Mitridate, Venezia, Pasquali, 1744

 SCENA VIII
 
 LADICE e ARISTIA
 
 LADICE
245Aristia, è tempo omai che tu mi tolga
 certi dubbi dall’alma e che mi sveli
 quell’arcano fatal, per cui riposo
 non ho. Tu di Farnace
 tutto godi il favor. S’ei me sovente
250degna di sua presenza,
 Aristia n’è cagion; ma gli occhi suoi
 al fianco di Ladice
 non cercano che Aristia. Ogni altro oggetto
 gli è indifferente o abbietto.
 ARISTIA
255Regina...
 LADICE
                    Ond’è che la real mia figlia
 egli solo disdegna?
 E pur, né mi fa inganno
 materno affetto, a quai sembianze il cielo
 largo più de’ suoi doni e più cortese
260fu mai? Qual altra ebbe più nobil core?
 Virtù più pura? Il men che in lei si ammiri
 è lo splendor di sua natia grandezza.
 Anche in sorte privata
 regnerebbe su l’alme. Il solo, il solo
265Farnace è che la sprezza. E perché mai?
 Vano è tacerlo più. Dillo. Tu il sai.
 ARISTIA
 E che dirti poss’io? Non è Farnace
 né selvaggio né ingiusto
 per la bella Apamea. Ne’ suoi pensieri
270penetrar non mi è dato.
 Ma sovente ei mi parla a core aperto
 di lei; n’esalta il merto,
 le virtù, la beltà. Ciò che tu stessa
 ne pensi, egli ancor pensa e a me lo dice.
 LADICE
275Lo dice a te? S’egli l’amasse, Aristia,
 perché dirlo a te sola?
 Guardati d’ingannarmi. Ei non ti parla
 di lei. Di te ti parla.
 ARISTIA
 O dei! Di me?
 LADICE
                             Sì, di te sola; o amante
280di lui ti credo; o tu colei mi addita
 su cui debba infierir. Sappil; tel giuro,
 qualunque sia, che ardisca
 co’ suoi mal nati affetti
 quei del prence sedur, vedrà sin dove
285giunger possano l’ire
 d’una regina e madre.
 L’altra figlia ho perduta.
 Mi è rimasta sol questa.
 Ella è per me gioia, tesoro e quanto
290amar posso e temer. Per vendicarla
 non v’è fren che mi arresti.
 I suoi torti son miei. S’anco ella stessa
 sofferirli potesse, io nol farei.
 Pensaci. O tu l’amante
295mostrami di Farnace o tu la sei.
 
    Guai per te, se tu sei quella.
 Strapperò dal sen quel core
 e ancor caldo, ancor fumante
 al tuo amante,
300dono infausto, il recherò.
 
    Sarà questo il fin funesto
 di quel vil superbo amore
 che ad un talamo reale
 spiegò l’ale e l’insidiò.