del Boristene algente alto monarca,
morde i tuoi ceppi; e il contumace Adrasto,
nelle aperte sue piaghe il suo delitto.
degne della tua fama e son maggiori
e di tante tue palme è nostro il frutto.
difesa e primo amor. (Lo abbraccia)
Agli amplessi paterni, amico duce,
al vincitor neghi gli applausi?
ne’ tuoi reali amplessi ebbe anche i miei.
diedi al valor di Ernando. I suoi trionfi
ne chiedono un maggiore. Ei me lo additi.
Gran re, tutto ti deggio.
gli affetti meritar del tuo gran core.
Ti arride amor. Sol per te chieggo. (Piano ad Alessandro)
O amico. (Piano ad Ernando)
ma non senza rossor (non senza pena);
l’oggetto de’ miei voti è un bel sembiante.
più zelo al cor, più stimolo alla fede.
Frena il volo al tuo amore o nel tuo sangue
ne ammorzerò le fiamme. Ama là dove
non offendi il tuo prence; o se sì audaci
nutri gli affetti, ama soffrendo e taci.
segui, Alessandro, le vestigia; e digli
che a tal grado alzerò la sua fortuna
quaggiù, fuorché il suo re, fuorché gli dei.
in qualunque destin gli sdegni miei.
Tanto esporrò; ma troppo ingiusto sei.
vuol privar te di un padre e me di un figlio.
Del tuo poter, della mia vita, o sire,
usa a tuo grado. Il soffrirò con questa
che tu chiami fierezza ed è virtude.
mi sia rival, ch’ei mi contenda e usurpi
Nol soffrirò. Sento che m’empie un core
forte a ceder la vita e non l’amore.
mio malgrado il tuo amor. Ma sappi intanto
che un reo vassallo arma di un re lo sdegno
e che prima che a te fui padre al regno.
Colei che amasti allor che fummo
mentito il sesso e co’ suoi fidi accanto.
dell’amor mio, costei sen viene; e seco
rinfaccerà dell’onor suo le macchie,
chiamerà nel suo pianto uomini e dei.
mi ha rapiti Erenice. Arde più forte
e goduta beltà più non mi piace.
vive il tuo sposo, invano atteso tanto
purché altro amor non t’abbia avvinto, io sono
paga di tue discolpe e ti perdono.
Purtroppo, amico, è dessa. (In disparte a Gismondo)
Già ne osservò. (In disparte a Casimiro)
Finger mi giovi. (A parte)
Stranier, che tale a queste spoglie, a questi
tuoi compagni o custodi a me rassembri,
e qual da miglior clima all’Orse algenti
(Non mi ravvisa). A mia gran sorte ascrivo
qui giunto appena, ove drizzai la meta,
te incontri, eccelso prence.
giammai non vidi, ove fui noto? E quando?
(Ah! Quasi dissi il fier destin d’amarti).
era il giorno primier che i lumi tuoi
giorno (ah, giorno fatal!) che in voi si accese
allor che le giurasti eterno amore
e sol fui testimon del suo rossore.
ti dovria sovvenir che in bianco foglio
me presente, giurasti; e me presente,
Ti dovria sovvenir ch’entro sei lune
compié l’anno il suo corso e non tornasti.
io che fui testimon delle sue pene?
la tua fedel Lucinda: «E se» mi aggiunse
«e se nulla ottener puoi da quel core,
abbia con la mia vita il mio dolore».
Ma dovunque tu vada, onde tu venga
parti, o Lucindo, e non cercar di più.
Così mi lascia il traditor! Gismondo,
tu pur non mi ravvisi? O te ne infingi?
ben ti ravviso e ti ho pietade ancora.
Mi ha tradita il mio sposo? O vuol tradirmi?
Del mio fato il tenor svelami tu.
Parti, o Lucinda, e non cercar di più.
Ch’io non cerchi di più? Solo a tal fine
grado e sesso mentii, soffersi tanto.
che il saperlo mi sia cagion di pianto.
la comun libertà posa sicura.
E de’ tuoi rischi il nostro bene è l’opra.
nulla oprai, nulla ottenni. Egli ha gran tempo
ch’ardono del tuo bello, e ben tu il sai,
Questi, temendo il suo rival germano,
nascose il foco e col mio labbro espose
credutomi rival, tutto in me cadde
e in me sol rispettò l’amor paterno.
alla reggia mi tolse. Io vinsi; e il prezzo
sol per render voi lieti (e me infelice).
foste di tanto. Casimiro allora
fremé, si oppose, minacciò. Compiacqui
al suo furor, presi congedo e tacqui.
non avrà il fatto. Al mio consiglio, al nodo
darà l’assenso; e del rival germano
sarà impotente ogni furore e vano.
Questo mio così tosto esser felice.
Prendi, mia vita, (Le dà un anello)
sposa mi sei. Nell’atto sacro invoco
Cedo e consorte a te mi giuro.
pria che il fratel qui ti sorprenda.
a darti il primo maritale amplesso.
Io fui del mio morir fabbro a me stesso.
Pace al regno recasti e gioia a noi,
Ma tu così pensoso? E che ti affligge?
importuno venir non vi rattristi.
Se sai d’esser molesto, a che ne vieni?
sugli occhi di Erenice un mio comando.
Perché Ernando è vassallo ed io son re.
non del nostro voler. Sono gli affetti
un bene indipendente, un ben ch’è nostro.
L’amar beltà che tu pur ami, o prence,
è omaggio che si rende al bel che piace.
Nell’amor mio son giusto e non audace.
E giusto anch’io sarò in punirti. A troppo
tua baldanza s’inoltra. (In atto di por mano alla spada)
tempra o sospendi almen l’odio mortale.
non sarò, qual mi credi, il tuo rivale.
l’ultimo addio che da Erenice or prendi.
più grave offesa è all’onor mio.
Erenice è vassalla e tu sei re.
Siati dunque comando il mio divieto.
cui né ubbidir né compiacer poss’io.
beltà più ingiusta e più superba?
si serve amor per gastigarti. Ei gode
che tua pena ora sia l’altrui rigore.
mentita fede, lusinghieri baci,
Lucinda amata e poi tradita...
Infelice Lucinda, io ti compiango.
meritar ben dovea miglior mercede.
Non partir, Casimiro. Ei te pur chiede.
dipender io dovrò dall’altrui legge?)
Del sarmatico cielo inclito Giove,
per cui la fredda Vistula è superba
re, la cui minor gloria è la fortuna,
quella, ch’estinto il genitor Gustavo
le belle piagge e il fertil suol, Lucinda,
a te, che per giustizia e per virtude
non v’ha cui noto, o Venceslao, non sia,
per alto affar me suo ministro invia.
è fregio al debol sesso, invidia al forte,
ch’io servir possa a’ cenni è mia gran sorte.
(Meglio è ch’io parta inosservato).
dir mi riman, te vo’ presente.
Costui, signor, mente l’uffizio e il grado.
foglio fedel, questo dirà s’io mento. (Lucinda porge al re una lettera che sembra essere di credenza. Il re l’apre e leggendola guarda minaccioso il figliuolo)
(Neghisi tutto a chi provar nol puote).
(Che lessi!) Ah, figlio, figlio. Opre son queste
degne di te? Degne del sangue ond’esci?
son di tua man? Li riconosci? Leggi.
Leggi pure a gran voce; e del tuo errore
dia principio alla pena il tuo rossore.
il prence Casimiro a te promette
e segna il cor ciò che dettò la mano».
Or ora il dissi. Un mentitore è questi.
mentito il ministero. Io né giurai
né mai la vidi o pur ne intesi.
E perché alcun della bugiarda accusa
or te, foglio infedele, il piè calpesti. (Straccia in molte parti la carta e poi la calpesta)
mentitor me dicesti. In campo chiuso
forte guerrier per nascita e per grado
e tua pena sarà la tua mentita.
Il paragon dell’armi io non ricuso.
già mi s’imbianca il crine e mi si aggrava,
Corto termine avanza alla mia vita;
ma tu il soffri con pena; e non osando
vuoi che un cruccio mortal mi abbrevi i giorni
Indegno successor, pensi sul trono
portare il vizio. Ma gli dii son giusti
tu questa aggiungi, o ciel! d’una delusa
smentirà il mio valor le indegne accuse,
sosterrà mia innocenza e avrà propizi
ver che a Lucinda io fé giurata avessi,
saria, se pur è colpa. Degli amanti
son vani i giuramenti e spergiurato
Giove sen ride e Amore. (Si parte)
Non molto andrà che di Erenice in seno
strinsi, affrettai, cor ebbi a farlo e il lodo.
Esser misero volli e vano è il pianto.
una parte del mio. Sovente io posi
il mio cor nel tuo seno; e vel lasciai
perché quel di Alessandro in lui trovai.
Ei mal soggiorna in compagnia del mio;
mi lasci nel partir l’ultimo addio.
Altro temo, Erenice, altro sospiro.
Sia l’ubbidirti, o bella,
gran parte di discolpa al mio delitto.
non disser gli occhi miei che il cor ti adora.
a favor di Alessandro ancor mi parli.
Chi può mirar quegli occhi e non amarli?
Ti amai dal primo istante in cui ti vidi,
tel dissi nell’estremo in cui ti perdo,
quando al tuo cor nulla più manca e quando
tutto, tutto dispera il cor di Ernando.
Dov’è virtù, dove amistade in terra,
dove il furor mi spinge e mi trasporta?
Non è capace il generoso Ernando
deggio, più che al suo labbro, al suo gran core.
Fuorché di gloria, egli non sente amore.
Non sento amor? T’amo, Erenice, t’amo
Senza desio, senza speranza t’amo...
ma col cor di Alessandro, il mio tesoro.
Sì sì, t’amo col suo; col mio ti adoro.
Vorresti ancor farmi adirar ma invano.
Temono i rei la loro colpa. Io solo
se il neghi alle mie voci, al tuo sembiante.
Vanne. Ti credo amico e non amante.
quell’importuno e quell’ingiusto amante.
tuo amator ma pudico e che destina
te al suo trono e al suo amor moglie e regina.
Come! Tu, Casimiro, il prence erede
chiedi in moglie Erenice, il vile oggetto
Sì, principessa. A quella fiamma, ond’arsi,
purgai quanto d’impuro avea nell’alma.
ancora in te quell’amator ingiusto,
non per virtù ma per furor pudico.
S’errai, fu giovanezza e non disprezzo.
E s’io t’odio, è ragione e non vendetta.
Cancella un pentimento ogni delitto.
Macchia di onor non mai si terge; e spesso
L’onte ripara un trono offeso.
teco mi saria scorno e non grandezza.
Non troverai Lucinda in Erenice.
Mie deluse speranze, invendicato
non andrà un tal rifiuto...
Quel che t’arde nel sen per Erenice
che le fece il mio amor, sprezzò l’ingrata.
E sprezzarla perché? Per abbassarsi
Come! Sposa Erenice? O dei! Ma dove?
la mia sciagura? E certo il sai?
da Ismene, a me germana e di Erenice
fedele amica, il tutto intesi.
È tempo, sì, di vendicarsi. Iniqua!
parto col mio furor. Tu taci il tutto.
Io mi credea che di Erenice al nodo
l’amor di Casimiro; e nel suo core
credei servir, Lucinda, al tuo dolore.
risveglia l’ire e non ammorza il foco.
Più feroce divien, non meno amante.
da’ voti miei tanto stancati e tanto
vittime elette io fei cader, se a voi
gl’innocenti miei preghi, a me volgete
finite la mia vita o la mia pena.
ben qui ti trasse frettoloso.
a chi anela a vendetta, ore di pena.
Stranier, cadente è il sole; e meglio fora
sospender l’arme al dì venturo.
tanto anche avanza onde finir la pugna.
l’ora assegnasti e il campo. Ed or paventi?
Pugnisi pur. Non entran nel mio core
deboli affetti e n’è viltà sbandita;
l’innocenza del figlio e non la vita.
affidata al mio braccio è già sicura.
Impotente è l’audacia in alma impura.
qual ti deggia chiamar, nimico o amico,
possibil fia ch’espor tu voglia al fiero
sanguinoso cimento e fama e vita?
E ingiusto sosterrai la tua mentita?
Tu non vergasti il foglio? Ignoto il volto
Sposa non l’abbracciasti? E dir tu il puoi?
Tu sostener? Scuotiti alfin. Ritorni
la perduta ragion. Già per mia bocca
l’amorosa Lucinda or sì ti dice.
sin dal ciel lituan teco traesti,
l’onestà vilipesa, i tuoi spergiuri.
ma più quelle che fai. Più del tuo sangue
il tuo rischio maggior la morte mia.
La tua, la tua vogl’io. Perfido, all’armi.
a quel core infedel farsi la strada.
Io volgerò contra costei la spada? (In atto di partire è rattenuto da Lucinda)
Invan. Da questo campo ad armi asciutte
(Corre all’occaso il sole
e in braccio d’Erenice Ernando è atteso).
o ti difendi o ti trafiggo inerme.
No no, pugna or volesti e pugna or voglio.
(Tolgasi questo inciampo all’amor mio). (Segue l’abbattimento, in cui Casimiro con un colpo gitta di mano a Lucinda la spada)
chiaro agli occhi del padre, a quei del mondo.
Hai vinto, o vile. Aggiungi alla tua gloria
l’aver vibrato in sen di donna il ferro,
E ancor t’infingi? Or via, mi svena.
sarà il minor, l’aver Lucinda uccisa
dopo tolto l’onor, torle la vita. (Il re si leva dal suo posto e si affretta a scendere nello steccato)
Padre, già il dissi. Un mentitore è desso.
Mentì già il grado ed or mentisce il sesso.
Questa non è Lucinda. In tali spoglie
Non sei Lucinda, no. Confuso e vinto,
rimanti. (Il padre viene e a lui m’involo).
Col tacermi il tuo grado e la tua sorte,
quando dovrei sino a me stessa ignota
seppellir la mia pena e ’l mio rossore?
sul cor del figlio a tuo favore impegno.
nell’amor nostro e rasserena il ciglio.
Sarà tuo sposo o non sarà mio figlio.
né disperiam, teneri affetti. L’alma
di letargo a coprir, se non d’obblio.
La notte avanza; e Casimiro, ah, solo
Gismondo, ov’è il mio figlio?
m’è di sventure e per Ernando io temo.
chiamisi tosto il duce Ernando.
(Temo anch’io l’ire d’un amor feroce).
e l’affanno e il timor. Qual notte è questa
in cui sognansi orrori ad occhi aperti?
quale acciar ti trafigge? E qual gran male
tutto gelar fa nelle vene il sangue?
prova quest’alma. In che vi offesi, o dei? (Appoggiandosi al tavolino, si copre gli occhi con la mano. In questo entra Casimiro, tenendo in mano uno stilo nudo insanguinato)
torbide larve... Figlio...
mancan le voci. Attonito rispondo;
nulla, o padre, dir posso e mi confondo.
Errasti, il veggo, e gravemente errasti.
Ragion mi rendi, ah, di quel sangue.
Prepara pur contro il mio sen, prepara
questo... il dirò... del mio rivale è sangue;
io ne fui l’omicida. Io ragion n’ebbi.
ragione avesti? Barbaro, spietato,
tu pur morrai. Vendicherò...
qui pronto... (Venceslao gli va incontro e lo abbraccia)
Ernando vive? Ernando amico.
(Vive il rival! Voi m’ingannate, o lumi?
io moria per dolor della tua morte.
ma per versarlo in tuo servigio, o sire.
Così Ernando, così dee sol morire.
Qual misero svenai! Cieli perversi!)
tra giustizia e pietà libri egualmente,
giusto re, giusto padre, ecco a’ tuoi piedi
chieggo la tua. Lagrime chieggo e sangue.
Ti vo’ giudice e padre. Ah, rendi al mondo
a pro del giusto ed a terror dell’empio
di virtù, di fortezza un raro esempio.
Sorgi, Erenice, e la vendetta attendi
Quale io sia, ben ti è noto.
quel diadema ch’io cingo ornò le tempia.
amar potea l’un de’ tuoi figli?
non è mai colpa, ove l’oggetto è pari.
Piacque il pudico amante, odiai l’impuro.
strinse le destre; e fu segreto il nodo
per tema del rival, non per tua offesa.
coglier dovea. L’ora vicina e d’ombre
ne’ tetti miei, sulle mie soglie e quasi
sugli occhi miei trafitto... Oimè!... Perdona...
furor, dove m’hai tratto? Io fratricida?)
Sì. Morto è l’infelice; e tosto ch’io
ti seguirò agli Elisi, ombra adorata.
S’agita al tribunal della vendetta
Sia qual si vuol, pronta è la scure; il capo
data ho l’irrevocabile sentenza.
Giustizia è l’ira ed il rigor clemenza.
Non tel dica Erenice. Il cor tel dica,
tel dica il guardo. Hai l’uccisor presente.
quel stupor, quel silenzio e più di tutto
della strage fraterna a te già grida
che un figlio del tuo figlio è l’omicida.
Già cedo al novo affanno. (Si copre gli occhi col fazzoletto)
Casimiro l’uccise. Ei fece un colpo
degno di lui. Se nol punisci, o sire,
verrà quello a votar che hai nelle vene.
di te, di me. Ragion, natura, amore
Se re, se padre a me negar la puoi,
numi del cielo, a voi la imploro, a voi.
come n’è il cor, fosse innocente il braccio.
non ho discolpe, il mio supplizio è giusto.
Io stesso mi condanno, io stesso abborro
dal mio re condannata e da Erenice.
Va’, principessa, ed a me lascia il peso
e il misero amor mio da te l’aspetta.
dispongo a sofferir mali più atroci).
Qual raggio a noi volgeste, astri feroci?
Tu colà attendi il tuo destino.
già sento in me la sua fierezza.
Non son più padre, Ernando. Un colpo solo
Chi è vicino a morir, già quasi è morto.
Un padre re può ben salvar un figlio.
Se il danna il re, non può salvarlo il padre.
Il sangue del fratel chiede il suo sangue.
E se nol vibro, il cielo.
Morirà Casimiro. (Lucinda sopraggiunge)
Tu va’ mio nuncio a lui; digli che forte
nel dì venturo ei si disponga a morte.
Perdona, o re, di Casimiro il capo
con l’amor mio dalle tue leggi esento.
Tal lo dichiaro; e come re né dee
né può d’altro regnante esser soggetto
Rispetta il grado e il tuo rigor correggi.
re Casimiro ancor non era. Egli era
Tal lo condanno. Il grado, a cui lo innalzi,
lo trova reo, nel suo delitto il trova
Rispetta il giusto e l’amor tuo correggi.
Venceslao vive e tu perdesti il padre.
Muore il tuo sposo e il tuo rossor pur vive.
Cotesta, o re, cotesta è la tua fede?
o due volte ingannata alma meschina!
or mi sovvien. Ch’ella si adempia è forza.
Ma la giustizia offesa? Il giuramento?
Mora il reo figlio, mora).
All’onor tuo soddisfarassi. Ernando.
al colpevole figlio; e fa’ che sciolto
là sia condotto ove la gioia ha in uso
di festeggiar le regie nozze.
che nunzia io sia del lieto avviso al prence.
Darò i cenni opportuni, onde a te s’apra
sarai sua sposa e serberò la fede.
Lieta gode quest’alma e più non chiede.
il fin qual fia? Sarà pietoso o giusto
Temo ancor la pietà di quel gran core.
Ma tu che pensi, Ernando? Vendicarti?
Vendicare l’amico ed Erenice?
ti voglio, Ernando. A preservar si attenda
l’erede alla corona, il figlio al padre.
diam lagrime, non sangue. Andiam gli sdegni
l’alma s’impieghi e all’amor suo non pensi.
io tra marmi ristretto? Io ceppi al piede?
Ch’io mora? È tanto grave il mio delitto?
Ah, sì. Per me cadde il fratel. Ma cadde
Volea morto il rival. Ne ha colpa amore.
sei mia gran colpa. O di Erenice, o troppo
bellezze a me fatali, io vi detesto.
Son misero, son reo, son fratricida,
perché vi amai. Sono spergiuro ancora,
spergiuro ed empio a chi fedel mi adora.
Lucinda a me! Per qual destino, o dei?
(Secondi amor propizio i voti miei).
in bocca sì crudel troppo soavi;
nunzia della mia morte e spettatrice.
d’averti iniquo, o mia fedel, tradita,
sul labbro tuo morte non è ma vita.
Che cangiamento è questo?
chieggo la pena mia, non il perdono.
non vo’ da te che l’amor tuo. Del primo
e la vendetta mia sia l’abbracciarti.
Prenci, non più dimore. Il re vi attende.
l’alto voler ne intenderai.
vicino a te, mio bene, i mali miei.
Io ti ottenni il perdon. Temer non dei.
Né sciolga un sì bel laccio altri che morte.
tutta in pianto Lucinda, or tutta in festa.
Passa a lieto imeneo da feral palco
il condannato principe. E diremo
giri le umane cose instabil sorte?
Eh, d’instabilità seggio è la corte.
chiuder dovrai le ceneri adorate,
ti manca il più bel fregio. Il cor vi manca
di Casimiro. Io vel porrò...
a te viene un amico ed un amante
ad unir le sue pene al tuo dolore.
Di vendetta si parli e non d’amore.
quale a te si convien, quale ad Ernando,
Quanto mi piace l’odio tuo!
E pur ritorni a ragionar d’amore.
né la tua fé né l’amistà di Ernando,
non dee spiacerti. I mali tuoi nol fanno
più ardito e baldanzoso. Egli è ben forte
E s’egli è tal, l’accetto.
Disperato è anche il mio.
Andiamo. Io più di un seno
ti additerò dove infierire.
fia che Erenice a l’amor tuo dà fede.
Nozze più strane e meno attese e quando,
Polonia, udisti? Onor le chiede. Impegno
ne serve all’apparato e le festeggia.
Tu ciò che imposi ad affrettar t’invia.
Vi figura il pensiero e non v’intende.
E qui ti attende il padre.
son padre ancora. Allor che morte attendi,
agl’imenei t’invito e ti presento
fuorché un tal dono. Abbilo a grado. Il chiede
tuo dover, mio comando e più sua fede.
la sorte mia? Dovea morir...
Pensa or solo a gioir. Tua sposa è questa.
non perché tu ma perché amor lo impone;
non mi sposa il timor ma la ragione.
Or questa gemma (Dà un anello a Casimiro che con esso sposa Lucinda)
confermi a lei la marital tua fede.
lasciar si denno in libertà.
all’onor tuo si è soddisfatto?
tutta lieta è quest’alma e più non chiede.
Egli è tuo sposo ed io serbai la fede.
Addio. Null’altro, o sposi,
qui oprar mi resta, or che la fé serbai.
Deggio altrui pur serbarla. Oggi morrai.
Oggi morrai! Dirlo ha potuto un padre?
Lucinda udirlo? Oggi morrai! Spietato
giudice, iniquo re, così mi serbi
Mi dai lo sposo e mel ritogli? O tutto
ripigliati il tuo dono o tutto il rendi.
Se mi sei più crudel, meno mi offendi.
E tu che fai? Che non ti scuoti? Il cenno
udisti di un tiranno e non di un padre.
la vita che ti diede e romper tutti
gli ordini di giustizia e di natura.
attonito la tua, la mia sciagura?
che far, che dir poss’io? Veggo i miei mali
Penso al tuo duolo e ti compiango. O sposa,
Meco ho guerrieri, ho meco ardir, ho meco
Ecciterò ne’ popoli lo sdegno;
Disperati consigli amor ti detta.
ch’esser può mio delitto e tuo periglio.
Il re mi è padre, io son vassallo e figlio.
Serbi il nome di figlio a chi ti uccide.
Neghi il nome di sposo a chi ti adora.
porterollo agli Elisi, ombra costante;
e là dirò: «Son di Lucinda amante».
la morte tua. Vanne, l’incontra, all’empio
carnefice fa’ core e il colpo affretta.
Ma sappi, io pur morrò. Mi avrai ben tosto
dal ferro uccisa e dal dolor. Tu piangi?
Ti sbigottisci? Il mio morir tu temi?
Né temi il tuo? Crudel pietade! Priva
mi vuoi d’alma e di core e vuoi ch’io viva?
che ti chieggo in morendo. Addio, mia sposa,
la pietà di quel pianto. Andrò men forte,
se più ti miro, andrò, mia cara, a morte.
Correte a rivi, a fiumi, amare lagrime.
Più non lo rivedrò. Barbaro padre!
Miserabile figlio! Ingiusti numi!
Su, lagrime, correte a rivi, a fiumi.
Ma che giova qui ’l pianto? All’armi, all’armi.
tutto ardisci, o Lucinda. Apriti a forza
nella reggia l’ingresso. Ecco già parmi
di dar vita al mio sposo e di abbracciarlo
fuori di ceppi... Ahi, dove son? Che parlo?
Tutta cinta è dal popolo feroce
la sarmatica reggia. Ognun la vita
Teco fra lor passai né fu chi il guardo
torvo a noi non volgesse. Ancor nel petto
No no, mora il crudele e pera il regno.
Sì, queste son le regie stanze.
cerco vendetta e non infamia.
che troncherà del figlio il capo, ha prima
nel sen del padre a ripassar. Che importa
da’ popoli difeso, il padre austero
custode delle leggi. Ah, dove andranno
l’ire a cader? Su te cadran, su te,
misera patria e miserabil re.
Al sol pensarvi io tremo,
sudo, mi agghiaccio. Io primo offeso, io primo
rinunzio alla vendetta e getto il ferro.
nel tuo dolor la tua ragione ascolta.
Perdona a Casimiro, anzi perdona
alla patria, al monarca, alla tua gloria.
meglio noi placherem l’ombra diletta.
Ernando, ahi, qual perdon!... Non so. Non posso...
S’apre l’uscio real. Vanne ed implora
Vo’ pensar meglio ancora. (Si parte)
da quel che ti sperai! Itene e i lieti
apparati di amor cangiate, amici,
in funeste gramaglie e in bara il trono.
Più Venceslao, più genitor non sono.
incerto fra la vita e fra la morte,
Sorgi. (Anima mia, sta’ forte).
Nelle tue mani è il mio destin.
la tua pietà sono di vita indegno.
Il ferro strinsi e fui spietato.
Morto Ernando volesti, il duce invitto.
E del colpo l’error fu più delitto.
L’ho ma le taccio, o sire.
i trofei del mio braccio a pro del regno.
Il Mosco debellato, il vinto Sveco
parlan per me. Non ti ricordo il dolce
vincolo di natura. Ella in te parla.
Dirti potrei che del germano ucciso
la notte è rea, più che il mio braccio. Ernando
ma rivale il credea. L’amor discolpa
Sol la maggior mia colpa è il tuo dolore.
Se discolpe cercassi, io sarei ’ngiusto.
Sarò più reo, perché tu sia più giusto.
(Vien meno il cor). Dammi le braccia, o figlio.
Vanne ma generoso. Un cor vi porta
degno di re che non imiti il mio.
A me sol lascia i pianti, a me i languori;
e insegnami costanza, allor che muori.
Importuno dover, quanto mi costi!
Erenice, ad affrettar se vieni
del figlio miserabile la pena,
risparmia i voti. A te della vendetta
Il figlio condannato assolve il padre.
la patria in armi, la pietà in esiglio.
basti il mio pianto; e ti ridono il figlio.
No. Con la tua pietade io non mi assolvo.
se l’esempio del re non le corregge.
mi giungi, amico. In sì grand’uopo io cerco
Per chieder grazie al regio piè mi porto.
Tutto promisi e tutto deggio. In onta
del mio dolor me ne sovviene, Ernando.
Di mie fatiche il guiderdon ti chieggo.
N’han la tua fede i voti miei.
In ciò non re ma debitor mi sei.
Tutto a te deggio e regno e vita. Solo
la mia giustizia, l’onor mio, la sacra
custodia de le leggi a te non deggio.
(Principe, al tuo destin scampo non veggio).
Tosto, signor, cingi lorica ed elmo,
di acciar la destra e di costanza il petto.
già finii di esser padre.
la corona perdesti e non il figlio.
la milizia, la plebe ed il Senato.
fugati i tuoi custodi, al suol gittati
i funesti apparati e del tumulto
Ognun freme; ognun grida; e se veloce
freno si cerca al popolo feroce.
dover, pietà, legge, natura, a tutti
soddisfarò, soddisfarò a me stesso.
ciò che può la pietade in cor di padre,
ciò che può la giustizia in cor di re.
non per viltà ma perdonai per gloria.
Duci, soldati, popoli, Lucinda,
qual zelo v’arma? Qual furor vi move?
vivrò più reo? Dovrò la vita al vostro
Dopo un fratel con minor colpa ucciso,
ucciderò con più mia colpa il padre?
traetemi al supplizio; e quando ancora
sì, questo acciar trapasserammi. In pena
io il carnefice sol sarò a me stesso.
mio solo amor, mio solo affanno, in questa
raro esempio di fé, sposa adorata.
depongo ancor la spada e piego il capo.
popol fedel. Zelo indiscreto il mosse,
Il suo grado e il suo amor fan le mie veci.
Di me disponi. In me le leggi adempi.
Fratricida infelice io morir posso,
non mai figlio rubel, non reo vassallo.
Popoli, da quel giorno, in cui vi piacque
pormi in fronte il diadema, in man lo scettro,
ministro delle leggi e non sovrano.
con ingiusta pietade e regno e vita.
punir nel figlio. Il condannai. La legge
padre, non re mi troverà natura.
Qual re avesti, Polonia, il raro, il grande
atto, per cui lo perdi, ora t’insegni.
Volermi ingiusto è un non voler che regni. (Venceslao si cava la corona di capo in atto poi di porla su quello di Casimiro)
far cader la tua testa o coronarla.
Mora il figlio e tu regna.
il popolo ti acclama. Io reo ti danno
assolverti potrai con la tua mano. (Venceslao corona il figliuolo al suono di timpani e di trombe)
O di giusta pietà nobile esempio!
Per un figlio acquistar, lascio il diadema. (Preso per mano Casimiro, scende con esso dal trono)
in deposito, o padre, e non in dono.
le leggi tue pubblicherò dal trono.
Io pure in te, novo monarca, adoro
l’alto voler del tuo gran padre.
non eredito re gli odi privati.
Ti accolgo, amico, e tu, Erenice, in lui
se nel fratello un te ne tolsi.
la nobil salma e, per dar luogo ad altro
troppo recente è la ragion del pianto.
nell’amarti non sia la mia speranza.
Tutto speri in amor merto e costanza.
solo per te mi son la vita e il regno.
che parmi di sognar, mentre ti annodo.
Col tuo giubilo, o patria, esulto e godo.
destinate per me, sieno tue glorie.
Oggi per te rinasco. Oggi più degno
comincio e nova vita e novo regno. (Casimiro, presa per mano Lucinda, ascende sul trono)
Sì, tempo e sorte, amore e fede, invitto
ti rendano felice; e sia il tuo nome,
men però del tuo merto illustri applausi,
nome d’ilarità, nome di gloria.
spezzi l’adunca falce. Immobil sieda
la fortuna al tuo piede e al cerchio avvolga
di sua instabile rota il crine errante;
e l’amore e la fé, che son de’ regni
non da timor, non da interesse astretti
ma di dover colmi e di zelo e senza
que’ bassi affetti, onde suol cinta intorno
per sua antica sciagura andar grandezza,
O voti fortunati! Ecco serena
luce a destra balena. Ecco felici
all’impero di Carlo i giusti auspici.