Aminta, Firenze, Vangelisti, 1703

 SCENA XIII
 
 EURIDICE, CELIA, SILVIO ed ELPINO
 
 EURIDICE
 Celia, rimanti; ogn’altro parta.
 SILVIO
                                                          Al cenno
1605ubbidisco. (Finge partire)
 ELPINO
                        M’involo. (Parte)
 SILVIO
 (Ma qui mi fermo inosservato). (Si ferma in disparte)
 EURIDICE
                                                             Sole
 siam, ninfa. In questo punto
 s’agita il tuo destino.
 Cieca se nol conosci,
1610folle se lo disprezzi.
 Gran venture a te porge
 la tua beltà, l’amor di Adrasto. Ah! Vedi,
 non irritar li dei col disprezzarle.
 Diventa il ben perduto un gran tormento
1615e la nostra fortuna è un sol momento.
 CELIA
 Se, regina, al mio labro
 questa sincera libertà concedi
 che vien dal cor...
 EURIDICE
                                   Favella.
 CELIA
 Dirò; sul generoso amor di Adrasto
1620qualor fisso la mente,
 mi perdo e mi confondo. A lui son grata
 quanto mi lice; e appieno
 il suo gran merto e ’l mio dover mi è noto.
 Ma nel grato desio
1625lo rispetto, non l’amo;
 né volendo il potrei;
 tutti ha Silvio in balia gli affetti miei.
 EURIDICE
 Non nascesti mia suddita né posso
 stender su te l’autorità del cenno.
1630Ma Silvio a te non nacque.
 Sovra il suo cor mi diè natura impero
 più che di sua regina;
 e per semplice ninfa arder non lice
 ad un figlio d’Aminta e di Euridice.
 CELIA
1635Silvio è pastor?
 EURIDICE
                               No, Celia.
 In lui mi rende il cielo
 il perduto Alessandro e ad Alessandro
 piacer non dee l’amor di Silvio. Ei prenda
 col grado anco altro core
1640e prence oblii ciò che adorò pastore.
 CELIA
 Silvio, già morto a Celia,
 non è più Silvio. Egli è dover che ancora
 Celia non sia più Celia e a Silvio mora.