Metrica: interrogazione
843 endecasillabi (recitativo) in Artaserse (Zeno e Pariati) Venezia, Pasquali, 1744 
dalle stanche pupille il lungo pianto.
Ecco maturo il tempo, in cui si stringa
fian del vostro valor l’inclite spoglie,
Voi, nostri figli, al più gradito laccio
più d’un nostro comando, il ben del regno.
Signor, l’esser tuo figlio e tuo vassallo
sono de’ miei voleri e gloria e legge.
se non quando è di pace araldo amore?
Se Aspasia è mia, tu sei felice, o core.
cangiata in caduceo l’asta guerriera,
nimici al mio dover, tornate indietro).
sieno spose a’ tuoi figli. Il mio Senato
                                             Io pace e amore.
Sia dunque amor, sia dunque pace. Ascolta. (Un soldato porta una face accesa)
Principi, ognun di voi meco s’impegni. (Idaspe e Spiridate fanno ancor essi il loro nodo all’asta)
Stringa gli animi amor, la pace i regni.
Pace agli amici miei, pace a’ vassalli.
te, qual ministro, a’ suoi riposi accolga.
ma taci, o cor. Servi alla Grecia e mori).
Voi già vinceste assai; le principesse
Il mio cor l’affrettò con mille voti,
                        Sì, ma qual pallor ti reca
gli sconcerti dell’alme infin sul volto?
                                                     Che ascolto!
                                  Gara infelice!
Mi perdoni? Ah, così non dice il pianto
e col pianto il dolor sugli occhi tuoi.
Dimmi, seppe il tuo ardor giammai la bella?
rinunciar non si può senza cordoglio,
senza rossore almen si cerchi. Aspasia
scelga ella stessa in fra di noi lo sposo.
te cui mi stringe alta ragion di sangue.
tolto l’orrore alla mia sorte. Adesso
                                            Il re?
                                                         Artaserse
(Oh Artaserse! Oh Cleomene! Oh me felice!
                                                              Lido,
                                    Verrà fra poco.
                                                                 A lui
va’, corri, vola. In un penoso indugio
mai non sono all’amor pochi gl’istanti.
Do l’ali al piè. Guai a chi serve amanti.
                                            Beltà che un tempo
                                  (Non mi osservò).
                                                                     Ma stanco
di un solo oggetto arder servile amante.
mio re, mio nume, in su tua destra invitta
lascia che tutt’ossequio e tutt’ardore...
                                 Oh ciel! Son più Agamira?
                          (Quanto è molesta!) Il chiedi...
che reo dell’ire mie soffre il castigo
(Sempre all’infedeltà giova il pretesto). (A Cleomene)
                                  (L’arte io detesto).
Non è lieve tua colpa il mio sospetto.
d’eterno esiglio; anzi che cada il giorno,
turbi ’l piacer degl’imenei vicini.
                             Sì, che con la vita
                              (Empio decreto e fiero!) (Piange)
N’hai pietà, Cleomene? Or la consola.
Dille che già l’amai ma più non l’amo,
ma quando mai serban la fé gli amanti?
del nostro amor la rimembranza; e quando
pensi che il suo destino è mio comando.
communi i nostri casi! Oggi ’l destino
invola. Ah, se spergiuro hai tu l’amante,
                                                        Ah, questa,
son tue quest’onte, i miei furori ’l sono.
Io a te la vita, a me tu serba il trono.
Io Dario? Io figlio tuo? Nel duol vaneggi.
No, non vaneggio; io ti son madre e quello,
quello, che in sen ti bolle, è sangue mio.
che allor meglio potrei sperar negletta,
figlio, dall’amor tuo la mia vendetta.
                                  E grandi ancor ne udrai.
perché illustre è il fallir, quando dal trono
su l’error si riflette un qualche raggio.
Mi lusingai d’allor che in questa destra
dell’Asia si adorasse un dì lo scettro.
sinché ad altra era sposo, ebbi speranze.
io fuor del ciel natio? Perché in Atene?
di successori ’l trono. Ogni altro parto
e, s’è parto maschil, s’ancide in cuna.
che paventa che un giorno i falsi figli
non movan guerra al vero sangue e allora,
del regio nome il vecchio onor macchiato,
non sieda in trono un successor bastardo.
la più amorosa e la più afflitta insieme.
leggi impose alla Persia e al rege istesso.
Misera! Or dov’è il regno? Ove i vassalli?
Perdei l’onore, il soglio e la vendetta.
Ma forse ancor nulla perdei né ancora,
l’ingiuria soffrirò del duro esiglio.
volta che il dolce nome esce del labbro;
son le nostre sciagure acerbe e grandi;
Mora l’infido sposo e gli empi figli!
Io del sangue del padre e de’ fratelli
una che pur è sposa, una ch’è madre?
Non mi arresta viltà; ragion mi ferma.
Giusta ragion mai non protegge un empio.
Protegge un empio ancor, quand’egli è padre.
Diman, diman, se tardi, ella fia sposa.
                                    Oh dio! Donami ancora
qualche momento. Il cor non può sì tosto
Sì sì, ti lascio a consultar te stesso.
Aspasia, Aspasia. Eccola appunto. Oh dei!
Che fra l’attico avesse e il perso impero
l’ira a deporsi ed a cangiarsi ’l cieco
di chi ’l dolce consorte, oh dio, mi uccise!
tu che mi amasti o mel fingesti almeno,
d’ira, d’orror, di maraviglia il seno.
di un mal ch’è pena mia? Di te dispose
libero io sola ho del mio cor l’impero.
odio il sangue, odio il padre, odio un nimico
servir dee l’odio e non l’amor di guida.
                                         Va’, Cleomene.
spargi fiamme di sdegno e vampe d’ira,
O sei tu ancor fra gl’infelici amanti?
del mio... Ma taci, incauta lingua, un nome
che amato è pena e ricordato è colpa;
                                  Illustre Aspasia...
Qui l’assenso si chiede o qui ’l rifiuto.
                                          Questo mi è pena.
Se il vostro amor mi scema un gran piacere
odiatemi, vi prego. (Ah, che diss’io?)
Lucide stelle, al nostro amor sì avverse?
Ciro il mio re, Ciro il mio sposo, estinto
per man del vostro iniquo padre, ahi cadde!
(Perdona a un crudo onor, cor mio, se mori).
                                                      E seco
trasse la Grecia a noi nimica in guerra.
che ognun di voi va del mio cor cercando,
                    Da chi?
                                     Dal vostro brando. (Idaspe e Spiridate danno mano alla spada)
Quegli che l’altro sveni or del mio core,
Ditemi, è valor questo? È questo amore?
Ecco il caso. Mirate. Questo acciaro (Dà di mano ad uno stilo)
al vostro amore ha da servir di strale. (Lo pianta sul trono)
in quel core, in quel seno, ei le mie labbra
Più non vedrà queste mie stelle avverse.
                          Qual è il sen?
                                                     Quel di Artaserse.
col vivo orror d’una proposta indegna?
ho core, ho cor per appigliarmi al peggio.
                                   Vinca virtude.
in mezzo a un doppio amor saldi e costanti,
di un colpevole amor! Con questa destra... (Corre a torlo dal trono)
                                       Tormi dagli occhi
Amasti Aspasia? (Io son gelosa, il sento).
                                      No, la ragione;
e in perder lei l’alma m’è quasi uscita.
(Deh, perché non mi lice il dir: «Mia vita»).
Mi fa pietosa... (Il vo’ dir piano: «Amore»).
che più non ama Aspasia. Ah perché mai
non darmi libertà di dirgli: «Io t’amo»?
quant’aspra a’ nostri amori è la virtude!
questa che il cor m’accieca e il piè mi guida?
con l’oggetto crudel dell’altrui gioie?
di amor spergiuro e d’imeneo fallace! (Comparisce la macchina della Pace e d’Imeneo)
la Persia che vi è amica e il ciel cortese.
Risponde il core e la risposta è in seno.
Men di rigor tu le consiglia omai. (A Cleomene)
Deh, per pubblico ben si adempia il fato
(Questo della mia speme è il punto estremo).
                          (Io temo e spero).
                                                             (Io spero e temo).
                                    (E Cleomene il dice!)
                            Signor, con questo foglio
«T’insidia un traditor la vita e il regno.
Saprai l’indegno allor che al regio piede
si prostri e umil ne chiede i cenni Arsace».
La vita e il regno? Oh vergognoso eccesso!
                                 (Perdei me stesso).
                                                  Torna ad Arsace
scoprendo i falli altrui, cancella i suoi).
Perdona s’io ti lascio, amabil ciglio.
Pria che tuo amante, io son vassallo e figlio. (Si parte)
                                    Corro alla madre. (Veduta Agamira, con la quale si ferma ragionando)
di Aspasia amante, a’ principi rivale.
il suo braccio mi nega e il suo consiglio.
Mal ti fidasti; e quell’infausto foglio
Vanne, previeni Arsace; e pria ch’esponga
                        Pensa che Aspasia anch’essa
l’opra fatal; poi di Artaserse al petto
volgi ’l ferro, apri ’l cor, spargine il sangue.
                     Sì, che gli ostri a te colori.
                Sì, dove tua morte è scritta.
                  Sì, che poi si cangi in scettro.
                   Sì, che già ti volle estinto.
merta del ciel l’orecchio un tradimento.
                                             A te, mio sire,
                              Che? Non partisti, o donna?
Non s’adempie sì tosto un duro impero.
Vane lusinghe. Impura donna, addio. (In atto di partire)
                     Lo so, mio re. Non più questi occhi
hanno il loro poter. Spento è il tuo foco.
Siasi. Lo soffro in pace. Ah, solo almeno
Che sia spento il mio ardor, qual colpa è questa?
gli affetti tuoi. Lasciami ’l ciel natio.
                    Sol questo giorno al mio partire.
È spazio ancor di gran vendetta un giorno).
                            Vengo ad Arsace incontro.
                                                          Che?
                                                                      Langue
                                 (Oh degno figlio!)
                               E moribondo chiede,
pria di spirar, l’alto secreto esporti.
Andiam. Rie stelle! Iniqua destra! (Si parte per la porta secreta)
                                                                Il core
                                            Oh madre!
                                                                   Ah, figlio!
                               Ah, fuggi.
                                                   Qual timore?
quanto intrepido più, tanto più ignoto.
                           Corso è Artaserse e inteso
nelle mie stanze il dubbio evento aspetta.
donna, anzi furia al parricidio enorme?)
(Né gli basta il tuo sen, che immerger tenta
nel sen fraterno ancor l’infame acciaro?)
l’estinto Arsace, la giustizia, il grado,
Non son più padre a chi non è più figlio. (Furioso per partire)
l’orrendo eccesso è di perdono indegno.
In me prima, o signor, stanca il tuo sdegno.
vuol torre il padre ed il german di vita.
Su l’empia donna e su il colpevol figlio
Rifletti all’altrui fallo, al tuo periglio;
non esser padre a chi non è più figlio.
Ah, qual de’ figli è il reo? Qual l’innocente?
Morte, che n’ebbe orror, prevenne il nome
Odio Artaserse e di virtù è consiglio.
E t’empie il sen di giusti amori un figlio.
Non arrossirne, Aspasia; il foco è degno.
                      Ardo sì ma sol di sdegno.
«M’empie» dicesti «un figlio il sen d’amori».
                                       E si partì dal petto.
               Lo so. Fuggì dal labbro al core.
del potermi acquistar scritta è la legge
che né men dell’acquisto han più la speme
e il mio sdegno e il mio amor da lor si teme.
o ch’è rivale o che il piacer nasconde).
Purtroppo ho core in sen, foco nel core.
con l’ultimo sospir tutto il mio foco.
Un amore, ch’è reo, sempre è infelice.
                                                 È cor di figlio.
                     La spada. (Accennando ad essi che diano la spada al capitano delle guardie)
                                         Come!
                                                        Il re dispone.
L’armi cedete; a questi io vi consegno.
                 Perché lo fui, più non ti ascolto.
                           E perché il fosti, or sei più reo.
del parricidio lor gli empi stromenti. (Accenna a Lido che prenda le spade de’ principi)
                   Il ciel...
                                   Non più. Spergiuri e menti.
il tardo orror del fallo; ed essi, in quella
Principi, io deggio a voi, benché non pieno,
Al mio piede il tuo amor così si sveni. (A Idaspe)
Sì, tutto il foco tuo così s’estingua. (A Spiridate)
non giunse al cor l’empio pensiero ancora.
non si arrende il tuo fasto? Ah, sì, s’arrende
alla pietà che ho del mio amor. Detesto,
ma forse invan gli bramo ambi innocenti.
e reo per mia cagion, colui che adoro...
Questo è un pensier in cui mi fermo e moro.
non la pietà, chiuse la morte il labbro.
è traditor. Tu gli se’ ignoto e tutta
                                  E d’ambi farsi
                             Vile che sei!
Così ami Aspasia? I tuoi rivali estinti,
Con questa speme, alma ti accheta e taci.
fo core agli altri ed io non l’ho. Sui figli
Ah, se l’infido a me tornasse... Giovi,
per chiamarlo al mio sen, voli ’l mio core.
Oh figli, che pur figli ancor vo’ dirvi,
mi s’invidia la vita; e v’è chi tenta
                             Qual rubel?...
                                                        Contro di lui
perch’ebbe orror di proferirle il labbro.
«Per cagion di una donna, e vita e regno
t’insidia un figlio e nel fraterno sangue
tenta immerger fellon l’infame acciaro».
Qual pallor! Qual silenzio! Alma confusa
Io reo, signor, dell’esecrando eccesso?
Io macchinar stragi al fratello e al padre?
E v’è chi ’l vide e chi l’udì presente;
v’accusa il tempo, il loco; e un re non mente.
Forza è alfin ch’io sospetti. Ah Spiridate,
Anzi l’amor di Aspasia è il tuo delitto.
Com’è complice Aspasia? (Iniqui figli!)
                                      E n’arsi anch’io.
                                             Ella tutt’ira,
Lo sa s’io detestai l’empia proposta.
                                              Cade ben presto
ti tradiscon, la Grecia, Aspasia, i figli.
che portò questa furia a’ nostri lidi!
                                               Io non ho colpa.
                                        Oh dio! Ti caglia
all’altrui fellonia serva d’esempio.
Deh, come allor che a me la man porgesti,
                                                        Deh come,
non disse l’alma: «Un empio cor vi alberga»?
                           Oh misera innocenza!
                             Tu fede?
                                                Aspasia il dica.
ch’esser solea mio voto e mio contento,
si cangiò per tua colpa in mio tormento.
E pari avran la pena. (Ah, che tormento!)
L’avran. Ma quel che ti fuggì dal seno
Male intendi ’l mio core. È ver, sospira
A tuo piacere. (Or qui si giovi al figlio).
che regola di Atene il senno e l’armi,
Anch’egli ha spada, onde s’acquisti un regno.
                               Nissun di loro.
Così ’l mio affetto in ambidue difendo.
che de’ figli nel seno empia accendesti.
Parla agli odi, se vuoi. Questi han per gloria
«Non è colpa odiar chi troppo offese».
«Parla all’amor» risponderanno i figli.
Cercai fors’io di loro? È ver, proposi
nel volto lor tutto l’orror dell’opra.
odioso a’ nimici, a’ figli, a’ dei.
Alla patria, alla Grecia, al mondo il dico.
Che far poss’io?... (Ma parte il crudo). Ah ferma.
                                      E seco Idaspe.
                                      (Soccorso, oh dei!)
                        Io so il fellone, odi, trattienti.
                                 Segui. Idaspe è reo.
                  È il traditor?
                                            Perdona, o cara.
                                 (Sentenza amara!)
Non errò; tu l’assolvi e tu il difendi,
se fra i nimici han forza e loco i pianti.
L’innocente già il sai, se a me tu il chiedi.
Se cerchi ’l reo, non lo dirò ma il vedi.
e assai più che pietà quel pianto esprime.
l’uno perché l’incolpi e reo lo chiami,
l’altro perché l’assolvi e perché l’ami.
Tu piangi, Aspasia? Ingrata Aspasia, e taci?
sacrilego è il pensier, spergiuro è il core;
cader la falce in sul tuo collo. Il colpo
che ben si deve a quel bel sangue il pianto.
M’odi Aspasia, se vuol, ma non congiuri.
L’odio nel cor di donna è senza legge.
Qui rea la trovo e qui n’avrà le pene;
Addio. Giunge, non so se un reo, se un figlio.
So che il giudice e il padre hanno un sol core.
Qual vieni, Idaspe, di’, figlio o nimico?
Oh dio! Già il sai; vuol la mia morte Aspasia
e n’appoggiò al tuo braccio il fier desio.
Quello è il tuo ferro. Or di’, sei senza colpa?
Io lo protesto e il giurerò con l’opra.
l’onor, la libertà, la vita e il padre.
                                   (Empia richiesta!)
(Prova così crudel non gli entra in testa).
nella viltà ch’hai di scolparti. A noi
Tu salvi Aspasia e te medesmo uccidi. (A Idaspe)
Figlio, e se vuoi lo vo’ ridir, mio figlio,
                           (Serbate Aspasia, o dei).
L’acciar, che il re ti tolse, il re ti rende.
                                                              (E il prende!)
                                       Ove cercarla?
                                                 Io lo sapea.
quel folle onor che fe’ codardo Idaspe?
Fellon. L’iniqua cada. Io stesso, io stesso
Ferma, o re; ferma, o padre. Io voglio il pregio
di sì bell’atto. Ecco l’acciar, l’ardire
Non m’ingannar. È tua prigion la reggia
Bella è la crudeltà, quando è virtude.
è la congiura, ond’io minaccio il padre.
Questa è la morte ad un fratello ordita.
palpitar l’innocenza e insiem l’amore.
che ancor trovasti ’l cor d’Idaspe amante. (In atto di ferirsi)
per altro fine ebb’io dal padre il ferro.
E s’hai del sangue mio sete sì ardente,
ecco il petto, ecco il cor. Moro innocente.
Ha due figli Artaserse. Un gli è rubello.
E s’io so che nol son, tu sarai quello.
E vivi io vi riveggo e sciolti, o prenci?
anch’io peno, anch’io bramo, anch’io sospiro.
Teco ragiono; e il nodo, ond’io ti stringo,
sia catena d’amor che passi all’alma.
                                                  (Oh gelosia!)
Perdona e soffri. Essa così decide. (A Spiridate)
Amica, io principiai, tu ardisci e segui.
Dell’innocenza mia gran prova è questa,
                                          Bella, che giova?
Questa che abbiam di libertade è un’ombra.
Ma per compir delle tue gioie il corso, (A Idaspe)
                                E Berenice è teco.
                                                  (Egli è innocente).
Crebbe amore in quell’alma allor sì fiera?
Così si frange un core o almen si piega.
Aspasia, in tua difesa io son co’ Greci.
Né basta il padre; hai per nimici i figli.
Minaccian la tua vita e co’ tuoi giorni
Non è ver. Nacquer prenci e prenci sono.
                            Egli è innocente e l’amo.
Io soffrirò di Aspasia, io de’ fratelli
Miei vezzi, a voi. Voi dell’ingrato in seno
Già per vincer quel gel che a voi contrasta,
agitata e sconvolta, un re, ch’è padre,
                                                        Nel seno
s’è il mio sospetto e l’amor tuo purgato?
                Aspasia anche vive.
                                                      Anima vile,
dunque colei più che il tuo padre amasti.
                                           Che sento!
                                                E solo, infame,
Tu fosti del tuo mal fabbro a te stesso. (A Spiridate)
                                              Vieni, sì, vieni,
che io ti stringa al mio sen. (Torna ad abbracciarlo e Idaspe si ritira)
                                                    Sire, in Idaspe
tu abbracci ’l parricida. Io son sol quello
                                  A che ne vieni,
Artaserse, Artaserse, ov’è quel figlio,
perano dunque entrambi. Io non vo’ figli
e l’amata e il fratello. Udite, indegni;
Il reo sen mora; e il reo in entrambi io vedo.
                  Berenice.
                                      Io vado.
                                                       Io parto.
                                          Dove, idol mio?
                              Mio ben.
                                                 Mia bella.
                                                                      Addio.
                                               Ancora il ferro
                                             Non v’è più spene.
                              Più non si tardi. Andiamo
                                      (Par che si penta).
                                                                          (Io spero).
si cercò il parricidio e piacque il prezzo.
Non punirlo è empietà. Mora chi è reo. (Prende la penna e si ferma)
Un solo è il reo; due sono i figli; e quale,
Salvami Idaspe. Egli è mio sposo. I patti...
                               Giustizia offendo.
Né l’offendi in opprimer l’innocenza?
Che fier destin? Che strano nodo è il mio?
Figli... Oh dio! Foste almeno entrambi rei,
Purché il reo si punisca, il giusto mora.
Il giusto!... (Prende la penna e si ferma)
                       (Oh legge!)
                                              (Oh foglio!)
                                                                      (È in forse ancora).
ma ciò che il re non può faccia il Senato.
E dal giudizio altrui pende anche il nostro.
                         A preservar da morte
                                          Io ne ho la colpa.
                                        Già son perduto.
Crudo più d’ogni rischio è il mio rimorso.
chi non compie l’error non è mai empio.
quando altri veda, è troppo vile il pianto.
Quanto di questo dì, ch’è pur tuo dono,
Donna, a che più rammenti i primi affetti?
Fiamma, che arde nel sen, sfuma dal labbro.
Come giovar ti può, se già l’hai spento?
L’amore avresti e di Artaserse il soglio.
                                                   Non sono.
Tutto prometto, al cielo, a Mitra il giuro.
Nuocer potria l’indugio all’innocenza.
                                              Ecco il mio capo. (Artaserse si parte)
S’è dato il cenno; or la promessa adempi.
Ma come gli altri anch’ei svenossi in cuna.
                                    E come? Ed in qual parte?
                                              Oh dei, che narri?
                            Taci. Ecco Lido. Ei reca...
Son morti i figli? E giunse tardi ’l messo?
                                                          (Oh figlio!)
il popolo in furor prese ha già l’armi.
Corron tutti alla reggia. Io gli prevenni.
Padre, la nostra vita è un’altrui colpa.
E al duol di queste, ahi troppo, spose amanti.
                           (Stemprati, Aspasia, in pianti).
                                  Idaspe, Spiridate,
grida il sangue di Arsace, io non son padre.
                                     Quel misero trafitto
sol d’un mio figlio il mortal colpo uscio.
Sì, l’uccise un tuo figlio; e quel son io. (S’inginocchia)
                             Costei è che lo mosse?
                                          Ah, genitore,
                                        In Agamira
la fiacchezza del sesso e i primi affetti.
                                 E chi salvò i fratelli
                                        Non è più dono.
Tutto vi deggio, o cari figli. A’ vostri
consigli, a’ vostri preghi, al piacer mio
Dario, un mio figlio, in Cleomene abbraccio.
                                     Serva di fede.
le storie udrò de’ vostri casi. Questo,
                                          E son felice.
                           Tutto è gioia.
                                                     E tutto è pace.

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