Dopo tante rovine e tanti affanni,
dalle stanche pupille il lungo pianto.
Ecco maturo il tempo, in cui si stringa
per man di amor la sospirata pace.
Idaspe, Spiridate, oggi a voi spose
fian del vostro valor l’inclite spoglie,
Voi, nostri figli, al più gradito laccio
preparate la destra e vi consigli
al doppio nodo e necessario e degno,
più d’un nostro comando, il ben del regno.
Signor, l’esser tuo figlio e tuo vassallo
sono de’ miei voleri e gloria e legge.
E quando mai giunge miglior la pace,
se non quando è di pace araldo amore?
Se Aspasia è mia, tu sei felice, o core.
cangiata in caduceo l’asta guerriera,
così presenta ad Artaserse Atene.
in grado eguale il greco nome onoro.
nimici al mio dover, tornate indietro).
Le prigioniere, Aspasia e Berenice,
sieno spose a’ tuoi figli. Il mio Senato
(ahi proposta crudel!) così propone.
Sia dunque amor, sia dunque pace. Ascolta. (Un soldato porta una face accesa)
Principi, ognun di voi meco s’impegni. (Idaspe e Spiridate fanno ancor essi il loro nodo all’asta)
Stringa gli animi amor, la pace i regni.
Pace agli amici miei, pace a’ vassalli.
te, qual ministro, a’ suoi riposi accolga.
ma taci, o cor. Servi alla Grecia e mori).
Berenice contenta e con Aspasia
Voi già vinceste assai; le principesse
armate di beltà vincano anch’esse.
Come ti giunge caro, o Spiridate,
Il mio cor l’affrettò con mille voti,
volò pietoso e poi restovvi amante.
Sì, ma qual pallor ti reca
gli sconcerti dell’alme infin sul volto?
Odi e fa’ cor; l’amo ancor io.
Alle nozze di lei più non aspiro.
un atto di virtù con un sospiro.
E quel sospir me di crudele accusa.
Mi perdoni? Ah, così non dice il pianto
e col pianto il dolor sugli occhi tuoi.
di natura e di amor turba gli uffici.
Dimmi, seppe il tuo ardor giammai la bella?
Nel nimico finor l’amante ascosi.
rinunciar non si può senza cordoglio,
senza rossore almen si cerchi. Aspasia
scelga ella stessa in fra di noi lo sposo.
Andiam. Co’ voti suoi essa decida
a qual di noi più la fortuna arrida.
Quanto sei cara a Berenice, oh pace!
te cui mi stringe alta ragion di sangue.
E vedrò, dillo pur, dillo, cor mio,
mio dolce vincitor, caro nimico,
dal momento primier che fui sua preda.
tolto l’orrore alla mia sorte. Adesso
con più di libertà sperar mi giova.
con più di speme il sospirar ti lice.
delle viscere mie, l’amato figlio).
Tanto ti turba il tuo amator vicino?
(Oh Artaserse! Oh Cleomene! Oh me felice!
s’oggi sono consorte e genitrice).
(Fuor di sé stessa esce per gioia).
va’, corri, vola. In un penoso indugio
mai non sono all’amor pochi gl’istanti.
Do l’ali al piè. Guai a chi serve amanti.
dal lungo godimento amor già langue,
di un solo oggetto arder servile amante.
mio re, mio nume, in su tua destra invitta
lascia che tutt’ossequio e tutt’ardore...
La man ricuso a chi ritolsi ’l core.
Troppa fierezza. (Ad Artaserse)
Oh ciel! Son più Agamira?
(Quanto è molesta!) Il chiedi...
che reo dell’ire mie soffre il castigo
di non più comparire agli occhi miei.
segrete confidenze e quei... Ma basti.
(Sempre all’infedeltà giova il pretesto). (A Cleomene)
Non è lieve tua colpa il mio sospetto.
d’eterno esiglio; anzi che cada il giorno,
esci di questa reggia, esci del regno.
turbi ’l piacer degl’imenei vicini.
mi pagheresti ’l trasgredito impero.
(Empio decreto e fiero!) (Piange)
N’hai pietà, Cleomene? Or la consola.
Dille che già l’amai ma più non l’amo,
ma quando mai serban la fé gli amanti?
del nostro amor la rimembranza; e quando
pensi che il suo destino è mio comando.
communi i nostri casi! Oggi ’l destino
a Cleomene Aspasia, a te Artaserse
invola. Ah, se spergiuro hai tu l’amante,
se del regnar perdi la speme...
atroce, inconsolabile, funesta.
con l’amor meritato e con la fede,
posseduto co’ voti e con la speme,
oggi così lasciarti? Ed io soffrirlo?
arcano del mio cor. Dario, mio figlio,
son tue quest’onte, i miei furori ’l sono.
Io a te la vita, a me tu serba il trono.
Io Dario? Io figlio tuo? Nel duol vaneggi.
No, non vaneggio; io ti son madre e quello,
quello, che in sen ti bolle, è sangue mio.
Ed oh gran parte non vi avesse ancora
che allor meglio potrei sperar negletta,
figlio, dall’amor tuo la mia vendetta.
Sinché visse Statira, io di Artaserse
perché illustre è il fallir, quando dal trono
su l’error si riflette un qualche raggio.
Mi lusingai d’allor che in questa destra
dell’Asia si adorasse un dì lo scettro.
sinché ad altra era sposo, ebbi speranze.
per consorte mi sprezza e per amante.
io fuor del ciel natio? Perché in Atene?
Perché di Cleomene il nome porto?
Tra mille donne al regio amore elette,
una sola è regina e sol feconda
di successori ’l trono. Ogni altro parto
e, s’è parto maschil, s’ancide in cuna.
Così comanda nella persa corte
troppo severa gelosia di regno
che paventa che un giorno i falsi figli
non movan guerra al vero sangue e allora,
del regio nome il vecchio onor macchiato,
non sieda in trono un successor bastardo.
Io te, madre pietosa, appena nato,
ti consegno ad Arsace, il mio fedele
che ti guida in Atene. Ivi crescesti
dalle vittorie tue reso già illustre.
Dario, viscere care, ecco una madre
la più amorosa e la più afflitta insieme.
La mia gloria tu sei, tu la mia speme.
leggi impose alla Persia e al rege istesso.
Misera! Or dov’è il regno? Ove i vassalli?
Perdei l’onore, il soglio e la vendetta.
Ma forse ancor nulla perdei né ancora,
l’ingiuria soffrirò del duro esiglio.
Odimi; ho partorito; e tu sei figlio.
volta che il dolce nome esce del labbro;
son le nostre sciagure acerbe e grandi;
Mora l’infido sposo e gli empi figli!
Tu lo devi eseguire. Ecco il ministro.
Io del sangue del padre e de’ fratelli
una che pur è sposa, una ch’è madre?
Madre infelice e ripudiata sposa,
dimando una vendetta utile e giusta.
E tu tremi? E ti arresti, anima vile?
Non mi arresta viltà; ragion mi ferma.
Giusta ragion mai non protegge un empio.
Protegge un empio ancor, quand’egli è padre.
Chiami padre un carnefice? Fratelli
rapiscono lo scettro e che fra poco
ti rapiranno Aspasia? Aspasia che ami?
Diman, diman, se tardi, ella fia sposa.
qualche momento. Il cor non può sì tosto
Sì sì, ti lascio a consultar te stesso.
e d’aita ti serva e di consiglio.
con la colpa nel sen? Regno, cui base
sieno stragi e rovine, io ti detesto.
Aspasia, Aspasia. Eccola appunto. Oh dei!
Ragion vacilla e voi ne siete i rei.
Che fra l’attico avesse e il perso impero
l’ira a deporsi ed a cangiarsi ’l cieco
furor dell’armi in amichevol pace,
vedova sconsolata, esser dovessi
di questa pace vittima e trionfo,
di chi ’l dolce consorte, oh dio, mi uccise!
e che di questo abbominevol nodo
tu che mi amasti o mel fingesti almeno,
d’ira, d’orror, di maraviglia il seno.
di un mal ch’è pena mia? Di te dispose
la patria mia; ma da che fui regina,
libero io sola ho del mio cor l’impero.
odio il sangue, odio il padre, odio un nimico
che sposo e regno e libertà mi tolse.
servir dee l’odio e non l’amor di guida.
e di Stige varcar l’onda fatale,
ombra non vile ed al mio sposo eguale.
(Innocenza, ragion, chi ti sostiene?)
spargi fiamme di sdegno e vampe d’ira,
inimico di amor ch’esser ti vanti?
O sei tu ancor fra gl’infelici amanti?
del mio... Ma taci, incauta lingua, un nome
che amato è pena e ricordato è colpa;
di supplizio ti serva e di discolpa.
All’onor del tuo letto ambi rivali.
Qui l’assenso si chiede o qui ’l rifiuto.
Tutto per bel favor de’ labbri tuoi.
Lo sposo a tuo piacer scegli fra noi.
Voi, figli di Artaserse, amate Aspasia?
vorrei potervi odiar senza rimorso.
Se il vostro amor mi scema un gran piacere
col scemar la giustizia all’odio mio,
odiatemi, vi prego. (Ah, che diss’io?)
Lucide stelle, al nostro amor sì avverse?
Ciro il mio re, Ciro il mio sposo, estinto
per man del vostro iniquo padre, ahi cadde!
scellerate richieste, empie speranze!
pretender nozze, protestare amori?
(Perdona a un crudo onor, cor mio, se mori).
Ciro si armò contro la Persia.
trasse la Grecia a noi nimica in guerra.
E nimici di Aspasia ora voi siete.
sono colpa del padre e non de’ figli.
del mio giusto furor dirvi innocenti.
Valore avete e amor? Quella fortuna,
che ognun di voi va del mio cor cercando,
Dal vostro brando. (Idaspe e Spiridate danno mano alla spada)
Quegli che l’altro sveni or del mio core,
scemandomi un nimico, abbia l’amore.
Vi avvilite? Tacete? E paventate?
Orror ma non viltade è il mio tacere.
Temer una empietade è un bel temere.
Ditemi, è valor questo? È questo amore?
Provalo in altro caso e lo vedrai.
Ecco il caso. Mirate. Questo acciaro (Dà di mano ad uno stilo)
al vostro amore ha da servir di strale. (Lo pianta sul trono)
lo raccoglie, lo stringe e poi lo vibra
in quel core, in quel seno, ei le mie labbra
Più non vedrà queste mie stelle avverse.
col vivo orror d’una proposta indegna?
E col dolor d’un disperato affetto?
io temo l’amor mio, temo me stesso.
Difendetemi voi da un tanto eccesso.
Aspasia, genitor, chi di voi vince?
Ma se dubito ancora, io ben lo veggio,
ho core, ho cor per appigliarmi al peggio.
Sì, mio diletto. Oggi ne veda il mondo
in mezzo a un doppio amor saldi e costanti,
miseri, sì, ma non infami amanti.
di un colpevole amor! Con questa destra... (Corre a torlo dal trono)
un orribile oggetto, un fatal dono.
Vanne, acciaro crudel, vanne e ti segua
e dell’averla amata il pentimento.
Amasti Aspasia? (Io son gelosa, il sento).
e in perder lei l’alma m’è quasi uscita.
(Deh, perché non mi lice il dir: «Mia vita»).
Troppo pietosa sei verso il mio core.
Mi fa pietosa... (Il vo’ dir piano: «Amore»).
Leggi dell’onestà, siete pur crude!
che più non ama Aspasia. Ah perché mai
non darmi libertà di dirgli: «Io t’amo»?
Povero sesso! O quanto grave a noi,
quant’aspra a’ nostri amori è la virtude!
Leggi dell’onestà, siete pur crude!
È furore, è vendetta, è gelosia,
questa che il cor m’accieca e il piè mi guida?
con l’oggetto crudel dell’altrui gioie?
di amor spergiuro e d’imeneo fallace! (Comparisce la macchina della Pace e d’Imeneo)
Aspasia, Berenice, a voi ragiona
la Persia che vi è amica e il ciel cortese.
al patrio cielo il suo primier sereno.
Risponde il core e la risposta è in seno.
Men di rigor tu le consiglia omai. (A Cleomene)
Deh, per pubblico ben si adempia il fato
(Questo della mia speme è il punto estremo).
Signor, con questo foglio
Arsace che di corte esule afflitto
non so se di Artaserse o di Agamira.
Insidie al viver mio! Leggete, o figli.
«T’insidia un traditor la vita e il regno.
Saprai l’indegno allor che al regio piede
si prostri e umil ne chiede i cenni Arsace».
La vita e il regno? Oh vergognoso eccesso!
(La mia vendetta è il ciel).
e nelle stanze mie tosto lo guida.
scoprendo i falli altrui, cancella i suoi).
Perdona s’io ti lascio, amabil ciglio.
Pria che tuo amante, io son vassallo e figlio. (Si parte)
Seguo l’idolo mio. (Si parte)
Corro alla madre. (Veduta Agamira, con la quale si ferma ragionando)
Te combatte la gloria e te l’affetto.
purtroppo io son tradito e tu perduta.
Vidi Arsace, mi accolse e me tuo figlio
giurò su la sua fede. A lui mi scopro
di Aspasia amante, a’ principi rivale.
Chiedo aita per te, per me la chiedo.
gli atti cortesi in ritrosia feroce
il suo braccio mi nega e il suo consiglio.
Mal ti fidasti; e quell’infausto foglio
Ma perduti non siam, se sei audace.
Vanne, previeni Arsace; e pria ch’esponga
uccidi entro quel seno il tuo secreto.
Pensa che Aspasia anch’essa
temer dovrà di un re crudel lo sdegno.
l’opra fatal; poi di Artaserse al petto
volgi ’l ferro, apri ’l cor, spargine il sangue.
Sì, che gli ostri a te colori.
Sì, dove tua morte è scritta.
Sì, che poi si cangi in scettro.
Sì, che già ti volle estinto.
Il padre, no, ma per Arsace hai vinto.
merta del ciel l’orecchio un tradimento.
La madre offesa e il mio timor presente
anche senza sperar, mi rende audace
e il periglio di Aspasia uccide Arsace.
Che? Non partisti, o donna?
Non s’adempie sì tosto un duro impero.
Né temi un re disubbidito e offeso?
Che mi resta a temer dopo l’acerba
perdita del tuo amore, idolo mio?
Vane lusinghe. Impura donna, addio. (In atto di partire)
Signor, tu mi rinfacci un tuo delitto.
se a te meno piacean questi occhi miei.
Lo so, mio re. Non più questi occhi
hanno il loro poter. Spento è il tuo foco.
Siasi. Lo soffro in pace. Ah, solo almeno
dell’amor mio non oltraggiar la fede.
Parlisi a core aperto. Odi, Agamira.
Che tu m’ami, nol so. Solito vanto
è di donna che inganna il giurar fede.
assai paga l’amor con ringraziarlo.
Che sia spento il mio ardor, qual colpa è questa?
Se solo in libertà per genio si ama,
con ugual libertà pur si disama.
gli affetti tuoi. Lasciami ’l ciel natio.
Per ultimo conforto almen ti chiedo...
Sol questo giorno al mio partire.
È spazio ancor di gran vendetta un giorno).
Vengo ad Arsace incontro.
Oimè, da mano ignota, oimè!...
pria di spirar, l’alto secreto esporti.
Andiam. Rie stelle! Iniqua destra! (Si parte per la porta secreta)
Infausto colpo! È mio maggior periglio
quanto intrepido più, tanto più ignoto.
Ferito è sì ma non è morto Arsace.
Corso è Artaserse e inteso
avrà sinora il tuo misfatto e il mio.
nelle mie stanze il dubbio evento aspetta.
Ah, dove mai ci trasse ira e vendetta!
(Misero Arsace e più infelice padre!
donna, anzi furia al parricidio enorme?)
(Né gli basta il tuo sen, che immerger tenta
nel sen fraterno ancor l’infame acciaro?)
(Disegno iniquo! Abbominevol voto!)
Ma vendetta, vendetta. A me la chiede
l’estinto Arsace, la giustizia, il grado,
la natura, la legge, il mio periglio.
Non son più padre a chi non è più figlio. (Furioso per partire)
l’orrendo eccesso è di perdono indegno.
In me prima, o signor, stanca il tuo sdegno.
Tanto zel per Idaspe e Spiridate?
vuol torre il padre ed il german di vita.
(Quasi un cieco dolor mi avea tradita).
che tronchi non avesse i fidi accenti
Su l’empia donna e su il colpevol figlio
già caduta saria la mia vendetta.
Me punisci innocente e il reo punisci.
Rifletti all’altrui fallo, al tuo periglio;
non esser padre a chi non è più figlio.
Ah, qual de’ figli è il reo? Qual l’innocente?
Qual di loro punisco e qual difendo?
Morte, che n’ebbe orror, prevenne il nome
e a lui tolse la vita, a me la pace.
Odio Artaserse e di virtù è consiglio.
E t’empie il sen di giusti amori un figlio.
Non arrossirne, Aspasia; il foco è degno.
Ardo sì ma sol di sdegno.
Eh, mal ti ascondi. A Berenice neghi
«M’empie» dicesti «un figlio il sen d’amori».
Insidia fu d’un non ben certo affetto
Ma spaventato poi dal mio rigore,
Lo so. Fuggì dal labbro al core.
Odimi, Berenice. Odio Artaserse
e seco i figli suoi. Sì dura a loro
del potermi acquistar scritta è la legge
che né men dell’acquisto han più la speme
e il mio sdegno e il mio amor da lor si teme.
potrò senza tua pena esserne amante?
(Oh cimento crudele!) A tuo diletto.
Spiridate amerò. (Non mi risponde;
o ch’è rivale o che il piacer nasconde).
Taci, che in lui solo un nimico vedo.
Soffrilo in pace, o gloria mia superba.
Purtroppo ho core in sen, foco nel core.
A svenar al tuo piede il mio Cupido.
con l’ultimo sospir tutto il mio foco.
Così languido mi ami? Ardi sì poco?
Un amore, ch’è reo, sempre è infelice.
E questo è cor di amante?
La spada. (Accennando ad essi che diano la spada al capitano delle guardie)
L’armi cedete; a questi io vi consegno.
Non è vile chi reca un mio comando.
Perché lo fui, più non ti ascolto.
E perché il fosti, or sei più reo.
del parricidio lor gli empi stromenti. (Accenna a Lido che prenda le spade de’ principi)
Non più. Spergiuri e menti.
degli odi acerbi tuoi sazio il furore
su la vita de’ figli e sul mio core.
Traeteli là dove il nostro nume
con maestà temuta inspiri a’ rei
il tardo orror del fallo; ed essi, in quella
del giudizio tremendo aperta scena,
morran pria di vergogna e poi di pena.
Principi, io deggio a voi, benché non pieno,
però dolce il piacer della vendetta.
Al mio piede il tuo amor così si sveni. (A Idaspe)
Sì, tutto il foco tuo così s’estingua. (A Spiridate)
Or dite, qual di voi vuol la mercede?
Chi nulla meritò, premio non chiede.
Taci. Lode di colpa è ingiuria atroce.
la tua cruda richiesta e fin ad ora
non giunse al cor l’empio pensiero ancora.
non si arrende il tuo fasto? Ah, sì, s’arrende
alla pietà che ho del mio amor. Detesto,
ma forse tardi, l’ire mie. Gli bramo
ma forse invan gli bramo ambi innocenti.
e reo per mia cagion, colui che adoro...
Questo è un pensier in cui mi fermo e moro.
non la pietà, chiuse la morte il labbro.
è traditor. Tu gli se’ ignoto e tutta
sopra i rivali tuoi cade la colpa.
qui l’esame dovrà, qui la sentenza.
Ed io sarò della lor pena ingiusta
che felici ne vuol, senza esser rei.
Così ami Aspasia? I tuoi rivali estinti,
per chi arderan dell’imeneo le faci?
Con questa speme, alma ti accheta e taci.
In questi della reggia orridi casi,
fo core agli altri ed io non l’ho. Sui figli
cade la mia vendetta e non sul padre.
Ah, se l’infido a me tornasse... Giovi,
sì sì, giovi sperar. Al traditore,
per chiamarlo al mio sen, voli ’l mio core.
Oh figli, che pur figli ancor vo’ dirvi,
l’enormità del fallo, il sacro loco
e questa a noi divinità presente.
mi s’invidia la vita; e v’è chi tenta
nelle viscere vostre e nelle mie
insanguinar la scellerata spada.
parlan di Arsace le ferite e il sangue.
perch’ebbe orror di proferirle il labbro.
Su, si confonda il traditor. Leggete.
«Per cagion di una donna, e vita e regno
t’insidia un figlio e nel fraterno sangue
tenta immerger fellon l’infame acciaro».
Qual pallor! Qual silenzio! Alma confusa
Io reo, signor, dell’esecrando eccesso?
Io macchinar stragi al fratello e al padre?
Un di voi nella reggia uccise Arsace.
E v’è chi ’l vide e chi l’udì presente;
v’accusa il tempo, il loco; e un re non mente.
Forza è alfin ch’io sospetti. Ah Spiridate,
io tradito da te con tante frodi?
tu così le tue infamie in me rivolgi?
Anzi l’amor di Aspasia è il tuo delitto.
Donde mai nascer vedo i miei perigli!
Com’è complice Aspasia? (Iniqui figli!)
perché offesa da te nel morto sposo,
prezzo alle nozze il capo tuo dimanda.
Lo sa s’io detestai l’empia proposta.
Con la pietà la fellonia si chiude.
Chi più cerca ingannar finge virtude.
Misero re! Misero padre! Tutti
ti tradiscon, la Grecia, Aspasia, i figli.
Oh nozze scellerate! Oh giorno infausto
che portò questa furia a’ nostri lidi!
vi scordaste di me? Più giustamente
Ah, ch’io sono innocente.
della salute tua, della mia vita.
in distinta prigion. Se Aspasia è sola
e poi la rea, cagion di tanto scempio,
all’altrui fellonia serva d’esempio.
Deh, come allor che a me la man porgesti,
«Ella è la man d’un traditor»?
non disse l’alma: «Un empio cor vi alberga»?
Non nominar quella crudel nimica.
ch’esser solea mio voto e mio contento,
si cangiò per tua colpa in mio tormento.
E pari avran la pena. (Ah, che tormento!)
L’avran. Ma quel che ti fuggì dal seno
è sospir di pietade o pur di amore?
Male intendi ’l mio core. È ver, sospira
A tuo piacere. (Or qui si giovi al figlio).
Serva il tuo amore alla comun vendetta.
Lasciali al caso. Il forte Cleomene,
che regola di Atene il senno e l’armi,
arde per te; per esso ardi tu pure.
So che fosti regina; il so. Ma il duce
è per noto valor di te ben degno.
Anch’egli ha spada, onde s’acquisti un regno.
Ahi, Aspasia, che duol! Viene Artaserse
e da te cerca il reo della congiura.
Così ’l mio affetto in ambidue difendo.
Io qui la vita o qui la morte attendo.
onde spento mi brami, io non favello.
che de’ figli nel seno empia accendesti.
Tutto perdono al sesso; al fresco duolo
delle perdite tue tutto perdono.
Parla agli odi, se vuoi. Questi han per gloria
«Non è colpa odiar chi troppo offese».
«Parla all’amor» risponderanno i figli.
Cercai fors’io di loro? È ver, proposi
prezzo del letto mio la tua caduta.
Negaro allor costanti e vidi io stessa
nel volto lor tutto l’orror dell’opra.
Che vinto dal desio poscia un di loro
è colpa d’essi, anzi di te che sei
odioso a’ nimici, a’ figli, a’ dei.
Rea sarò perché taccio il parricida?
se non che ognun di essi è mio nimico.
Alla patria, alla Grecia, al mondo il dico.
Muoiano dunque entrambi e tu con essi.
Che far poss’io?... (Ma parte il crudo). Ah ferma.
(Berenice! Mio cor! Stelle! Chi accuso?)
(Amicizia, che dici? Amor, che vuoi?)
Vedo nel tuo tacer che ambo son rei.
Io so il fellone, odi, trattienti.
Idaspe non errò. (Ad Artaserse)
Non errò; tu l’assolvi e tu il difendi,
se fra i nimici han forza e loco i pianti.
L’innocente già il sai, se a me tu il chiedi.
Se cerchi ’l reo, non lo dirò ma il vedi.
se palese è l’amante. Ama costei
e assai più che pietà quel pianto esprime.
Idaspe favorito è il parricida.
l’uno perché l’incolpi e reo lo chiami,
l’altro perché l’assolvi e perché l’ami.
è Spiridate. Il giurerò su questa,
che infelice mi resta, ultima vita.
Tu piangi, Aspasia? Ingrata Aspasia, e taci?
Perduta ho la pietà, rotta la fede;
sacrilego è il pensier, spergiuro è il core;
l’amicizia è tradita, è morto amore.
Misero Spiridate! Oh dio! Già vedo
cader la falce in sul tuo collo. Il colpo
Seco si mora. Occhi piangete intanto,
che ben si deve a quel bel sangue il pianto.
M’odi Aspasia, se vuol, ma non congiuri.
L’odio nel cor di donna è senza legge.
E senza meta è in cor di re lo sdegno.
Qui rea la trovo e qui n’avrà le pene;
e già per giudicarla e per punirla
Non la deve un monarca a un tradimento.
Addio. Giunge, non so se un reo, se un figlio.
So che il giudice e il padre hanno un sol core.
(Che bel sospir, se sospirasse amore).
Qual vieni, Idaspe, di’, figlio o nimico?
Oh dio! Già il sai; vuol la mia morte Aspasia
e n’appoggiò al tuo braccio il fier desio.
Meco ti vendicai del crudo cenno
Quello è il tuo ferro. Or di’, sei senza colpa?
Io lo protesto e il giurerò con l’opra.
l’onor, la libertà, la vita e il padre.
(Prova così crudel non gli entra in testa).
nella viltà ch’hai di scolparti. A noi
Tu salvi Aspasia e te medesmo uccidi. (A Idaspe)
Figlio, e se vuoi lo vo’ ridir, mio figlio,
credo in Idaspe il reo; ma da te voglio
un atto che assicuri i dubbi miei.
(Serbate Aspasia, o dei).
L’acciar, che il re ti tolse, il re ti rende.
Giustizia sia, non dono. Il prendi.
Ove? D’Aspasia in sen. Svena la rea.
quel folle onor che fe’ codardo Idaspe?
Sì misero son io che tu mi creda
meno illustre di lui, di lui più vile?
Un trofeo femminile alla mia spada?
Fellon. L’iniqua cada. Io stesso, io stesso
senza timor d’infamia all’opra volo.
Vuoi una vita? Anco una vita è questa.
E questa e quella all’ire mie si deve.
Ferma, o re; ferma, o padre. Io voglio il pregio
di sì bell’atto. Ecco l’acciar, l’ardire
Viva la mia innocenza e la mia fama.
(In difesa d’Aspasia amor mi chiama).
Non m’ingannar. È tua prigion la reggia
custodita d’intorno. Ardisci, adempi
e torna in questo sen principe e figlio.
Convien, perché innocente io mi palesi.
Bella è la crudeltà, quando è virtude.
Mal si cerca virtù dentro una colpa.
Ferma e quel ferro a me. Si mora; questa
è la congiura, ond’io minaccio il padre.
Questa è la morte ad un fratello ordita.
Accostati. Vedrai nella ferita
palpitar l’innocenza e insiem l’amore.
narra che in me fedele il cor vedesti;
racconta ad essa in quel fatale istante
che ancor trovasti ’l cor d’Idaspe amante. (In atto di ferirsi)
per altro fine ebb’io dal padre il ferro.
E s’hai del sangue mio sete sì ardente,
ecco il petto, ecco il cor. Moro innocente.
Ha pietà d’un fratello un parricida?
Ha due figli Artaserse. Un gli è rubello.
E s’io so che nol son, tu sarai quello.
E vivi io vi riveggo e sciolti, o prenci?
Oh fortunato amor che qui mi trasse!
ma non più quella cruda aspra nimica.
anch’io peno, anch’io bramo, anch’io sospiro.
Teco ragiono; e il nodo, ond’io ti stringo,
sia catena d’amor che passi all’alma.
Bella, sei pur amante? E sei pur mia?
Tua, qual già mi bramasti.
(Sospirasse per me quel core almeno).
Perdona e soffri. Essa così decide. (A Spiridate)
Mira che timidetta ancor non osa.
Ah, ben è tempo omai che da quel ciglio
Amica, io principiai, tu ardisci e segui.
Dell’innocenza mia gran prova è questa,
perder senza dolor colei che adoro.
Per dir un grande amor dissi pur poco.
Questa che abbiam di libertade è un’ombra.
Ma per compir delle tue gioie il corso, (A Idaspe)
non conosce perigli il zelo mio.
Un atto di virtù talvolta è cieco.
Il fratel giurò mai fede al tuo sdegno?
No, fermi al mio pregar foste ugualmente
e più crebbe il mio amore.
Crebbe amore in quell’alma allor sì fiera?
Eh, non dura fierezza in sen di donna.
È più caro l’amante allor che prega.
Così si frange un core o almen si piega.
L’amor di Spiridate a sé mi chiama.
Il diletto al dover ceda per ora.
Convien che seco io viva o seco io mora.
Aspasia, in tua difesa io son co’ Greci.
Den pesar la tua colpa i grandi tutti.
Né basta il padre; hai per nimici i figli.
Minaccian la tua vita e co’ tuoi giorni
compran dal padre irato il lor perdono.
Non è ver. Nacquer prenci e prenci sono.
Illesi entrambi, illeso Idaspe io bramo.
Egli è innocente e l’amo.
de’ tradimenti miei misero frutto?
Io soffrirò di Aspasia, io de’ fratelli
questo di tua pietà cimento estremo.
Ne’ danni lor le mie vergogne io temo.
Nulla da chi ti amò, nulla dal figlio.
Miei vezzi, a voi. Voi dell’ingrato in seno
un poco sol del foco mio cercate.
Già per vincer quel gel che a voi contrasta,
ogni lieve calor so che vi basta.
Nel caso atroce, onde la reggia è tutta
agitata e sconvolta, un re, ch’è padre,
Ma con questo rigor cerchi ’l tuo male.
Ad ogni affetto il mio dover prevale.
(Ove mi guidi, amor?) Padre.
s’è il mio sospetto e l’amor tuo purgato?
Giusto, signor, ti voglio e non spietato.
dunque colei più che il tuo padre amasti.
Più la tua gloria amai che la mia vita.
Ti comincio a punir. Morrà l’iniqua.
Oimè, dove precipiti? (A Spiridate)
Non errò Idaspe. Io solo...
la pena soffrirai del doppio eccesso.
Tu fosti del tuo mal fabbro a te stesso. (A Spiridate)
(Qui col padre il fratel?)
quanto innocente più, tanto più caro.
e la tua meditava e la mia strage.
Amor, tema, rimorso il trasse infine
a disperare, ad accusar sé stesso.
che io ti stringa al mio sen. (Torna ad abbracciarlo e Idaspe si ritira)
tu abbracci ’l parricida. Io son sol quello
e non è ver che Spiridate il sia.
(A costoro il morir par bizzarria).
sfortunato innocente? Io solo, io solo
il colpevole fui. Rimanti in pace
né ti usurpar le non dovute pene.
A me ch’errai, solo morir conviene.
peripezie; ciascun poc’anzi a gara
si vantava innocente, or reo si vanta.
Artaserse, Artaserse, ov’è quel figlio,
per cui sinor tardasti il fatal colpo?
perano dunque entrambi. Io non vo’ figli
e l’amata e il fratello. Udite, indegni;
ognun di voi morrà, giacché ostinato
Ah, signor, tutta mia sia questa pena.
Deh per grazia morir solo ti chiedo.
Il reo sen mora; e il reo in entrambi io vedo.
Lido, a scriver mi reca. Ite, o soldati,
e sian condotti alla prigion primiera.
Non ha core di padre. Ei l’ha di fiera.
Così senza di me ten vai, mia vita?
Sì, tanta fellonia resti punita.
Aspasia ch’è la rea, perché non more?
Novo oggetto di sdegno al mio furore.
cui la sorte più ria non fa spavento.
Novo oggetto di pena al mio tormento.
Trarrò la Grecia in armi.
Più non si tardi. Andiamo
a segnar la senten... Sì, la sentenza
che la colpa condanni e l’innocenza.
si cercò il parricidio e piacque il prezzo.
Non punirlo è empietà. Mora chi è reo. (Prende la penna e si ferma)
Un solo è il reo; due sono i figli; e quale,
quale assolvo di loro? E qual condanno?
Nessuno? Ingiusto son; due? Son tiranno.
Salvami Idaspe. Egli è mio sposo. I patti...
Innocente lo prova e a te lo salvo.
Rendimi Spiridate. Egli è già mio.
Non colpevol lo addita e a te lo rendo.
Né l’offendi in opprimer l’innocenza?
Che fier destin? Che strano nodo è il mio?
Io giudice tra voi vedo il misfatto
per mio conforto a desiarvi infami.
Figli... Oh dio! Foste almeno entrambi rei,
che allor vi punirei senza dolore,
perché vi punirei senza rimorso.
Purché il reo si punisca, il giusto mora.
Il giusto!... (Prende la penna e si ferma)
Scriver non so. Destra, ragion e core
ma ciò che il re non può faccia il Senato.
la pietà, la speranza e la vendetta.
E dal giudizio altrui pende anche il nostro.
Là corro incerta ad aspettarne il fine,
risoluta con te, dolce consorte,
Teco, fiorito orror, teco che gemi
in dolce libertà, placida auretta,
parlo e chiedo ragion. Dimmi se sei
o fomento o conforto a’ mali miei.
in Susa mi seguir duci e guerrieri.
Chiamerò la mia gloria in mio soccorso.
Crudo più d’ogni rischio è il mio rimorso.
Nel mio campo ti addito un forte asilo.
chi non compie l’error non è mai empio.
Oh d’infausti imenei pompe lugubri!
Ma qui Agamira? Occhi, frenate il corso
alle lagrime vostre. In regia fronte,
quando altri veda, è troppo vile il pianto.
(Cielo, assistimi tu). Re sempre amato.
Oh dio, potessi dir re sempre amante!
Quanto di questo dì, ch’è pur tuo dono,
Donna, a che più rammenti i primi affetti?
Fiamma, che arde nel sen, sfuma dal labbro.
Questa memoria i miei dolori accresce.
Piacer di ben perduto è ancor piacere.
a me giovasse insiem l’antico amore.
Come giovar ti può, se già l’hai spento?
Giovar potria, se a me rimasto almeno
Sol ne incolpa te stesso e la tua legge.
Vane querele; a morte vanno i figli.
E fia di successor priva la reggia.
Ma se Agamira or ti rendesse il figlio?
E se innocenti io ti serbassi i prenci?
L’amore avresti e di Artaserse il soglio.
Due vite a me concedi e a te gli serbo.
Purché non siano i figli rei.
Tutto prometto, al cielo, a Mitra il giuro.
Fa’ che s’arresti la fatal sentenza.
Nuocer potria l’indugio all’innocenza.
Ecco il mio capo. (Artaserse si parte)
S’è dato il cenno; or la promessa adempi.
Ma come gli altri anch’ei svenossi in cuna.
E come? Ed in qual parte?
lo sola il so, meco il sapeva Arsace.
Sott’altro ferro ei cadde.
Taci. Ecco Lido. Ei reca...
Son morti i figli? E giunse tardi ’l messo?
Quei sarian morti e questi giunto invano,
co’ greci suoi non fosse accorso.
il popolo in furor prese ha già l’armi.
Voglion le principesse i loro sposi.
Corron tutti alla reggia. Io gli prevenni.
Quando ha seco giustizia, il re non tema.
Padre, la nostra vita è un’altrui colpa.
Vittime del dover pria che del ferro,
Solo perdona alla pietà di questo
E al duol di queste, ahi troppo, spose amanti.
(Stemprati, Aspasia, in pianti).
ma sinché siete rei, sinché vendetta
grida il sangue di Arsace, io non son padre.
Dunque il giudice sii di chi l’uccise.
sol d’un mio figlio il mortal colpo uscio.
Sì, l’uccise un tuo figlio; e quel son io. (S’inginocchia)
Sopra di me... (S’inginocchia)
dell’altrui fellonia quasi la pena?
la fiacchezza del sesso e i primi affetti.
Ah sì, senza di lui tu invano adesso
piangeresti due figli e noi due sposi.
Tutto condono, o principesse illustri.
Tutto vi deggio, o cari figli. A’ vostri
consigli, a’ vostri preghi, al piacer mio
cede il furor; la dura legge annullo.
Dario, un mio figlio, in Cleomene abbraccio.
Agamira, il giurai, te pur rimetto
E seco ancora avrai comune il letto.
le storie udrò de’ vostri casi. Questo,
questo è tempo d’amor, tempo di gioia.
da noi si placherà l’ombra di Arsace.