Caio Fabbricio, Vienna, van Ghelen, 1729

 ARGOMENTO
 
    I Tarentini, non potendo resistere ai Romani, co’ quali erano in guerra, chiamarono in soccorso Pirro re di Epiro e di Macedonia. Non mancò fra loro chi si opponesse a tal deliberazione, rappresentando che ben tosto esso gli avrebbe costretti ad abbandonare la lor maniera di vivere tutta gioconda e festevole in altra affatto rigida e austera. Pirro, all’invito de’ Tarentini, de’ Sanniti e d’altri popoli della Magna Grecia, passò pertanto in Italia e, presa la lor protezione, dichiarò la guerra ai Romani. La prima cosa però che egli fece fu di proibire ai Tarentini le maschere, i teatri e gli altri loro divertimenti, obbligandoli, lor malgrado, a passare dalla mollizie e dal lusso all’osservanza della disciplina militare più esatta. Nel primo fatto d’armi ottenne una segnalata vittoria contra i Romani, guidati da Levino lor consolo e posti principalmente in disordine dall’urto degli elefanti. In questa battaglia un cavalier romano, da me chiamato Volusio, uccise Megacle, uno de’ più cari amici di Pirro, credendo in lui di aver ammazzato lo stesso re che in quel giorno avea cambiate le sue armi con quelle di Megacle e postogli indosso il proprio manto reale. Dopo la battaglia, Pirro mandò Cinea, tessalo di nazione e uno de’ più celebri oratori del suo tempo, in qualità di suo ambasciadore ai Romani, per indurli a pace con offerta di onorevoli condizioni che da essi non furono in verun modo accettate. Tornato a Pirro, Cinea fu immediatamente seguito dagli ambasciadori romani, capo de’ quali era Caio Fabbricio, senator di gran merito ma di una estrema povertà. Il re sperò di poterselo guadagnare con l’offerta che gli fece di una gran parte de’ suoi tesori che da lui generosamente furono rifiutati. La risposta di Fabbricio intorno alla pace esibita da Pirro è qual si legge nel dramma, dove pur si conforma all’istoria l’avviso datogli da lui che guardar si dovesse dal veleno che qualche suo confidente, della cui qualità non convengono gli scrittori, aveva deliberato di dargli con la speranza di riportarne dai Romani una gran ricompensa. Questa varietà d’opinioni m’ha fatto parer verisimile che tale insidia fossegli tesa da uno de’ capi de’ Tarentini ch’io chiamo Turio. Il personaggio di Bircenna, figliuola di Bardullide, da me detto Glaucia, re dell’Illirio, e moglie di Pirro, ha il suo fondamento nell’istoria. Quello di Sestia, figliuola di Fabbricio e fatta prigione con altri romani da Pirro, è introdotto per dar qualche motivo d’intreccio agli amori, senza i quali pare in oggi che un dramma non sarebbe plausibile. Qui parimente si finge esser corsa voce che Volusio, amante di Sestia e destinato suo sposo, dopo aver ucciso Megacle nella battaglia, vi restasse anch’egli morto dalle ferite, che vi aveva ricevute, e che poi risanatone si portasse in Taranto in abito di soldato macedone per uccidervi Pirro. Fingesi inoltre che Bircenna, gittata dalla tempesta non lungi dalle spiagge di Taranto, avendo quivi intesi gli amori di Pirro con Sestia, si fosse risoluta di assicurarsene con andarci in persona ma sotto nome di Glaucilla e senza farsi conoscere a chi che sia. Il rimanente s’intende dal dramma istesso, al quale han dato fondamento Plutarco nella Vita di Pirro, Valerio Massimo e Floro e altri antichi scrittori.