Artaserse (Zeno e Pariati), Venezia, Rossetti, 1705

 SCENA VII
 
 AGAMIRA e CLEOMENE
 
 CLEOMENE
 Quanto sono, Agamira,
190comuni i nostri casi! Oggi il destino
 a Cleomene Aspasia, a te Artaserse
 invola! Ah! Se spergiuro hai tu l’amante,
 se del regnar perdi la speme...
 AGAMIRA
                                                         Ah! Questa,
 una perdita è questa
195atroce, inconsolabile, funesta.
 O fati avversi! O soglio!
 Soglio da me sinora
 con l’amor meritato e con la fede,
 posseduto co’ voti e con la speme,
200oggi così lasciarti? Ed io soffrirlo?
 Io partir? Cleomene...
 No no, svelisi il grande
 arcano del mio cor. Dario, mio figlio,
 son tue quest’onte, i miei furori il sono.
205Io a te la vita, a me tu serba il trono.
 CLEOMENE
 Io Dario? Io figlio tuo? Nel duol vaneggi.
 AGAMIRA
 No, non vaneggio; io ti son madre e quello,
 quello, ch’in sen ti bolle, è sangue mio.
 Ed oh gran parte non vi avesse ancora
210quel de l’iniquo padre
 che alor meglio potrei sperar negletta,
 figlio, da l’amor tuo la mia vendetta.
 CLEOMENE
 Gran cose esponi.
 AGAMIRA
                                   E grandi ancor ne udrai.
 Sinché visse Statira, io d’Artaserse
215fui donna e la più cara.
 Né con rossore il dico,
 perché illustre è ’l fallir, quando dal trono
 su l’error si riflette un qualche raggio.
 Mi lusingai d’allor che in questa destra
220de l’Asia si adorasse un dì lo scettro.
 L’empio ’l giurò; da lui,
 sinché ad altra era sposo, ebbi speranze.
 Adesso l’incostante
 per consorte mi sprezza e per amante.
 CLEOMENE
225Grave offesa! Ma come
 io fuor del ciel natio? Perché in Atene?
 Perché di Cleomene il nome porto?
 AGAMIRA
 Tra mille donne al regio amore elette,
 una sola è regina e sol feconda
230di successori il trono. Ogn’altro parto
 si stima ignobil prole
 e, s’è parto maschil, si ancide in cuna.
 Così comanda ne la persa corte
 troppo severa gelosia di regno
235che paventa che un giorno i falsi figli
 non muovan guerra al vero sangue e alora,
 del regio nome il vecchio onor macchiato,
 non sieda in trono un successor bastardo.
 Io te, madre pietosa, appena nato
240tolgo a la dura legge;
 ti consegno ad Arsace, il mio fedele
 che ti guida in Atene. Ivi crescesti
 col nome di Cleomene,
 da le vittorie tue reso già illustre.
245Dario, viscere care, ecco una madre
 la più amorosa e la più afflitta insieme.
 La mia gloria tu sei, tu la mia speme.
 CLEOMENE
 Cieli! Quai casi ascolto?
 AGAMIRA
 Ecco quella che un tempo
250leggi impose a la Persia e al rege istesso.
 Misera! Or dov’è ’l regno? Ove i vassalli?
 Perdei l’onore, il soglio e la vendetta.
 Ma forse ancor nulla perdei né ancora,
 te vivo, te presente,
255l’ingiuria soffrirò del duro esiglio.
 Odimi; ho partorito; e tu sei figlio.
 CLEOMENE
 Madre, questa è la prima
 volta che il dolce nome esce del labbro;
 son le nostre sciagure acerbe e grandi;
260ma che far puossi?
 AGAMIRA
                                     Un colpo,
 un colpo che sia degno
 del tuo ardir, del mio sdegno.
 Mora l’infido sposo e gli empi figli.
 Eccoti la vendetta.
265Tu lo devi eseguire. Ecco il ministro.
 CLEOMENE
 Io del sangue del padre e de’ fratelli
 bruttarmi iniquamente?
 E mi spinge e mi sprona
 una che pur è sposa, una che è madre?
 AGAMIRA
270Madre infelice e ripudiata sposa,
 dimando una vendetta utile e giusta.
 E tu tremi? E ti arresti, anima vile?
 CLEOMENE
 Non mi arresta viltà; ragion mi ferma.
 AGAMIRA
 Giusta ragion mai non protegge un empio.
 CLEOMENE
275Protegge un empio ancor, quand’egli è padre.
 AGAMIRA
 Chiami padre un carnefice? Fratelli
 color che a te di pugno
 rapiscono lo scettro e che fra poco
 ti rapiranno Aspasia? Aspasia che ami?
280Diman, diman, se tardi, ella fia sposa.
 CLEOMENE
 Ciel!
 AGAMIRA
             Che risolvi?
 CLEOMENE
                                     O dio! Donami ancora
 qualche momento. Il cor non può sì tosto
 perder la sua innocenza.
 AGAMIRA
 Sì sì, ti lascio a consultar te stesso.
285Vanne ad Arsace. Ei pure
 ti assicuri mio figlio
 e d’aita ti serva e di consiglio.
 
    Mostrami un cor più forte,
 se brami di goder.
 
290   L’inutile rimorso
 remora è de la sorte
 e tarlo è del piacer.