L’amor generoso, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA VII
 
 ALVILDA
 
 ALVILDA
 
165   Penso, bramo; e non intendo
 né la brama né il pensier.
 
    Formo un voto e poi mi pento;
 gli do bando e lo richiamo;
 e lo stesso pentimento
170è il martirio del voler.
 
 Che più ti affanni, Alvilda? Oggi tuo fia
 il soglio di Frilevo,
 o dono del suo amore o tua conquista.
 Sarai moglie... Ahi, qual nome?
175Moglie? O pigre dimore
 del mio sposo infedel, già vi perdono.
 Sinché moglie non sono,
 con innocenza amar mi lice ed amo.
 Amo? Ma chi? Con quale spene? O bella
180immagine adorata,
 escimi alfin di cor, lasciami in pace.
 Tu nel patrio mio ciel, caro Sivardo,
 quasi fulmine ardente,
 strisciasti; io vidi ’l lampo e sentii ’l colpo,
185lampo che mi abbagliò, colpo che m’arse.
 Questo è il natio tuo suol. L’aure son queste
 che da te respirate
 son mantici alla fiamma onde tutt’ardo.
 O Sivardo, Sivardo,
190che mi giova l’amarti,
 s’esser deggio di altrui né tua esser posso?
 O di regno, o di stato
 tirannica ragion, giunta a dar leggi
 sino alla libertà de’ nostri affetti,
195quelle che unisci in tirannia del core
 quando furono mai nozze di amore?
 
    Lieta canta e dolce ride
 la romita tortorella,
 la innocente pastorella.
 
200   Palesando al suo diletto
 alla fonte o nel boschetto
 l’amorosa sua facella,
 ride e canta e questa e quella.