que’ verdi rami? E al cielo
Garzon che il quarto lustro
da che ucciso fu ’l nostro
Né si pensò che un giorno
Già s’apre il tempio. (S’apre la gran porta del tempio)
Stanco, popoli, è ’l cielo
la vampa i segni e fausti
Che più? Placato il nume,
piacer di un premio illustre.
manca e virtude, io, sire,
cinghial di mille stragi.
Giovane, o sia che troppo
nulla tu a lei. Straniero
Ver noi, se non m’inganno,
che il dì prefisso è giunto
Custodite il re vostro. (Alle guardie)
Come, o dio! Qui non giunse
l’infausto avviso? E come
Ecco pur giunto il giorno
Con qual senso, o regina,
lessi ne’ tuoi begli occhi,
il pensarti altrui sposa;
Dillo amor, dillo orgoglio.
T’odio quant’odiar puossi
In che, mi chiedi? Il dica
empio, tel dica il sangue
T’intendo pur, t’intendo.
Per me ancora v’è un Giove.
Ed al tuo Giove in faccia,
Lasciatemi, o custodi, (Le guardie partono)
Merope ancor si estingua.
La voce (Esce Anassandro dal gabinetto)
del mio signor pur giunge
ch’io ti chiami a goderne.
anche in braccio a Tideo,
Mio re, non più. Si serva
non mi esenti il diadema.
Concedi, o donna eccelsa,
(ah! quasi dissi o madre)
Ciò ch’esporrò, regina, (Trattenendo Merope)
la via tra Delfo e Dauli,
mie spoglie e mio retaggio.
Spoglie del figlio ucciso,
Tu, infame. Erano spoglie
festeggi i tuoi sponsali.
L’odio, l’amore, il sangue,
Troppo sinistro ho ’l fato.
ma da’ miei pronti arcieri
Qual colpa han di tua pena
è il più sano consiglio. (Parte)
Mio ne fu ’l cenno; e questo,
Tal sembra. (Piano ad Epitide)
No no, mi spoglio anch’io
v’è ’l reo, v’è l’innocente.
del mio re, de’ miei figli,
ch’io più temea. Spietato
sordo a’ tuoi prieghi. Io servo
Tu l’ora, il letto, il seno
segnasti, in cui le piaghe...
Non più. Già sei convinta,
è impostor chi mi accusa;
Che vidi? Egli è pur desso).
Soli ora siamo; e posso (Polifonte fa cenno alle guardie di Anassandro che si ritirino)
più volte il vidi e impresso
No, non m’inganno. È desso.
stanza si chiuda l’empio.
e la prole e ’l consorte,
Il più resta, o mio fido.
Ho spirto, ho sangue, ho vita
da offrirti ancor. Per altri
Arcieri, olà, a quel tronco (Si avanzano gli arcieri)
la sua stessa catena. (Vien legato all’albero)
Bersaglio a’ vostri colpi
l’empio sia tosto. Intenda
Qui muor l’empio e non dassi
Duolmi che ancor non l’abbia
Tu piangi? Ah! Se ti resta
al tuo merto, al mio core
«Merope». A me il tiranno?
Gran conforto a’ tuoi mali.
L’odo? Non moro? E taccio?
Quel figlio che tu piangi...
venir qui Argia. Sospendo
Intendo. Un mostro ucciso
No no, di’ che in me vedi
Quello non sei. Già certa
Questo pianto ch’io verso...
Parti. Ancor tel comando.
Ah! Va’. Corri. Sospendi...
Che sento? O dei! Cleone,
su, svena ancor la madre.
qual la merti, una scure.
Empio, va’ pur. Non sempre
Anassandro. Ah spergiuro!
Che turba è quella? Intendo.
ferma. Quegli è mio figlio.
mio dolce amor, pur salvo
e ti trovo e ti abbraccio.
ti toglie al regio sdegno.
Da ferro? Io porgo il seno.
Ch’ascolto! Aimè! Ne l’alma
Orsù, già t’apro io stesso
sia il mio cenno ubbidito.
Or non è tempo. (A Merope)
Questi de le tue colpe (Accennando Anassandro)
Gli uccisi, è ver. Pietade.
già corro ad abbracciarti,