Metrica: interrogazione
585 endecasillabi (recitativo) in Venceslao Verona, Merli, 1708 
del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e ’l contumace Adrasto,
ne le aperte sue piaghe il suo delitto.
degne de la tua fama e son maggiori
ma di tanta tua gloria è nostro il frutto.
                                        (Fremo di sdegno).
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor nieghi gli applausi?
                                                         Ernando
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
                           (Anzi rival mi sei).
diedi al valor di Ernando. I suoi trionfi
chiedono un maggior prezzo. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
                                             Il tuo rispetto
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor. Sol per te chiedo. (Ad Alessandro)
                                                               O amico. (Ad Ernando)
ma non senza rossor (non senza pena);
più zelo al cor, più stimolo a la fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
siegui, Alessandro, le vestigia e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuorché ’l suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te di un padre e me di un figlio.
Del tuo poter, de la mia vita, o sire,
usa a tuo grado, il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude;
mi sia rival, ch’e’ mi contenda e usurpi
                        Vedrem ciò che far possa
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma di un re lo sdegno
e che, prima che a te, fui padre al regno.
                                     O mio fedel Gismondo.
                  Colei che amasti alor che fummo
                                   O dei! Lucinda?
                                                                   Io stesso
mentito il sesso e co’ suoi fidi a canto.
de l’amor mio, costei sen viene e seco
rinfaccierà de l’onor suo le macchie,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e goduta beltà più non mi piace.
                                Osserverò s’è dessa.
(Purtroppo, amico, è dessa). (In disparte)
                                                      In quale oggetto
                                (Finger mi giovi).
                                                                   (O numi!)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior cielo a l’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
                                                  A te, che altrove
giammai non vidi, ove fui noto e quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin di amarti).
                           Di segretario in grado
                                (O com’è scaltro!)
                                                                   Io seco
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ah giorno fatal) che in voi si accese
alor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, segnasti; e me presente,
Ti dovria sovvenir ch’entro a sei lune
compì l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon de le sue pene,
                                        Non mi sovviene.
Non ti sovviene? Ingrato...
                                                  A cui favelli?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
L’arte di favellar t’insegna amore.
                            (O son tradita o finge).
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor? Gismondo,
tu pur non mi ravvisi o te ne infingi?
ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
Mi ha tradita il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Brutto principio, o mia signora, andiamo.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto;
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
                            Invito Ernando.
                                                           (O vista!)
la commun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu ’l sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il fuoco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
mi esentò da la reggia. Io vinsi e ’l prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro alora
fremé, si oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, tolsi congedo e tacqui.
                                      E poi?
                                                     Riparo
Questo mio così tosto esser felice.
                                 Prendi, mia vita,
sposa mi sei. Ne l’atto sacro invoco
Ti cedo e sposa ecco ti abbraccio.
                                                             Parti,
pria che ’l german qui ti sorprenda.
                                                                  Addio.
a darti il primo maritale amplesso.
(Io fui del mio morir fabbro a me stesso).
Pace al regno recasti e gioie a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
                               Felici amanti, il mio
importuno venir tosto non privi
del piacer di una vista i vostri lumi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Ne l’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di dar mano alla spada)
                                           E a troppo ancora
                             Addio, signor. Per poco
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
                Mia cara.
                                    Anche per te sia questo
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è a l’onor mio.
                                                         Perché?
Erenice è vassalla e tu se’ re.
                                      Il mio divieto
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
                                                              Prence,
                                        Lo sa ’l tuo core.
mentita fede, lusinghieri bacci,
Lucinda amata e poi tradita...
                                                       Eh taci.
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovea miglior mercede.
a’ trionfi di Ernando. Il dì venturo
de l’aver vinto è tuo retaggio. Vinse
con l’armi tue, col tuo gran nome Ernando,
tu reggesti la mano, io strinsi il brando. (Gli spettatori vanno tutti a’ loro posti a sedere)
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle spiagge e ’l fertil suol, Lucinda,
non v’è cui nota, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
sospenderne il contento a’ voti miei,
spettatore ti assidi e andran più gonfi
de l’onor di tua vista i miei trionfi. (Aprendosi il prospetto si vede nell’alto la Pace in macchina e nel basso montuosa orrida, dal cui seno esce la Discordia sopra spaventoso dragone)
Voi mostri miei, voi lo agitate. Il vostro
e del vostro furor s’empia la terra.
Tanto, o Discordia, ardisci? E ancor resisti?
a le torbide rive onde sortisti. (Resta dalla Pace fulminata la Discordia assieme col suo dragone e torna a chiudersi il monte che tutti assieme col dragone li seppellisce. Finiti gli spettacoli partono Alessandro, Ernando e Gismondo)
Parte il rival, l’orme ne sieguo.
                                                         Arresta,
dir mi riman, te vo’ presente.
                                                       (O inciampo!)
Costui, signor, mente l’uffizio e ’l grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra essere di credenza. Il re l’apre e leggendola guarda minaccioso il figliuolo)
(Nieghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi!) Ah figlio, figlio! Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi;
leggi pure a gran voce; e del tuo errore
dia principio a la pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
Or ora il dissi. Un mentitore è questi,
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
                                                       (O dei!)
E perché alcun de la mendace accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in molti pezzi la carta e poi la calpesta)
mentitor me dicesti. In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon de l’armi io non ricuso.
                                           Ti aspetto
                              Ed io la sfida accetto.
degli empi mostri il folle ardire hai scorto.
saggio se apprendi!) è de’ superbi il fine.
e d’esserti fedel serbo il costume.
che, se cangio l’altar, non cangio il nume.
Non molto andrà che di Erenice in seno
strinsi, affrettai; cor ebbi a farlo e ’l lodo.
il mio cor nel tuo seno. Io vel lasciai,
perché quel di Alessandro in lui trovai.
Ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice; altro sospiro.
Ancor ten priego. Aprimi il cor, favella.
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spinge e mi trasporta?
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuorché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
Senza desio, senza speranza t’amo...
ma col cor di Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo, col mio ti adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa. Io solo
se ’l nieghi a le mie voci, al tuo sembiante.
Vanne, ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quel lascivo amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo regno e al suo amor moglie e reina.
Come? Tu Casimiro, erede e prence
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa, a quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea ne l’alma.
ancora in te quell’amator lascivo,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni gran colpa.
Macchia di onor non mai si terge e spesso
                                Io, Casimiro?
                                                           E meco
Non troverai Lucinda in Erenice.
                               In traccia appunto, o prence,
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come? Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
                                    Ne la ventura notte
la mia sciagura? E certo il sai?
                                                         Poc’anzi
da Ismene, a me germana e di Erenice
la fida amica, il tutto intesi.
                                                    Ah troppo,
È tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
                    No, mio signor...
                                                    Gismondo,
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Io mi credea che di Erenice al nodo
quello di Casimiro; e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco.
più feroce ei divien, non meno amante.
siam vicini a le gioie. In questa notte,
alor che l’ombre il pigro Arturo avanza,
di finir le mie pene ho la speranza.
il suo destin de’ cimentar; quel core
che ti serve fedel diffendi, o amore.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette i’ fei cader, se a voi
gl’innocenti miei prieghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
                                                  Sono
a chi cerca vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è ’l sole; e meglio fora
sospender l’ire al dì venturo e l’armi.
di giorno ancor che ne avrà fin la pugna.
l’ora assegnasti e ’l campo. Ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’ardire in alma impura. (Venceslao va a sedere nell’alto dello steccato)
qual ti deggia chiamar, nemico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Sposa non l’abbracciasti? E dir tu ’l puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile. Aggiugni a la tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
                      E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà ’l minor, l’aver Lucinda uccisa
doppo tolto l’onor, torle la vita.
                         Che sento? Ella è Lucinda? (Il re si leva dal suo posto e si affretta a scender nello steccato)
Padre, già ’l dissi. Un mentitore è desso.
Mentì già ’l grado ed or mentisce il sesso.
Non se’ Lucinda, no. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene e a lui m’involo).
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte
quando dovrei sino a me stessa ignota,
seppellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
ne l’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
Men da la tua virtù, giusto regnante,
Reina, non temer; il ciel talora
mostra torbido il volto e poi s’indora.
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non di obblio.
vo ad abbracciar il mio bel sol; ma oh dio!
di gioia e di dolor. Che fia, mio core?
confusi affetti miei, io non v’intendo.
Gismondo, ov’è ’l mio figlio?
                                                      Io qui l’attendo.
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
                                                          Al cenno
(Temo anch’io l’ire di un amor feroce).
e l’affanno e ’l timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
qual acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa ne le vene il sangue?
prova quest’alma; e in che vi offesi, o dei? (Appoggiandosi al tavolino si cuopre gli occhi con la mano. Entra Casimiro con istile insanguinato)
torbide larve... Figlio...
                                           Padre... (O stelle).
                                 (Ahi! Che dirò?)
                                                                  Rispondi.
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, o figlio, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi ah! di quel sangue.
                                                                   Questo...
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo (il dirò) del mio rivale è sangue;
Perfido, Ernando è morto?
                                                  E ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
                                                     A’ tuoi cenni (Venceslao gli va incontro e lo abbraccia)
                         Ernando vive? Ernando amico.
(Vive il rival? Voi m’ingannate, o lumi?
                                 Io son confuso.
                                                              Ah duce,
io moria per dolor de la tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai? Cieli perversi!)
fra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi,
chiedo la tua. Lagrime chiedo e sangue.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Qual io sia, ben ti è noto. (Si leva)
                                                A’ tuo’ grand’avi
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
coglier dovea; l’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, su le mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Aimè!... Perdona (Piange)
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
S’agita al tribunal de la vendetta
                                      Quando tu ’l sappia,
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’inesorabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice, il cor tel dica,
tel dica il guardo; hai l’uccisor presente. (Additando Casimiro che sta confuso)
de la strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
(Già cedo al nuovo affanno). (Si cuopre gli occhi col fazzoleto)
                                                      (O destra! O ferro!)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a vuotar ch’hai ne le vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
                                Il ciel volesse, o sire,
come n’è ’l cor, fosse innocente il braccio.
Non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e ’l misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più attroci.
(Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?)
                              Sire, i tuo’ cenni attendo.
Custodirai ne la vicina torre
                                    Eseguirò fedele.
Tu colà attendi il tuo destino.
                                                      Offeso
già sento in me la sua fierezza.
                                                         Parti.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvare il figlio.
Se ’l danna il re, non può salvarlo il padre.
                                                     Io nol condanno.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
                        Ma reo.
                                         Natura offendi,
                               E se nol vibro, il cielo.
Morirà Casimiro. (Lucinda sopraggiunge)
                                   (O dio! Purtroppo
Tu va’ mio nunzio a lui, digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re. Di Casimiro il capo
con l’amor mio da le tue leggi esento;
Tal lo dichiaro; e come re né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
Rispetta il grado e ’l tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
Tal lo condanno. Il grado, a cui lo innalzi,
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Muore il tuo sposo e ’l tuo rossor pur vive,
questa, o regnante, questa è la tua fede?
or mi sovvien; che ella si adempia è giusto.
Ma la giustizia offesa? E la mia fede?
                                               (O dei! Che pensa?)
                                 (Spenta è per me pietade?)
A l’onor tuo sodisferassi. Ernando.
                              Io l’ubbidia con pena.
al colpevole figlio; e fa’ che sciolto
sia là condotto ove la gioia ha in uso
di festeggiar le regie nozze.
                                                   Ah, sire,
che nunzia io sia del lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, onde a te s’apra
                                  Eh non temer, regina.
Sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel fregio. Il cor ti manca
di Casimiro. Io vel porrò. Lo attendi
il tuo pallido orror sarà più grato.
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non di amore.
Quanto mi piace l’odio tuo!
                                                   Lo irrita
E pur ritorni a ragionar di amore.
né la tua fé né l’amistà di Ernando
                                 E s’egli è tal, l’accetto.
                              Andiamo. Io più di un seno
ti additerò dove infierire.
                                                Andiamo.
fia ch’Erenice a l’amor tuo dà fede.
spirti di Casimiro? Io di re figlio,
io tra’ marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Vuole il padre ch’io mora, ahi! Che farò?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah sì! Per me cadde il fratel. Ma cadde
Volea morto il rival, ne ha colpa amore.
Lucinda a me? Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi)
nunzia de la mia morte e spettatrice.
di averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
                        (Caro dolor!) Custodi,
                               Che cangiamento è questo?
                              Da te che offesi.
                                                             Ingrato.
chiedo la pena mia, non il perdono.
non chiedo a te che l’amor tuo. Del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
Prenci, non più dimore. Il re vi attende.
l’alto destin ne intenderai.
                                                  Già scordo
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon. Temer non dei.
Godrà infine Lucinda, in riso il pianto
apparati di nozze e non di morte.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede, impegno
ne serve a l’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
                                          Strane vicende,
vi figura il pensiero e non v’intende.
                                   E qui ti attende il padre.
son padre ancora. Alor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuorché un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morire...
                                                      Eh lascia
Pensa or solo a goder. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
                                        Or questa gemma (Dà un anello a Casimiro che poi con esso sposa Lucinda)
confermi a lei la marital tua fede.
                       Mio ben.
                                          Mio dolce amore.
lasciar si denno in libertà.
                                                 Due volte
a l’onor tuo si è sodisfatto?
                                                  Appieno.
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
                            Addio. Null’altro, o sposi,
qui far mi resta, orché la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai? Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai? Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi se’ più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
che far? Che dir poss’io? Veggo i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango. O sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardire, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno;
ch’esser può mio delitto e tuo periglio;
il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi t’uccide.
Nieghi il nome di sposo a chi t’adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante;
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra, a l’empio
carnefice fa’ core e ’l colpo affretta.
dal ferro uccisa o dal dolor. Tu piangi?
Tu impallidisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Che pietà è questa? Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
e di sposo miglior. Vanne, cor mio,
che il tuo dolor soffrir non posso.
                                                             Addio.
Correte pur lagrime amare a fiumi,
più non la rivedrò? Barbare stelle!
Ma se più la rimiro, andrò men forte
con fasto del dolor in grembo a morte.
da quel che ti sperai! Giorno fatale!
oggi moro ne’ figli. Itene e i lieti
apparati di amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
                 Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Ne le tue mani è ’l mio destin.
                                                        Mio figlio,
la tua pietà sono di vita indegno.
                        Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto?
E del colpo l’error fu più delitto.
                              L’ho ma le taccio, o sire.
Se discolpe cercassi, io sarei ’ngiusto.
Sarò più reo, perché tu sii più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
                                   Ove, signore?
                                                              A morte.
non reo ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i dolori;
e insegnami costanza alor che muori.
Importuno dover, quanto mi costi!
                 Erenice, ad affrettar se vieni
risparmia i voti. A te de la vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto e ti ridono il figlio.
No, con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
tu giugni, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
                       E che?
                                      Del prencipe il perdono.
                N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi io non ti deggio.
Principe, al tuo destin scampo non veggio.
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
di acciar la destra e di costanza il core.
                                      O dei!
                                                    Che avvenne?
                                                                                Il prence...
già finii di esser padre.
                                            Ah se riparo
la corona perdesti e non il figlio.
                                         E vivo il vuole
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
ognun grida, ognun freme; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisferò, sodisferò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
non per viltà ma perdonai per gloria.
Duci, soldati, popoli, Lucinda, (Con spada alla mano)
qual zelo v’arma? Qual furor vi muove?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un german con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa un padre?
traetemi al supplicio; e quando ancora
sì, questo acciar trafiggerammi; in pena
io ’l carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio sol dolore, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse;
di me disponi. In me le leggi adempi.
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro de le leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler ch’io regni. (Venceslao si cava la corona di capo in atto di porla su quello del figlio)
far cader la tua testa o coronarla.
Mora il figlio e tu regna.
                                              Il re tu sei.
il popolo ti acclama, io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano. (Venceslao corona il figliuolo al suono di timpani e trombe)
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, nuovo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
                                                        Ernando,
non eredito re gli odi privati.
Ti abbraccio, amico. E tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
                                                   O sorte!
ancor l’ombra amorosa. Almen mi lascia
pianger l’estinto, anziché il vivo abbracci.
ne l’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e ’l regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubbilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco; oggi più degno
principio e nuova vita e nuovo regno. (Casimiro presa Lucinda per mano ascende sul trono. Seggono intorno a lui Venceslao e gli altri al suono di allegra sinfonia)

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