Ambleto (Zeno e Pariati), Venezia, Rossetti, 1705

 ARGOMENTO
 
    Orvendillo, re di Danimarca, da Fengone, che men di ogni altro il dovea, a tradimento fu ucciso. Il traditore occupò la corona e, mancando di fede ad Ildegarde, principessa danese con cui per l’addietro passava amori, sposò a forza la regina Gerilda, moglie di Orvendillo e madre di Ambleto, il quale, non sapendo come fuggire la morte che gli preparava il tiranno, si finse pazzo. Sospettò questi del vero e tentò vari mezzi per assicurare i suoi dubbi. Fra le molte prove che egli ne fece, eccone le tre principali.
    La prima fu di scegliere una bellezza delle più singolari che fossero nella sua corte, dando ordine che questa fosse condotta nel più folto di un bosco, dove Ambleto era solito a ritirarsi, con animo che, alla veduta di questa, fosse egli per dar qualche segno di sua finzione; del che dovevano esservi testimoni in quella selva nascosti. Fingesi che l’ordine ne fosse dato a Veremonda, principessa di Allanda, amata dal principe durante la vita del padre e promessagli in isposa, la quale, dopo la morte del re Orvendillo, ritiratasi ne’ suoi stati, avea mossa guerra al tiranno; ma vinta e presa da Valdemaro, generale di Danimarca, era stata da lui, che n’era divenuto amante, condotta come in trionfo alla corte.
    Svanito il primo disegno, poiché Ambleto, cautamente avvertito che vi era chi lo ascoltava, continuò ne’ suoi finti deliri, si venne al secondo esperimento che fu con la regina sua madre. Simulò Fengone di voler imprendere un viaggio lontano; e lasciata la reggenza dello stato a Gerilda, fece nelle stanze di questa nascondere un suo fidato, perché notasse i ragionamenti del figliuolo con la madre che probabilmente ve lo avrebbe fatto condurre per desiderio di vederlo e di abbracciarlo, il che peraltro non le veniva permesso. Anche questo artificio andò a vuoto. Il principe, avvisato di ogni cosa (fingesi da Siffrido, consigliere in apparenza fidatissimo di Fengone ma internamente suo capitale nemico), entrò nella camera della madre e, mostrando in prima di non conoscerla, qua e là raggirandosi per rinvenire il nemico nascosto e finalmente scopertolo, con più ferite l’uccise. Indi conoscendo che poteva parlare con sicurezza, rivoltosi alla regina, le manifestò senz’altra finzione il suo animo e, rinfacciandole la sua sofferenza, la trasse agevolmente ne’ suoi sentimenti.
    L’ultima prova fu nelle allegrezze di un convito. Il tiranno, che meditava di ubbriacare il principe per iscoprirne l’interno col vino, restò da lui medesimo con una bevanda alloppiato e per ordine di Ambleto fu poco dopo, in pena de’ suoi tradimenti, fatto morire.
    Tanto riferisce Sassone Gramatico, antico scrittore danese, e dopo lui ne raccontano il fatto il Pontano e ’l Meursio nelle loro storie di Danimarca. La scena si rappresenta in Letra, antica residenza de’ monarchi danesi, della quale oggidì non ci è rimasto vestigio.
    Non paia strano ad alcuno che vi si nomini qualche deità de’ Greci col vocabolo greco. I Danesi, durante il loro gentilesimo, le avevano pure in venerazione, benché con diverso nome, poiché Giove presso di loro chiamavasi Toro, Marte appellavasi Odino, eccetera. Del che si possono consultare Tommaso Bartolini il Giovane, Olao Vormio ed altri scrittori settentrionali. Qui si è stimato bene servirsi del nome più conosciuto, per più chiarezza e per isfuggire la confusione di vocaboli così strani.