco anch’io. Siamle difesa e scudo.
fra Timocrate e lei? Di’, che faremo?
Ciò che l’amor, ciò che l’onor richiede,
per lei morir ma non tradir la fede.
Coppia illustre d’eroi, per cui più grande
di Siracusa è il regno, al valor vostro
Io con nodo di pace a voi congiunto,
con voi ne godo e a un lieto amore applaudo,
L’insulto non conviene al generoso.
Su qual di voi cadde l’onor del dono?
In lui con gioia onorerò l’amante;
nell’altro poi consolerò l’amico.
È tuo acquisto Ericlea; ma della nostra
Sono i re, benché grandi, uomini anch’essi;
sempre si può ben giudicar gli oggetti.
Meco di onor contenderesti e d’opre?
Il re me lo dovea. Chi non l’ottenne
merito non avea per ottenerlo.
Merito ei non avea?... (In atto di por mano alla spada)
No, Selinunte. (Lo ferma)
Ti sovvenga la fede e l’ire affrena.
Al punitor mio sdegno il vil si è tolto.
Timocrate, tu insulti a chi non t’ode.
Ma Meride ti udì. Tu nol pensasti.
Più che non hai tu orgoglio, esso ha virtude.
D’Erice al vincitor viene in difesa
Non giungono i tuoi scherni a farmi offesa.
Ma rispetta l’amico. (In atto di partire)
A lui rispetto? (Seguendolo)
sotto il mio impero, di volgar soldato
non che di minor duce, empier le parti?
che con vittorie simulate e false
le antiche macchie ricoprir presume?
Ah! Troppo già soffersi. Un vil tu sei. (Dà di mano alla spada e va incalzando Timocrate dentro la scena)
Questo colpo consacra un giusto sdegno
a te, offesa amistà. Mora l’indegno.
Viver potea giorni tranquilli e lieti,
e pace ne partì. Mi alzò sul trono
con l’aura popolar forza ed inganno.
Tu libertà perdesti ed io riposo.
mitigo il danno. A me sospetti e rischi
crescono sempre e mi sta invidia a canto.
Spinto da giusto sdegno, io lo precedo.
non ha termine o fren l’audacia e il fasto.
Se impunito il lasciai, non fu, il confesso,
non fu l’ossequio che mi tenne il braccio.
Meride fu. Mi rammentò la fede.
Corresse l’ire e alla ragion le mise.
né tel prometto. Ei tenor cangi o a sdegno
che un troppo insolentir mal si sopporta.
Vieni, o Meride, o amico. In guerra e in pace
il genio tutelar sei del mio regno. (Abbracciandolo)
Ciò che poc’anzi oprasti,
la tua virtù, la sua insolenza. Il tutto
fia in avvenir porvi compenso e norma.
(Ei ne ignora il destino o se ne infinge).
Principi, nel re vostro io so che amate,
più che l’alta fortuna, il suo buon nome;
e se alcuna vedeste ombra anche lieve,
mi verrebbe in soccorso il vostro amore,
che a verità, dove un re giusto impera,
uscio sta aperto, onde accostarsi al trono.
Di giustizia mi pregio; e n’è la fede
Anche data al vassallo obbliga e stringe
e il violarla è da tiranno ed empio.
Voi, per cui grande e più temuto io regno,
Ericlea mi chiedeste e me ne increbbe.
Promessa altrui, dovea negarla a tutti.
che dirvi ancor, forse men grave. Ad ambo
Ericlea ricusai. La tolsi a un solo.
All’uno e all’altro egual mercede io deggio;
Vi unisco al sangue mio. L’illustre dono
compensi l’onta del primier rifiuto.
Maggior non l’ho. Se nol gradite, il mio
primo fra i re per impotenza ingrato.
Da tua bontà son soprafatto e vinto.
Meride l’alma da stupore oppressa.
fa l’amor tuo, gli si conviene; è giusto.
sospendi i doni tuoi. So qual destino
per me alterni a vicenda or beni, or mali.
Meride, il tuo timor... Ma chi sì audace?...
Non ha né serba modo il mio dolore. (In atto come di entrare a forza)
Areta... (Areta corre a inginocchiarsi a’ piedi del re)
Eccelso re, giustizia imploro.
La devi a te... La devi al pianto... O dio!
Sorgi. Fa’ cor. Frena i singulti. Parla.
Morto è il tuo servo. Il mio buon padre è morto.
il suo sangue sgorgar dal fianco aperto,
da tante guerre, ove per te lo sparse.
Steso sull’erba il vidi. Ah! Quale il vidi!
E il trovai senza vita e senz’averne
Ma al più giusto de’ re parla il mio pianto.
un amico io perdei. Ma l’amor mio
Sol vendetta dimando; e se a me fosse
a me la chiederebbe il mio furore.
Deh! Non lasciar sotto il tuo retto impero,
sugli occhi tuoi, tanto delitto impune.
L’ucciso era il miglior de’ tuoi vassalli,
era il tuo più fedele, era il mio padre.
Vendetta, o re, vendetta.
Invan si asconderà l’empio al mio sdegno;
e s’oggi fia che in mia possanza io l’abbia,
oggi cadrà sotto una scure o d’altra,
qual più vorrai, barbara morte e vile.
O de’ gran re specchio ed esempio, o forte
bacio tua man vendicatrice. Adempi
tua regal fede. Il mio dolor l’accetta.
per te giustizia sia, per me vendetta.
mi è Timocrate tolto? Ah! Generosi,
invan voi mel salvaste. Altrove, altrove
del suo omicida. Il troverò. Supplizi,
mancheranno a giustizia? Ira può farli.
che il mio lungo tacer sia vil timore.
Chi Timocrate uccise e qui sen venne...
dovuta era al mio braccio.
Tu legge all’ire mie ponesti e modo
e libero alle tue lasciasti il freno?
Se l’amor di Ericlea tanto era forte,
io pur te la cedea. Perché un rifiuto
con tanto, ah! tuo periglio e mio tormento?
a sincera amicizia anche un sospetto,
non che un’accusa. Al colpo io fui costretto.
L’amante nol vibrò; lo fe’ l’amico.
A’ mali di Ericlea pietà si dolse;
di Selinunte a’ torti ira si accese.
Se sull’ingiurie tue tacea il mio sdegno,
io teco divenia vile ed indegno.
da reali custodi è già la soglia.
Né il vorrei, se l’avessi. È troppo caro
Vincer non puoi l’inesorabil fato;
ma de’ miei giorni nell’estremo istante
farò che scorga Selinunte e il mondo
in Meride l’amico e non l’amante.
Chi detto avria che, con sì franco aspetto
e caldo ancor dell’altrui strage, osassi
por piede in queste soglie, onde non esce
Timocrate uccidesti. Il tuo delitto
ti manifesta. E fu chi vide il ferro
O rotta fede! O mille colpe in una!
Tutto era poco. Io non sapea l’ucciso
e all’uccisor porgea le braccia e allora
ne facevi in tuo cor giubilo e festa.
Ma poco ne godrai, ch’oggi avrai morte.
Non attender, signor, che in tal destino
tenti discolpa o grazia implori. A morte
per averla a temer; né perdon chieggo,
provocato l’uccisi. Il tuo comando
potea farmi obbliar le andate offese,
non impor sofferenza a’ novi insulti.
Egli volle morire. Al sacro patto
di una pace giurata io non mancai;
in lui, che il profanò, lo vendicai.
ed io veggo ferite; e veggo in esse
il mio sprezzo e il mio danno; e ne avrai morte.
Gran re, che di giustizia il vanto porti
a’ miei non già, di Meride a’ trionfi...
l’ultima offesa i benefici antichi.
Oggi morrà. Diedi mia fede e a questa,
se la sprezza un vassallo, il re non manca.
Tu il vuoi. Giusta è la pena. A te dispiacqui.
né si ritardi. Un sol favore imploro.
Ritornerovvi, anzi che cada il giorno,
e porterò sotto la scure il capo.
Facile è guadagnar l’anime vili.
Che più si cerca? Ostaggio per l’amico
Meride è condannato; e s’ei non riede,
può la gloria in morir ma non la morte.
Di vivere ho timor, non di morire.
a te riman, quanto di spazio al giorno.
Il mio solo spavento è il suo ritorno.
libero uscir di Siracusa. Ei torni
o s’involi al gastigo, ho in che punirlo.
Come morir, se libertà gli doni?
Custodito ei qui sia. Meride parta.
Né giustizia si dolga. O alla tua pena
o vivrai senz’amico e senza onore. (Si parte seguito da Nicandro)
Selinunte, ti lascio; e non mi abuso
di questi, dono tuo, cari momenti.
donami la tua morte e son beato.
se perfido mi brami e scellerato.
Meride, a tuo piacer rimanti o parti.
Egli parte. Tu resti. Io ti compiango.
Di pietà sarò degno, allorch’ei rieda.
No, se Nicandro ei fosse.
Meride è troppo saggio, onde più torni
a quel, cui ti abbandona, ultimo fato.
Ciascun misura altrui col proprio core.
Prevale ad ogni affetto il proprio amore.
Sfortunato Timocrate! Ti è tolto
con che placarti, ombra insepolta ancora.
dove Meride fia? Dove il mio forte
Cerca qui Selinunte. Egli è fra’ ceppi.
Per Meride sto in pena. O dio! Tu taci?
Meride ha libertà, forse in tua traccia;
e prigionier sta Selinunte e in rischio.
Cadrà sotto la scure il non reo capo.
Meride dunque per timor di morte
fugge sua pena? E può soffrir che il ferro
tronchi all’amico l’onorata testa?
La troncherà, quando al cadente sole
chi partì non ritorni. Ei lo promise
ma uscì di Siracusa, invan più atteso.
Misera me! Non piangerà il tuo amore
per Selinunte, o fortunata Areta,
Per Selinunte Areta arde d’amore?
Quando parla, non mente un gran dolore.
Basta così. Consolati. Ericlea
So il mio rivale; e vendicarmi or lice.
del tuo furor mal consigliato. È morto,
Vendicata tu sei. Dura vendetta
In periglio è l’amante. Ella è sciagura.
Era meglio perir, per non perire.
l’ultimo addio. Poi la sua gloria il chiama
dove amor non vorria. Fiero cimento!
né a viver né a morir. Tutto m’è affanno.
e il dover di salvarlo. Irresoluti
voti oppongonsi a voti e brame a brame.
Mi uccide estinto e mi spaventa infame.
Meride è l’uccisor. Meride io voglio.
la vittima ritorni. Ella è fuggita.
per parer vendicata, esser iniqua.
L’ha sol nel suo nimico; e s’egli fosse
senza legge e ragion, saria furore.
Quanto è ingegnoso, allor che teme, amore!
Teme, sì, teme il mio, ch’è amor di figlia,
fiamma d’ira è pretesto ad altra fiamma.
conosco il mio rival. Mal lo tacesti,
nel tuo dolor guardo geloso il vede.
Sospetto è cieco e gelosia travede.
sincerità di core? I patti, i vanti
Il cor non mi rinfaccia alcun delitto.
giovar più che non pensi. In poter mio
Vuoi Meride alla scure? Il darò estinto.
Temi per Selinunte? Il darò salvo.
Spera in Nicandro un amator discreto,
se in lui sprezzasti un amator fedele;
né a chi ingrata mi fu sarò crudele.
ammiro un degno amante; e non potendo,
giustizia almen ti fo, se non piacere.
scusa, se non ti amai. Scusa, se amando
Ah! Lo dicesti alfin. Questo pur ebbi
piacer, che ti ho delusa e mi credesti.
Il tuo arcano io sapea; ma a te lo chiesi,
per più farti arrossir, quand’io il rinfacci,
per più farti doler, quando il punisca.
Vuoi Meride alla scure? Il darò salvo.
Temi per Selinunte? Il darò estinto.
Lo prometto e il farò. Così, o spietata,
piangerai l’odio tuo senza vendetta,
piangerai l’amor tuo senza speranza;
spargerai, disperata e taciturna,
del padre e dell’amante il rogo e l’urna.
Ma non pensar di spaventarmi. Ancora
Meride può tornare. Appiè del trono
giungeranno e avran forza i miei lamenti;
e a te sai che dirò? Perfido, il senti.
Questo, beltà superba, è il tuo costume,
un amor che tu irriti; e tel figuri
Ma talor da la siepe esce anche serpe
Qui di Meride in traccia amor ti guida.
Incontro che del par bramo e pavento!
Ben può arrestarlo una sì cara amante.
La vita dell’amico è a lui più cara.
Mira, Ericlea, chi a te rivolge il passo. (Le mostra Meride che, veduta di lontano Ericlea, si avanza verso di lei)
Consigliando perfidia, io vil sarei.
Mancando a fede, egli sarebbe indegno.
Ciò che nega l’amor, farà lo sdegno. (Entra nella città)
Anzi ch’io rieda ove dover mi attende,
il piacer di vederti. Io n’era in pena
Con sì bel dono i duri fati assolvo;
che il tuo dolor, ma tua virtù lo vinca,
né più a bramar che il tuo riposo; e questo
lo avrai da Selinunte, a cui ti lascio.
del fedele amor mio. Vivi e a lui vivi.
Se pria che del suo fral l’alma si sciolga,
tu mi dai questa fede e stretta io vegga
te, del mio cor dolce metà, con l’altra,
non vi è morte per me. Se mel ricusi,
dal tuo amor attendea. Meride ingiusto,
in breve a morte andrai. Se al tuo dovere
contrastasse il mio pianto e in te volessi
a costo del tuo onor destar pietade,
lo faresti per me? Vattene pure
ove fede ti chiama, ove amistade.
Adempi il tuo dover. Vi applaudo anch’io;
ma in tal destin tu pur rispetta il mio.
E qual altro dover t’impone amore?
forse mi dai piacer? Mi rendi vita?
Viver non deggio altrui, se a te non posso.
Vivendo a Selinunte, a me pur vivi.
Se mi volevi sua, perché al suo braccio
non lasciarne l’onor di meritarmi?
Ti avrei perduto, è ver, d’altro io sarei;
ma la tua morte almen non piangerei.
Potea Meride vil darti all’amico,
Ma chi forte mi fe’? Chi svegliò l’ire?
Non di Ericlea l’amor, non il comando
ma dell’amico i torti. A me quel colpo
non dei ma a Selinunte. Ei, me presente,
vendicava Ericlea. Meride il tenne.
Che vuoi di più? Sin quest’estremo addio
Deh! Renditi a ragion. Renditi a’ prieghi.
Sia il caro amico ad Ericlea consorte.
Tua fé mel giuri; e vo contento a morte.
A te morte? A me nozze? A te feretro?
A me talamo? E il credi? E mel consigli?
Uccidimi, o crudel, senza oltraggiarmi.
Orsù, resta, Ericlea; rimanti, ingrata. (Fiero)
ma d’ira e di dolor Meride lasci
Io nol credea né il meritava.
No. Volano i momenti e per te sono (Più fiero)
ove del nostro amor s’agita il fato.
Mi unirò a Selinunte. Al re prostrata,
pregherò, piangerò. Della mia fede
farò l’ultime prove; e poi quand’altro
ad oprar non rimanga al dover mio... (Fermandosi)
di morte assicurar ma non di vita.
Vanne, Ericlea. Seguir tuoi passi è rischio.
meno ti temerei. Sacra amistade,
i più teneri affetti ecco a te sveno;
e ciò che il nume tuo da me richiede,
tutto core or mi trovi e tutto fede. (Incamminandosi per entrare nella città, vede alzarsi il ponte e chiuderglisi in essa l’entrata)
Al piè chiudersi il varco... Oimè! Fermate.
A me tocca morir. Ma qual dall’alto
stral mi si getta e di quai note impresso
foglio?... Che sarà mai? Sciagure e mali. (Vedesi cadere al piede una freccia lanciata fuor delle mura, alla quale sta legata una lettera che vien raccolta e letta da lui)
«Meride, in Siracusa entrar ti è tolto. (Legge)
Selinunte di ferro e tu di scorno». (Dopo letto sta alquanto sospeso)
Tradimento esecrabile! Non uomo,
demone o furia il concepì. L’amico
Si è trovata la via. Di Selinunte
e Meride il recide. Il re, le genti
che ne diran? Che Selinunte? O dio!
Qui potessi morir!... Morir qui posso;
Nol salvo? No. Già piega il giorno. A morte
al feral palco... Oimè! Febo, il tuo corso
non affrettar. Da me difese in guerra,
tu la scure, o ministro. Ecco, già vengo.
A me quel ferro. A me quel colpo. Io porgo
di Selinunte... Ah! Ch’io vaneggio; e intanto
vola il tempo; il mal preme; il rischio cresce;
e nuoce il disperar. Deh! Che far deggio?
Degno ne son, se col mio duol vaneggio.
Dunque ad infamia per timor di morte
Meride si abbandona? Il sai tu certo?
io poc’anzi il lasciai. Ne’ suoi scordato
teneri affetti, a lui più non sovviene
né la sua gloria né l’altrui periglio.
per farla sua. Non sempre è generoso
In lui dunque amistà fu sempre inganno?
Prova dell’amicizia è la costanza.
Quella che può mancar, non fu mai vera.
Misero Selinunte! Io qui l’attendo.
È degno di pietà ma non di vita.
Manchi a fede, se indugi. Eccone l’ora.
Chi in ostaggio restò, sua volle e fece
l’altrui pena ed error. Giusto è che mora.
Selinunte, già puoi disporti a morte.
dell’amor tuo. Di me si ride offeso,
darei con pace la mortal sentenza.
ma costretto da te che reo ti festi
e debitor dell’altrui fallo e pena.
Tu, prima di morir, di’ se far posso
cosa a te cara, onde il mio cor tu scorga.
Più ancor farei; ma mel divieta e toglie
la regal fede e la tua legge istessa.
Signor, tutti i miei voti io chiudo in questo,
Tal morte a me più val d’ogni altro acquisto.
Affrettala, ten prego. Ogni momento
basta a tormene il pregio. Ah! Se ciò fosse...
Amico, resta ancor, ch’io per te moro.
Come amico dir puoi chi ti abbandona?
se oltraggioso timor mi entrasse in seno.
chiedea la sconsolata. Esso l’adempie;
ma purtroppo verrà. Che più si attende?
Ah! Che la tua virtù chiede supplicio
Di Meride col rischio? A me fa sdegno.
Co’ lamenti di Areta? A te fa torto.
Se in pro del regno tuo nulla fec’io,
morte, o signore, e presta morte imploro.
Morte, a chi si condanna, ognor vien presta.
Mai non giunge che tarda a chi la brama.
Racconsola i suoi preghi. I miei vi aggiungo.
non in pena ma in dono avrai la morte.
Nicandro, io lo condanno e ne ho rimorso.
Nella virtù dell’un non ben castigo
Sovvengati la legge e il giuramento.
E mi sovviene anche di Areta il pianto.
ella verrà la sua vendetta.
le passerai di nova piaga il core;
e qui per lui verserà pianti amore.
Come? Di Selinunte Areta amante?
Più che del padre e di sé stessa. In volto
traggasi il condannato alla sua pena.
Già temea di punirlo. Or vo’ che mora.
(Nel re trovo un rival; ma tal mi giova).
A lui parli la figlia, a lui l’amante. (Si parte)
Chi a te chiese sua morte? A chi la devi?
Meride ha da morir. Fuggì l’iniquo.
Quella vita era mia. Tu mel giurasti.
Rendine a me ragion. Se a me non vuoi,
Rendila alla tua fé. Rendila a’ numi.
Ma il padre è già in obblio. Rotta è la fede,
Infelice son io. Tu ingiusto sei.
Areta, ti trasporta un cieco affetto
e ti obblii nel dolor. Se in Selinunte
io piacer ti facessi, invan dall’urna
vendetta grideria l’ombra del padre.
Ma ver non fia che invendicato io ’l lasci.
Deluso ei fu. Temer dovea. Sé stesso
per l’amico a che offrir? Chi vel costrinse?
Credulo fu o malvagio; ed io punisco
o sua credulità, s’egli è tradito,
o sua malvagità, se tradir volle.
Ben adempio mia fé. Giusto son io;
e regno ed è ragione il voler mio.
Il torto è mio, mia la sciagura e l’onta.
È ver. Giusto tu sei. Fede mi serbi.
Punito è l’uccisor. Tutto si compie
di Selinunte al fato. Ah! Da cotesta,
che tu fede ora appelli ed io fierezza,
ti assolvo. Io la rinunzio; io la detesto.
Meride torni ancor. Del suo destino
ti lascio in libertà. Chi all’omicida
già perdonò, può perdonargli ancora.
Ho coraggio, ho virtù cui chieder posso,
senza doverla a te, la mia vendetta.
Da me altro sangue il morto padre aspetta.
che il vicino a morir. Ma tu il condanni.
Chieder grazia e oltraggiar provoca a sdegno;
né si ottiene pietà con tanto orgoglio.
O dio! Scusa, mio re, scusa i trasporti
In me stessa ritorno. Umil ti prego.
Deh! Ritratta o ritarda il colpo atroce.
Taci, che più m’irrita ora il tuo pianto.
E dolore e furor mal ti consiglia,
che in lui veggo l’amante e non la figlia!
Questo solo mancava al mio tormento,
Oimè! Forse il sarò. Sperato avrei
quella pietà che da un rival non spero.
dacché vostro favor portommi al trono,
fu del secol perverso il civil sangue,
e dolente e costretto. Astrea, che il volle,
mai non alzò con una man la spada,
se pria con l’altra non pesò il delitto.
Selinunte or condanno; e condannato,
Intendo. Ei dee morir. Sulla sua pena
l’arbitrio di un momento anche mi è tolto.
Guardie, traggasi tosto al suo destino.
(E tosto, o cor, dirai: «Son vendicato».
Inganno non fu mai più fortunato). (Dionisio va a sedere al suo posto e le sue guardie occupano le logge all’intorno)
nodo soave, inestimabil bene,
Tu de’ respiri miei sino all’estremo
reggi il core. Sostienlo; e s’entra in lui
all’amico fedel dubbio oltraggioso,
dell’innocenza sua rendil sicuro,
ch’ei ben puote indugiar, perché tradito;
non lasciarmi morir, perché spergiuro.
Né spergiuro ei ti obblia. Ben li sei giusto.
Parlo al tuo amore, o generoso amico.
eccovi il capo mio. Ciò che a me il trasse
E tua sarò, quando al crudel tuo fato
sopravivere io possa un sol momento.
Perché non ho più vite? Ah! Ne ho una sola
Non disperarti. Invan l’attendi. Sire,
di tua bontà qui si fa scherno ancora.
Ma tardo; e Selinunte mora.
No no. Chi più di me degno è di morte?
Fu Timocrate ucciso? Io diedi il cenno.
Selinunte è qui ostaggio? Ho core anch’io
rea per soffrirla o generosa io sono.
Sì mal ti si ubbidisce? Il tempo, il luogo
questo è del mio trionfo. Ov’è ’l ministro?
Chiuder meglio non posso i giorni miei.
Se più tardo giugnessi, io quel sarei.
Io sono (Areta sopravviene)
Meride, sì; né in queste vili spoglie
per viver mi celai ma per morire.
Grazie agli dii, deluso è il tradimento.
Illesa è la mia fama e tu sei salvo.
Ecco, o re, la mia testa. Eccola, Areta.
Crudel! Salvo son io, quando mi uccidi?
Perché non indugiar anco un momento?
Per sempre ei mi rendea vile ed infame.
Va’. Lasciami morir. Ten prego ancora.
Di viltà vuoi tentarmi? Ah! Sii più giusto.
Ciò che niega amistà, ragion mi dia.
Qual ragione aver puoi sulla mia morte?
Gran re che di giustizia ognor ti pregi,
per me ancor giusto sii. Spirò col giorno
di Meride il diritto. Ei venne tardo;
un delitto non mio nel breve indugio.
Odimi, o re. Molto di spazio al giorno
l’ingresso in Siracusa. Esso mi è chiuso
Del dolor fo virtù. Questi mi vesto
che sudi all’opre in giornalier lavoro,
entro. Inganno i custodi. A tempo giungo
di salvar la mia fede. Or non esulti
perfidia altrui. La tua giustizia regni.
E tu omai datti pace; e se vuoi morte,
va’ fra l’armi a cercarla, ov’ella rechi
Ma no. Vivi al tuo re. Vivi al tuo amore;
Selinunte, Ericlea, cara a voi sia.
(Del mio bene mi priva e vita e morte).
(Usai l’ingegno e mi tradì la sorte).
(Bassi affetti dell’alma, omai tacete.
Amici, egual destino oggi vi attende.
Dividervi non posso. Ambo morreste,
Orsù, dissipi omai gioia i timori.
L’un dono all’altro. A me vivete e a voi;
nella vostra amistà, sul vostro labbro
più che quello di re, mi sarà caro.
un cor sincero, un’immutabil fede.
Deh! Qual bontà? Signor, un sì grand’atto,
non che noi, ti fa amici uomini e dei.
Sire, in tanta virtù giusto è ch’io t’ami;
ma a misura del merto invan lo speri.
(Gioie dell’alma mia, temo ingannarmi). (Dionisio scende dal suo posto)
(Non so s’io goder deggia o pur lagnarmi).
(La vergogna mi opprime e il duol mi accora).
la mia felicità. Te a Selinunte
Meride unisca e lieto amor vi applauda.
No, che amore in voi strinse un più bel nodo;
ed ingiusto io sarei, se lo sciogliessi.
magnanima contesa. In dare il voto,
Meride, a favor tuo, tre cori afflitti
mi accuserieno di tiranno ed empio.
E a te... (Vo’ nel mio seno, amor, punirti,
che quasi di virtù spogliasti l’alma).
E a te, Areta gentil, dia Selinunte
qualche compenso nel tuo rio dolore.
Ei sia tuo sposo. (Invan ne fremi, o core!)
Gradisco il dono; e tu se m’ami, Areta,
Dal tempo e dal tuo amore avrò il conforto;
ma in sen di figlia or troppo acerbo è il duolo.
(Ed io fra tanti a sospirar son solo).
il cui grido ancor vive, ancor si onora,
di balsamo immortal spargere i nomi
e di etade in età torgli all’obblio.
Tale il tuo passerà, sublime augusta,
a’ secoli lontani; e un sì bel giorno,
in cui ti diede il cielo al secol nostro,
lo farà suo. «Dea» le dirà Virtude
dalle ingiurie degli anni i nomi illustri,
scrivi: «Natal di Elisa». A farla grande
che chi vede Virtù vede anche Elisa.
e qualvolta presume arte ed ingegno
darne un ritratto somigliante al vero,
assai di che stupir ben s’offre al guardo
ma più sempre a cercar resta al pensiero».