Mitridate, Vienna, van Ghelen, 1728

 SCENA XII
 
 FARNACE, APAMEA e DORILAO
 
 FARNACE
 Generosa Apamea, deh! che mi giova
1020la tua pietà?
 APAMEA
                          Che temi?
 FARNACE
 Tutto, e Ladice e Mitridate e ferro
 e tosco... O Aristia! O sposa! Ogni momento
 me la presenta in vario aspetto esangue.
 APAMEA
 So il furor de la madre;
1025ma so ancora il suo amor.
 DORILAO
                                                 Né Mitridate
 te irriterà, che tieni
 il favor de’ soldati e sei nel campo.
 FARNACE
 Oh! Fossi in Eraclea. Là il cor mi chiama,
 là il dover, là d’Aristia...
1030Perdonami, Apamea. Te ancor presente,
 dissimular non posso
 un amor che ti offende.
 Di me stesso non son, sono di morte.
 APAMEA
 (Felice Aristia, io cangerei ben sorte).
 DORILAO
1035Ma che risolvi alfine?
 FARNACE
 Seguire il fato e ritornare al padre.
 APAMEA
 Teco io sarò. De la regina al core
 parleran le mie lagrime.
 FARNACE
                                               Non poca
 parte di mia sciagura
1040è la necessità d’esserti ingrato.
 APAMEA
 Salverò Aristia e a costo
 anche de l’amor mio sarai beato.
 DORILAO
 Né in vil ozio starò. Te seguiranno
 fra poco in tua difesa
1045i più forti del campo,
 me duce. È di Apamea sovrano impero
 tentar tutto in tuo pro.
 FARNACE
                                            Quest’anche? Oh! Fossi
 in libertà di amarti;
 ma tu già intendi il mio dover qual sia.
 APAMEA
1050Il tuo dover fa la miseria mia.
 FARNACE
 
    Occhi bei, voi mi vedreste
 arso il cor dai vostri rai,
 se in me cor trovato aveste,
 quando prima io vi mirai.
 
1055   Nel piacer del vagheggiarvi
 il dover mi rammentai;
 né potendo alora amarvi,
 mi ritrassi e sospirai. (Presa per mano Apamea si incammina con essa verso la città e Dorilao entra nelle tende, seguito dai soldati)
 
 Segue il ballo di marinari orientali che sbarcano dalle navi.
 
 Fine dell’atto terzo