l’aria, la terra e ’l mare
in questa parte e in quella
brillan nel prato i fiori
Al cielo, al cielo appunto
vostra è la gloria; e sono
bella pietà, ti applaudo.
nacque alor che di augusto
pugnò il suo genio; e in voi
ma ’l tuo re da te intenda
Del destino de’ vinti (Verso Zenobia)
Non avrai sempre a fianco
Ma dimmi. A la grand’alma
(Qual richiesta? Qual voto?)
de l’oggetto che s’ama...
se non l’ha, con più merto.
A chi ’l sottrasse a morte
Pugnando, in grave rischio
Avido corra il guardo (Volendolo aprire è fermato da Zenobia)
Questa è Zenobia. Intorno
ma un odio che sia giusto,
tu che, a’ miei mali inteso,
Se Roma a’ suoi guerrieri (Volgendosi con ira)
fa’ troncar queste chiome,
Su l’orme del mio sdegno.
Con lui, sì, che al suo fianco
sprezzò rischi e disaggi.
lascia ch’io gusti ancora
pendon da’ tuoi consigli?
Piacemi (A Decio) A questo cielo (A Farnace)
non vuoi tu ch’io m’involi?
De’ miei voti è ’l più dolce.
Ma ch’io resti, (A Decio) ch’io parta (A Farnace)
La tua fé ne ha l’invito.
Che far posso? A un Farnace,
l’odio è un pretesto; e tanto
ella spinge a’ tuoi danni
tu ne osserva e le trame.
Sembianze del mio bene, (Sta mirando il ritratto e Zenobia in disparte lo osserva)
(Qui ’l mio signor. Mentr’egli
(Né bellezza in voi scuopro
L’anima a lui sen vola. (Accostandosi)
tutti, o mia principessa,
T’amo, se vuoi ch’io ’l dica;
Non più, mia cara fiamma.
Non più, mio dolce strale.
Perciò di Aspasia indegno.
Parlami con quel ferro. (Va verso Decio)
Ma qual vendetta attendi?
Io lo dirò. Con l’armi...
Ragion vuol ch’egli onori
Negletta e prigioniera...
Bella è Aspasia ma fiera.
Più non giova e non lice.
non arde il tuo bel core?
Ah! Se non parli, io moro.
Destin... Ma che favelli?
Qualche insidia si trama.
Vieni e la caccia onora. (Guardando d’intorno)
Deh! Frena l’odio acerbo.
(Non m’ingannai. Lo vidi).
Tu cauto la diffendi. (A Decio)
(Che più tarda Farnace?) (Guardando)
Invano. A voi miei fidi. (Fa il cenno a’ romani che escono dalla parte della collina. I primi si pongono in fuga e Zenobia si avventa addosso a Farnace col dardo)
Pria la vita che l’armi. (In atto di diffesa)
Ne ho tanto ancor che basta
Si perdoni a Farnace. (A Odenato)
Siam soli. È tempo, o cara,
No, la doglia e ’l piacere
stringerei sol quel forte
Sì, a’ miei prieghi, al mio zelo
quel cieco amor che il mosse;
Ten priego ancor. Per quanto
La fede accetto e al merto
Mio Decio (E che? Poss’io
Parto, sì, ma per sempre.
l’amor di Decio; e Aspasia
Molto, è vero, io ti deggio;
Di oprar ciò che tu oprasti
Ma il vassallo ha per legge
Taci. (A Decio) Anche in Decio (A Farnace)
per quest’alma è men grave
e a me del grande acquisto
Già l’amor, già la gloria
nel tuo rischio, o mia vita?
E vuoi, crudo a te stesso!...
Quell’ardir, che mi ottenne
mi combatta e mi espugni.
scopo già de’ tuoi sguardi;
con chi troppo è infelice.
Con qual cor, con qual lena
Odenato, ecco il campo (Zenobia si inoltra e Odenato la guarda senz’inoltrarsi)
Né ancor t’inoltri? È questo
Che in me non pianga il core? (Se gli accosta amorosa)
(Giunge a tempo Farnace).
Già ingrato sei, già veggo
o difenditi o mori. (Lo incalza ed ei si ritira)
Poiché ’l niega Odenato, (Con la spada ignuda si presenta a Zenobia)
o a me ne lascia il preggio.
Mia conquista è ’l tuo ferro. (Difendendosi da Zenobia le geta con un colpo la spada di mano e dipoi la raccoglie)
(Io vinta? Ah! Non prevalga
Son tuo trionfo, o bella.
Dal cielo anch’io, Odenato,
Dal mio gran padre intanto (A Decio)
Per augusto io l’accetto.