Metrica: interrogazione
448 settenari (recitativo) in Merope Venezia, Rossetti, 1711 
que’ verdi rami? E al cielo
Garzon che il quarto lustro
da che ucciso fu ’l nostro
de l’afflitta Messenia.
L’esser lungi in Etolia,
non si chiamò l’erede?
                          Divise
Né si pensò che un giorno
                                Distrutti
                  Già s’apre il tempio. (S’apre la gran porta del tempio)
Stanco, popoli, è ’l cielo
Che più? Placato il nume,
Udiste? Or chi ne l’alma
piacer di un premio illustre.
manca e virtude, io, sire,
Ver noi, se non m’inganno,
che il dì prefisso è giunto
Custodite il re vostro. (Alle guardie)
Come, o dio! Qui non giunse
l’infausto avviso? E come
                              Intanto
lessi ne’ tuoi begli occhi,
Non v’è re, non v’è nume
Dillo amor, dillo orgoglio.
T’odio quant’odiar puossi
In che, mi chiedi? Il dica
T’intendo pur, t’intendo.
Per me ancora v’è un Giove.
Ed al tuo Giove in faccia,
Lasciatemi, o custodi, (Le guardie partono)
                         La voce (Esce Anassandro dal gabinetto)
ch’io ti chiami a goderne.
Eccomi. Vuoi ch’io torni
Mio re, non più. Si serva
de l’oppressa innocenza.
Ciò ch’esporrò, regina, (Trattenendo Merope)
Or d’Etolia a noi vieni?
                           Appunto.
                 «Di Messene
mie spoglie e mio retaggio.
Spoglie del figlio ucciso,
                                  Il grido
                                 E come
Di’ che tu l’uccidesti.
Io, regina, io l’uccisi?
L’odio, l’amore, il sangue,
Troppo sinistro ho ’l fato.
ma da’ miei pronti arcieri
Qual colpa han di tua pena
Or di’, chi tal fierezza
              Perché ammutir?
è il più sano consiglio. (Parte)
                              Che fia?
Mio ne fu ’l cenno; e questo,
Tal sembra. (Piano ad Epitide)
                         Opra è de’ numi
No no, mi spoglio anch’io
v’è ’l reo, v’è l’innocente.
del mio re, de’ miei figli,
ch’io più temea. Spietato
                    Ferma e prima
                                   Io diedi
sordo a’ tuoi prieghi. Io servo
Tu l’ora, il letto, il seno
segnasti, in cui le piaghe...
Non più. Già sei convinta,
Che vidi? Egli è pur desso).
Soli ora siamo; e posso (Polifonte fa cenno alle guardie di Anassandro che si ritirino)
più volte il vidi e impresso
No, non m’inganno. È desso.
Ho spirto, ho sangue, ho vita
da offrirti ancor. Per altri
                             Sol questa
Arcieri, olà, a quel tronco (Si avanzano gli arcieri)
la sua stessa catena. (Vien legato all’albero)
l’empio sia tosto. Intenda
Qui muor l’empio e non dassi
Duolmi che ancor non l’abbia
«Merope». A me il tiranno?
Gran conforto a’ tuoi mali.
                                   E appieno
L’odo? Non moro? E taccio?
Quel figlio che tu piangi...
                  Più tal non sono
                              Ei vive
sono l’aure ch’e’ spira.
Questo pianto ch’io verso...
                Se più resisti,
Ah! Va’. Corri. Sospendi...
                   La mia morte
Empio, va’ pur. Non sempre
Che turba è quella? Intendo.
ferma. Quegli è mio figlio.
                     Inumano!
Ch’ascolto! Aimè! Ne l’alma
Orsù, già t’apro io stesso
                      Or non è tempo. (A Merope)
Questi de le tue colpe (Accennando Anassandro)
                  O Polifonte,
Gli uccisi, è ver. Pietade.

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