Mitridate, Vienna, van Ghelen, 1728

 SCENA VIII
 
 LADICE e ARISTIA
 
 LADICE
 Aristia, è tempo omai che tu mi tolga
 certi dubbi da l’alma e che mi sveli
245quell’arcano fatal, per cui riposo
 non ho. Tu di Farnace
 tutto godi il favor. S’ei me sovente
 degna di sua presenza,
 Aristia n’è cagion; ma gli occhi suoi
250al fianco di Ladice
 non cercano che Aristia. Ogni altro oggetto
 gli è indifferente o abbietto.
 ARISTIA
 Regina...
 LADICE
                    Ond’è che la real mia figlia
 egli solo disdegna?
255E pur, né mi fa inganno
 materno affetto, a quai sembianze il cielo
 largo più de’ suoi doni e più cortese
 fu mai? Qual altra ebbe più nobil core?
 Virtù più pura? Il men che in lei si ammiri
260è lo splendor di sua natia grandezza.
 Anche in sorte privata
 regnerebbe su l’alme. Il solo, il solo
 Farnace è che la sprezza. E perché mai?
 Vano è tacerlo più. Dillo. Tu ’l sai.
 ARISTIA
265E che dirti poss’io? Non è Farnace
 né selvaggio né ingiusto
 per la bella Apamea. Ne’ suoi pensieri
 penetrar non mi è dato.
 Ma sovente ei mi parla a core aperto
270di lei; n’esalta il merto,
 le virtù, la beltà. Ciò che tu stessa
 ne pensi, egli ancor pensa e a me lo dice.
 LADICE
 Lo dice a te? S’egli l’amasse, Aristia,
 perché dirlo a te sola?
275Guardati d’ingannarmi. Ei non ti parla
 di lei. Di te ti parla.
 ARISTIA
 O dei? Di me?
 LADICE
                              Sì, di te sola; o amante
 di lui ti credo o tu colei mi addita,
 su cui debba infierir. Sappil; tel giuro;
280qualunque sia che ardisca
 co’ suoi mal nati affetti
 quei del prence sedur, vedrà sin dove
 giugner possano l’ire
 d’una regina e madre.
285L’altra figlia ho perduta.
 Mi è rimasta sol questa.
 Ella è per me gioia, tesoro e quanto
 amar posso e temer. Per vendicarla
 non v’è fren che mi arresti.
290I suoi torti son miei. S’anco ella stessa
 sofferirli potesse, io nol farei.
 Pensaci. O tu l’amante
 mostrami di Farnace o tu la sei.
 
    Guai per te, se tu sei quella.
295Strapperò dal sen quel core
 e ancor caldo, ancor fumante
 al tuo amante,
 dono infausto, il recherò.
 
    Sarà questo il fin funesto
300di quel vil superbo amore
 che ad un talamo reale
 spiegò l’ale e l’insidiò.