Scipione nelle Spagne, Barcellona, Figueró, [1710]

 SCENA VII
 
 SCIPIONE con seguito e detti
 
 SCIPIONE
 Principessa, a’ tuoi lumi
 sì odioso son io che men ti sembra
180grave il morir? Con qual oltraggio un tanto
 dolor io meritai sul tuo periglio?
 Perdona, o Sofonisba;
 se in me temi un nemico, hai cor ch’è ingiusto,
 se in me abborri un amante, hai cor ch’è ingrato.
185Son Scipio e benché cinto
 di usbergo il sen, benché di allor la chioma,
 sento che posso amarti
 senza oltraggiare o Sofonisba o Roma.
 
    Care labbra, voi tacete;
190ma tacendo ben comprendo
 che per voi parla il rigor.
 
    Voi almeno rispondete,
 luci belle, vive stelle,
 donde il foco accende amor.
 
 SOFONISBA
195Signor, perdita lieve era a’ tuoi fasti
 quella di un’infelice.
 Volli morir; ma il mio destin ne incolpa;
 e fra le mie sciagure
 io non conto, o Scipion, l’esser tua schiava.
200Pur vedi a quali estremi
 mi ha ridotto il rigor di un’empia sorte,
 che di fierezza accuso
 sin la pietà di chi mi tolse a morte.
 SCIPIONE
 Ma l’amor mio nol lasci
205senza mercé né senza gloria. Vieni,
 qualunque sii, fra queste braccia, amico.
 LUCEIO
 Gli amici di Scipione
 sono gli eroi; né di quel sen gl’amplessi,
 ove palpita un cor tutto grandezza,
210merta uom di sangue e più di fama oscuro.
 Bacciar quel piè, che preme
 fasci di palme, assai mi fora, o duce.
 Né a l’opra mia dei maggior premio. Io tutto
 feci per Sofonisba,
215nulla per te. Lei salva,
 trovo la gloria mia, la mia mercede.
 Chi per te nulla oprò nulla ti chiede.
 SCIPIONE
 Sensi sì generosi
 non lo additano uom vil. Qual sia, ti è noto,
220il tuo liberator?
 SOFONISBA
                                Guerriero ispano,
 nulla di più.
 LUCEIO
                          Nacqui fra’ boschi. Il mio
 nome è Tersandro; e ’l primo
 ufficio de la destra
 fu romper glebe e ’l maneggiar vincastri.
225Quindi in usbergo e scudo
 cangio marra ed aratro e di Luceio
 sotto l’insegne a militar mi spinge
 desio di fama. Il veggo
 cader sul campo e trionfar del nostro
230il destino di Roma.
 Sopraviver mi sembra
 pena e viltà. Volgo a Cartago il piede
 e cerco i tuoi sol per morir da forte.
 Salvo qui Sofonisba
235ma la salvo a Luceio. In quel bel core
 vive ancora di lui
 e la parte più cara e la migliore.
 SCIPIONE
 Quel magnanimo cor, che su le labbra
 ti favella, o Tersandro,
240e quel nobile aspetto in cui t’ammiro
 smentisce i tuoi natali o gli condanna.
 Qualunque sii, t’apro il mio core. In prezzo
 de la vita serbata a Sofonisba
 la nemistà di Roma a te perdono,
245ti voglio amico e libertà ti dono.
 SOFONISBA
 (Salvo è Luceio e fortunata io sono).
 LUCEIO
 I doni di Scipione
 son grandi, è ver; ma di Tersandro il core
 è di loro maggiore.
250Il perdono tu m’offri e non lo voglio.
 Volerlo è un atto vile
 e viltà mai non cape in petto ispano.
 La libertà mi rendi e non l’apprezzo.
 Non è mai di conforto,
255a chi oppresso è da mali, un mal di meno.
 L’amistà mi proponi e non l’accetto.
 Ella non è mai frutto
 di volgar prezzo e di sì pochi istanti;
 so qual tu sei; ma sappi
260che di Luceio un suddito leale
 esser non puote amico al suo rivale.
 SCIPIONE
 (Ardir che m’innamora
 sin con l’offese). Orsù, Tersandro, vieni
 meco in Cartago. In testimon ti voglio
265de l’opre mie per meritarti amico.
 LUCEIO
 Seguirò il mio destin più che i tuoi passi.
 (Così sarò di Sofonisba al fianco).
 SCIPIONE
 Non difficile impresa
 mi fia quel cor, benché nemico e rio;
270la fierezza del tuo più mi spaventa,
 ingiusta Sofonisba.
 SOFONISBA
                                      Odimi, o duce,
 quando fia che Tersandro
 mi dica: «Ama Scipione, io tel comando»
 il mio cor cesserà d’esserti ingiusto.
275Nel suo voler, il mio voler rimetto.
 SCIPIONE
 Tu mio giudice il rendi ed io l’accetto.
 SOFONISBA
 
    Mai non dirà quel labbro
 ch’io serva al tuo desio
 e manchi al dover mio
280l’alta mia fede.
 
    Se mi sia legge o gloria
 de l’idol mio diletto
 l’affetto e la memoria
 egli ben vede.