Lucio Vero, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA PRIMA
 
 LUCIO VERO e CLAUDIO
 
 LUCIO VERO
410Ecco il giorno, in cui devo
 perder impero o pace. Oggi convienmi
 nella mia destra assicurar lo scettro
 con isposar Lucilla;
 ma lasciar Berenice, o dio! non posso.
415Troppo è l’impero, è ver, ma per mia pace
 troppo il bel di quegli occhi ancor mi piace.
 Claudio, che mi consigli? Il cor t’apersi.
 CLAUDIO
 Signor, poiché al mio zelo,
 più che all’ossequio mio, chiedi ch’io parli,
420lascia ancor che ti spieghi
 con libertà miei sensi. Un buon consiglio
 se si dà con timore, il meglio tace;
 se si dà con ardir, si fa periglio.
 LUCIO VERO
 Parla né dubitar che il dir m’offenda.
 CLAUDIO
425Bella assai la tua fiamma io miro in fronte
 splender a Berenice. E degni sono
 che un monarca gli adori i suoi begli occhi.
 Ma, signore, ella è sposa, ella è regina.
 Altra e maggior consorte,
430altro e più vasto impero il ciel ti serba.
 Gl’imenei di Lucilla
 già ti ammettono al pondo
 dell’imperio di Roma, anzi del mondo.
 LUCIO VERO
 Il consiglio è fedel ma troppo è crudo.
 CLAUDIO
435Pietosa è crudeltà, quando ella giova.
 LUCIO VERO
 Ma non quando ella uccide.
 CLAUDIO
 Cesare, ancor rifletti
 a che aspiri e che perdi.
 Deh lascia una beltà che te non cura,
440una beltà ch’è d’altri e il cui possesso,
 o rapito o concesso,
 ti farebbe infelice.
 LUCIO VERO
 Ch’io lasci Berenice?
 CLAUDIO
 Il regno o lei; né già sperar che Roma
445soffrir ti possa una straniera al fianco,
 coll’indegno ripudio
 d’una ch’è del suo sangue. A tant’oltraggio
 si risente e ne freme. Essa perduta
 ha ben la libertà, non il coraggio.
 LUCIO VERO
450Vedo il periglio e il temo;
 ma più temo il rimedio.
 CLAUDIO
 Coraggio, augusto.
 LUCIO VERO
                                     Io tento, Claudio, tento
 uscir di servitù ma poi non posso.
 Scuoto i miei ceppi e più ne sento il peso;
455agito la mia fiamma
 e più l’incendio cresce. Il mio cordoglio,
 quanto ha più di contrasto, ha più d’orgoglio.
 CLAUDIO
 
    Ama e rifletti
 che un regno può torti
460amor di beltà.
 
    Deh reggi gli affetti,
 che mal sa dar leggi
 quel cor che non l’ha.