L’Engelberta (Zeno e Pariati), Venezia, Rossetti, 1708 (Engelberta)

 Sire,
    un grande ardire egli è stato IL prendere per soggetto di questo componimento dramatico un’Engelberta, vale a dire una delle più virtuose principesse che sien mai sedute sul trono de’ cesari ne’ secoli oltrepassati. Ma un’assai maggiore temerità si è l’averlo dedicato alla real maestà di Federigo IV, re di Danimarca e Norvegia, cioè a dire ad uno de’ più grandi e de’ più rinomati monarchi che in questo secolo abbia destinati la provvidenza al governo de’ popoli e all’ammirazione del mondo. Infatti le imperfezioni, con le quali si sarà adombrata l’immagine di quell’augusta eroina, avranno in parte la lor difesa, poiché la distanza del tempo ce ne ha scemata l’idea e difficilmente può giugner l’arte all’imitazione del vero, dove l’esemplare è lontano. Tentare all’opposto di avvicinarsi alla vostra reale persona, o con una offerta sì picciola o con lodi sì disuguali, non potrà certamente riceversi nell’opinione degli uomini, senzaché se ne consideri la sproporzione e se ne accusi per troppa audacia la scelta. E per dir vero, siccome, o sire, la vostra venuta in questa Serenissima Dominante ha riempiuti i cuori di una straordinaria allegrezza e fatto nascer nell’animo di ciascheduno il desiderio lodevole di conoscer sì da vicino un monarca di tanta grandezza e di tanto merito, così la vostra presenza ha smentito la fama che, per quanto abbia detto di voi, ne ha però detto assai poco; e ci ha fatto conoscere con quanta ragione si pregino di avervi per lor sovrano tante nazioni, che fanno incessanti voti per voi, e per lor protettore tante virtù che promovete nel vostro regno, con la beneficenza non meno che con l’esempio. Innanzi del vostro arrivo, generalmente sapevasi con quanto augumento di gloria sostenete il decoro della famiglia oldemburgica, cioè a dir la vostra, che già mille e più anni derivata dal celebre Vitichindo, l’ultimo che nella Sassonia portasse il nome reale, diede poi, nella lunga serie de’ tempi, tanti eroi e principi alla Germania, quanti nel suo sangue ella contò successori. Sapevasi che, già due secoli e mezzo ascesa ella sul trono di Danimarca, accrebbe tanto di lume a quella gloriosa corona che questa, quasi gelosa di perderlo, volle che divenisse retaggio del vostro sangue ciò che per l’addietro non era che donativo ed arbitrio dell’elezione. Sapevasi finalmente che la Danimarca, dal giorno in cui principiaste a regnare, risentì vivamente gli effetti della vostra saggia condotta; voi ne diveniste ad un tratto e la fortuna e l’amore, rendendo a voi ciascheduno giustizia, siccome a ciascheduno voi la rendete; la guerra si ritirò spaventata fuori de’ vostri confini; vi rientrò la pace con tutti que’ beni che in un ben regolato governo le vanno a fianco; e la costante felicità de’ popoli a voi commessi fu il solo pensiero della vostra grandezza e ’l solo impegno del vostro potere. Ma dopoché abbiamo la contentezza e l’onore di riverirvi e di ammirarvi così da presso, oh quante virtù abbiamo in voi ravvisate che prima non erano giunte perfino a noi; ed appena possiamo ormai concepire a qual alto grado di perfezione arrivi la vostra grand’anima, anche dopo che ne siamo rimasti convinti dal testimonio degli occhi e dall’uso del godimento. Avete bensì potuto allontanarvi dal regno; ma quelle doti, che vi fanno essere un incomparabil monarca, son qui venute con voi, cosicché ognuno confessa che, quando ancora non foste quello che siete, sareste degno di esserlo e che le insegne reali possono ben dare un maggior risalto alla vostra maestà, non mai un maggior titolo al vostro merito. In tal maniera può dirsi appunto di voi ciò che suol dirsi di certe opere più preziose della natura e dell’arte che, per quanto si ammirino da lontano, non mai giungono pienamente a capirsi e, scoprendo a chi da vicino le esamina nuove e sempre maggiori bellezze, né mai disgustano l’idea né mai saziano l’attenzione. Ma se non è possibile, o sire, l’avere una piena conoscenza di voi per soprabbondanza di merito, come sarà mai possibile l’esporne un compito ritratto con povertà di talento? Per dedicarvi un’Engelberta, può avermi fatto coraggio la vostra benignità; ma per tentare le vostre lodi, mi ha da servir di spavento la vostra grandezza e la vostra moderazione, quella perché tanto esige da chi l’ammira, questa perché sì poco pretende da chi la rispetta. Non si offenda dunque la prima con l’impotenza, non l’altra col tentativo; e si contenti il mio profondo rispetto di rassegnarsi, a’ piedi di vostra reale maestà, umilissimo, divotissimo, riverentissimo servidore ossequiosissimo.
 
    N.N.