Artaserse (Zeno e Pariati), Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA VIII
 
 CLEOMENE e poi ASPASIA
 
 CLEOMENE
 Qual goder può sperarsi
 con la colpa nel sen? Regno, cui base
295sieno stragi e rovine, io ti detesto.
 Aspasia, Aspasia. Eccola appunto. Oh dei!
 Ragion vacilla e voi ne siete i rei.
 ASPASIA
 Che fra l’attico avesse e il perso impero
 l’ira a deporsi ed a cangiarsi ’l cieco
300furor dell’armi in amichevol pace,
 io il credea, Cleomene;
 ma ch’io stessa, io di Ciro
 vedova sconsolata, esser dovessi
 di questa pace vittima e trionfo,
305io consorte ad un figlio
 di chi ’l dolce consorte, oh dio, mi uccise!
 e che di questo abbominevol nodo
 il pronubo tu fossi,
 tu che mi amasti o mel fingesti almeno,
310oh questo sì che m’empie
 d’ira, d’orror, di maraviglia il seno.
 CLEOMENE
 Regina, a che mi accusi
 di un mal ch’è pena mia? Di te dispose
 il Senato di Atene.
315Ubbidì Cleomene.
 ASPASIA
 Duce, in Atene onoro
 la patria mia; ma da che fui regina,
 libero io sola ho del mio cor l’impero.
 Io ne’ principi figli
320del crudele Artaserse
 odio il sangue, odio il padre, odio un nimico
 che sposo e regno e libertà mi tolse.
 Alle nozze di Aspasia
 servir dee l’odio e non l’amor di guida.
325E quando altro non possa,
 saprò tormi all’oltraggio
 e di Stige varcar l’onda fatale,
 ombra non vile ed al mio sposo eguale.
 CLEOMENE
 (Innocenza, ragion, chi ti sostiene?)
330Tanto implacabil sei?
 ASPASIA
                                          Va’, Cleomene.
 CLEOMENE
 
    Tornando a vagheggiarvi,
 sperai qualche conforto al mio martoro,
 occhi dell’idol mio che tanto adoro.
 
    Ma irati in rimirarvi,
335foste all’afflitto cor
 oggetto di dolor, non di ristoro.